Matteo Renzi (foto LaPresse)

Comunque vada, Milano dice Sì

Redazione

"Piutost che nient l’è mei piutost”, filosofia forse sbarazzina ma certo in linea con la storia e il momento psicologico della città

Vada come vada domenica, Milano sceglie il Sì. E’ una realtà fuori dalle ansie dei numeri, che pure tengono tutti sul filo in queste ore, perché è prima di tutto una scelta di cuore, di senso della vita, di metodo politico e civile. Si, proprio di metodo. Milano dice Sì perché “piutost che nient l’è mei piutost”, filosofia forse sbarazzina ma certo in linea con la storia e il momento psicologico della città, impegnata a cercarsi un ruolo nel secolo più “global” della storia che però va premiando, all’equatore come ai poli, chi sa mettere in campo identità forti e ben definite. Però è un Sì tutto originale, fuori da ogni adesione timorosa o ovvia. Chi ne dubita ascolti le parole di Beppe Sala, perfetto interprete di questa Milano disincantata e post-ideologica (ma verrebbe da dire post-tutto, cioè post Milano da bere, post Milano capitale morale e così via). Dice Sala: “Se vince il Sì farò il senatore, ma non più di un giorno a settimana”. Eccolo il prototipo perfetto del Sì in versione meneghina, una apertura di credito alle riforme di impronta renziana, ma al tempo stesso un richiamo drastico ai tempi da rispettare, ai risultati da ottenere.

Insomma uno schiaffo, benevolo quanto si voglia, ma pur sempre uno schiaffo, alle troppe lentezze del Palazzo romano, con i suoi commessi dai guanti bianchi. Il Sì da Sala poi non è soltanto l'adesione del sindaco in carica. Si porta dietro tutti i variegati Sì dei suoi predecessori, pur espressi nelle forme più disparate. C’è il “quasi Sì” di Giuliano Pisapia, che per il suo mondo di riferimento a sinistra del Pd è una specie di bomba atomica. Anche perché lui sarà uno dei punti di riferimento di quell’area politica dopo il 4 dicembre. C’è il Sì garbato di Letizia Moratti, che poco o nulla ha in comune con i suoi due successori ma nella partita referendaria finisce dalla stessa parte, in nome di un unico collante: la profonda milanesità di questo voto. E poi c’è la convinta adesione di Gabriele Albertini, amato “amministratore” del condominio metropolitano per due mandati. Lui, atipico uomo di destra voluto all’epoca da Silvio Berlusconi non ce la fa proprio a stare dalla parte del No, proprio perché sente il richiamo della sua foresta, cioè quel che resta della borghesia milanese. Infine c’è il Sì di Carlo Tognoli, volto serio e credibile della Milano socialista, quella Milano che tanto ha goduto nel finire della Prima repubblica e tanto ha sofferto nella Seconda.

Il suo è un assenso riformista, per quel che ancora vale la parola, è un Sì da innamorato della politica purché sappia anche concludere qualcosa. Ed è anche un Sì contro, se permettete l’ossimoro. Contro quel pezzo di sinistra che ha dipinto lui e tutti quelli con il garofano come dei mostri, e che ancora si fa sentire in città e in Italia. Messi in fila, tutti questi Sì pieni e mezzi pieni fanno una certa impressione, perché sono la prova documentale di quale filo rosso tenga insieme parole e ragionamenti che scorrono in città. E lo si capisce ancor di più ascoltando i No, almeno due di quelli importanti. C’è il NO teatrale di Silvio Berlusconi, che sa perfettamente essere funzionale al suo ruolo politico dare una mazzata a Matteo Renzi. Però è un No che gli esce dalla bocca e dalla testa, ma non è quello che il suo linguaggio del corpo pronuncia. Indebolire Renzi gli conviene, ma “l’accozzaglia” del No gli appartiene come la bandiera dell’Inter. E poi c'è il No di Stefano Parisi (del suo progetto parliamo nella colonna “Politics” qui a fianco), lucido, schietto, argomentato. E’ un No con motivazioni, m eppure vissuto come l’influenza d'autunno, te la devi prendere perché la vita è fatta così. E da persona seria quale è, Parisi vi si adegua con rigore. Insomma Milano è per il Sì, con il cuore e con la testa. E sarà vero qualunque sia il risultato numerico di domenica. Perché i voti si contano, ma anche si pesano.

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