Matteo Salvini (foto LaPresse)

Sotto la felpa, nulla (o quasi). Tutti i flop dell'ipermediatico Salvini

Renzo Rosati

Le aspirazioni nazionali frustrate, il trumpismo di rincorsa e la spaccatura della Lega nell’operoso Veneto

Roma. Fra i trumpisti della destra antipolitica italiana – Forza Italia o ciò che ne resta – qualcuno sta brindando prematuramente al successo del tycoon newyorkese: parliamo del leader della Lega Nord Matteo Salvini che pure il 26 aprile con i buoni uffici del National italian american political action committee, lobby repubblicana italoamericana, volò a Wikes Barre, Pennsylvania, per la foto a pollice alzato con l’allora candidato alle primarie. Il quale poi disse di non conoscerlo. L’antefatto, con coda di imbarazzate email, ha una conferma nei primi contatti di Donald Trump con gli esponenti del populismo europeo. Primo ospite alla Trump Tower è stato Nigel Farage, che nell’Europarlamento siede tra molte baruffe nel gruppo “Libertà e democrazia diretta” assieme ai grillini. Dopo il successo sulla Brexit, Farage ha definito Salvini “troppo a destra”; eppure The Donald sembra aver gradito i complimenti, oltre che di Farage, di Marine Le Pen, del leader euroscettico olandese Geert Wilders, del capo del partito di destra austriaco Heinz-Christian Strache, questi ultimi ospiti di Trump, non imbucati, alla nomination e la sera della vittoria. Dunque?

 

 

Nel ciclone che dagli Stati Uniti investe l’Europa, Trump sembra puntare per il momento – dopo il presidente russo Vladimir Putin e in attesa di vedersela con la cancelliera tedesca Angela Merkel – su chi può far saltare il banco nei rispettivi paesi: il 4 dicembre l’Austria ripete il ballottaggio presidenziale, nel 2017 si vota in Francia e Olanda. In Italia Salvini ha un ruolo marginale, a differenza di Grillo che gli ha praticamente mangiato l’erba sotto i piedi. Il segretario della Lega è in difficoltà su tre fronti: il progetto di “nazionalizzare” il Carroccio sfondando a Roma e al Sud è fallito; è in seri guai nei Veneto dove è caduto il sindaco di Padova, dopo aver perso un anno fa Verona e mentre a Venezia Luigi Brugnaro, auspice il Foglio, ha annunciato a Matteo Renzi il proprio Sì al referendum del 4 dicembre; quanto al dopo referendum la distanza con l’ala dialogante e filo-nazarenica di Forza Italia, da Silvio Berlusconi e Stefano Parisi in giù, è ormai abissale. Berlusconi ha dichiarato che in caso di vittoria del No “sarà il presidente della repubblica a decidere”, offrendosi di sedere al tavolo della riforma della legge elettorale prima di tornare alle urne. Salvini sostiene esattamente il contrario, con Giorgia Meloni e Giovanni Toti: “Dopo il No si vota, Mattarella non conta”.


Ma non ha i numeri, mentre nel suo partito l’ala meno populista, in quanto governa Lombardia e Veneto, è cioè Roberto Maroni e Luca Zaia, lo attende al varco per il congresso di inizio 2017. La situazione nelle due regioni simbolo del leghismo è esplosiva. Alle comunali di Milano Parisi, con un programma moderato, non solo ha sfiorato il successo contro Beppe Sala, non solo ha stracciato i grillini, ma ha anche doppiato la Lega alla cui lista guidata da Maroni sono mancati i voti dei duri salviniani. E legato a Maroni è Flavio Tosi, espulso da Salvini nel 2015 ed ora in rotta di convergenza con Parisi e in buoni rapporti con Renzi. Verona ha circa gli stessi abitanti di Venezia (260 mila) ma è economicamente più strategica sia per ricchezza sia come interporto del Nord Europa e della Germania. A Venezia Lega e Brugnaro sono divisi su tutto, dal Sì al referendum all’Europa fino alla separazione di Mestre, sponsorizzata dalla Lega e bocciata dal sindaco. Padova, appena espugnata al Pd, non è caduta per “quattro consiglieri in passamontagna” ma per una scelta dell’ala di Forza Italia che guarda a Parisi e Berlusconi. Si tratta delle città e province più popolose del Veneto, dove sono concentrati due terzi del Pil di una regione che a sua volta ha come primi mercati per l’export Germania, Francia e Stati Uniti. Considerato che Vicenza, Treviso e Belluno sono già in mani Pd, Zaia ha più di un motivo di preoccupazione. L’idea di Salvini è togliere la parola Nord dal simbolo della Lega: non basta se però non rappresenti il resto d’Italia, e all’estero sei meno cool di un Beppe Grillo.

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