Silvio Berlusconi e Stefano Parisi (foto LaPresse)

Tra i due Matteo

Ora tocca a Parisi. Come funziona il rapporto tra il Cav. e i suoi mille delfini

Salvatore Merlo

Dal 1994 a oggi Berlusconi incorona e revoca eredi, dà e toglie, poi a volte di nuovo dà (e di nuovo toglie)

Roma. “Non sopporta nessuno che lontanamente possa essere il suo successore, nemmeno con il suo sostegno”, dice con un lampo d’ironia Fabrizio Cicchitto, che lo conosce bene. E allora viene da pensare che alla fine, forse, a Villa San Martino rimarrà solo Dudù, perché, parafrasando Truman, “in politica se non hai un delfino, fatti un cane”. Era infatti una sera di luglio quando Stefano Parisi fece il suo ingresso ad Arcore, a cena, sponsorizzato – nientemeno – da Marina e da Fedele Confalonieri. “A Berlusconi ho illustrato il mio progetto, a lui piace ciò che io sto facendo. Vuole che ci sia dell’aria nuova”, diceva, mentre il Cavaliere, issandolo in groppa a quel partito lietamente squinternato che si chiama Forza Italia, intanto lo esponeva come il drappo rosso alle corna dei torelli, “non abbiamo bisogno di Parisi. Non siamo mica un’azienda fallita”, sibilava Matteoli, e Brunetta, spiccio, al solito: “Darà il suo contributo mai poi via, filare, via”. Con altri che invece pettinavano le intenzioni del Cavaliere supremo per il verso giusto: “Parisi è l’ennesima idea geniale di Berlusconi” (Furlan), “adesso tutti con Parisi” (Prestigiacomo), “con Parisi si prefigura un nuovo 1994” (Giro). Ma dopo appena quattro mesi, cioè martedì, il nuovo 1994 è già finito. “Parisi sta cercando di avere un ruolo all’interno del centrodestra ma avendo questa situazione di contrasto con Salvini credo che questo ruolo non possa averlo”, ha detto Berlusconi, con negligenza. E Parisi: “Si tenga Salvini, così perde”. Ah, i delfini di Arcore! Non c’è destino più incerto. Oggi sei Icaro che vola, domani sei Icaro che precipita. Ma se gli conviene, il Cav. che toglie è anche capace di ridare (e di ritogliere).

E si sa, Berlusconi tende a un’ambiguità suggestiva, a un gioco cinico e paradossale di amori oscuri. Ogni tanto s’aggira, come il lama Norbu nel film di Bertolucci, alla ricerca del piccolo Buddha, cioè della improbabile reincarnazione di se stesso, l’erede, il nuovo leader. Eccolo allora ciclicamente impegnato a cogliere segnali, sguardi, sogni, presagi, scrutando facce ed eloquio felice. E poiché oltre a essere imprevedibile è anche un po’ sadico, qualche giorno fa aveva già elaborato il pensionamento anticipato, la revoca dell’incoronazione di Parisi precipitata martedì tra la ola di alcuni (“per me quello è durato pure troppo”, Rotondi) e la disperazione di altri (“magari Silvio ci ripensa”, Tajani). E infatti con un sorriso innocente, il prestigiatore supremo, venerdì, era stato sentito chiedere, in una di quelle telefonate opportunamente fatte di fronte a tutti: “Ma tu che ne pensi di Mara Carfagna?”. Così che, tra gli infiniti delfini del delfinario di Arcore, e tra gli svenimenti dei cortigiani – “ma lo sai cosa mi ha detto?” – a un certo punto, neanche il tempo che Parisi si spiaggiasse, già emergeva pure lei, Mara, come il mitico Flipper del famoso telefilm, dando origine ancora una volta, come sempre capita in questi casi, a una catena di ansiose, fantozziane propalazioni, a un affannoso gioco del telefono senza fili tra onorevoli e senatori, capigruppo e coordinatori, sostenitori di Matteo Salvini e felpatissimi tifosi di un nuovo Nazareno.

Ma forse Berlusconi in realtà non cerca un delfino cui consegnare sorte e futuro, quanto piuttosto un cetaceo da esibire quando la stagione inizia, e da riporre a stagione finita. Potrebbe, come niente. Potrebbe cedere lo scettro. Ma forse non vuole. Magari l’originale sì, quello sì lo vorrebbe, purché sia il suo perfetto riflesso nello specchio. Purché sia lui il delfino di se stesso. “Ma non credo possa candidarsi”, ripete spesso Giovanni Toti, che ha pure lui un recente passato da delfino ormai quasi dimenticato, quando fu rapidamente issato in alto, lassù in cima a un balcone, in ginnica tuta bianca, a rimestare tisane senza zucchero in una beauty farm sul Lago di Garda, a fianco di un Cavaliere sorridente (che però si presentava, con scelta strategica, tutto vestito di scuro: il nero, si sa, sfina). Anche Toti, per mesi, fu bersaglio di invidie, veleni, coltelli veri e metaforici che balenavano nell’ombra a ogni angolo. Poi fu archiviato, perdonato dai cortigiani, e arruolato contro il delfino successivo.

E dunque Parisi non è il primo, e non sarà probabilmente nemmeno l’ultimo. Alcuni eredi Berlusconi li ha consumati come le suole delle scarpe: risuolatura, rimonta, abbandono. Casini, Fini, Alfano, Tremonti, Scelli, Bertolaso, Brambilla, Samorì, Fiori, Martinelli (sì, ci fu anche il gelataio di Grom), e poi il signor Barilla, Paolo Del Debbio, Alemanno, e persino le figlie Marina e Barbara (“Barbara mi ha scatenato l’inferno nel Milan. Ma è brava, tosta. Forse non ha l’età, però…”).

La narrazione e la pantomima raggiungono in lui una grazia acrobatica. Ma nel suo pazzotico fascino c’è anche una sfacciataggine, o una sapienza di istrione, che si accompagna sempre al calcolo: chissà come va il referendum – pensa Berlusconi – magari passa magari no, ma intanto, nel dubbio, se Parisi non piace a un possibile alleato come Salvini, mollarlo (per poi anche ripescarlo) non costa nulla. A lui non costa nulla. Alfano, d’altra parte, fu innalzato infinite volte, e infinite volte rovesciato. 14 aprile 2011: “Il mio successore potrebbe essere Alfano”. Il 5 maggio: “Mai detto che Alfano è il mio successore”. Il 9 luglio: “Il candidato premier del centrodestra sarà Alfano”. In continuazione, Angelino annegato e resuscitato. Fino alla sentenza del Giornale: “Berlusconi deluso da Alfano”. Quello dell’erede è un gioco elusivo che simula la crudeltà, disseminato di innocui cadaveri, un gioco al cui fondo rimane solo Berlusconi, il sorriso appena accennato in una contenuta adorazione di sé. “Se ti dicessi i nomi di tutti gli eredi di De Mita ti perderesti. Nessuno se li ricorda più, mentre De Mita è ancora sindaco di Nusco. Ecco, Berlusconi ha nove anni in meno di De Mita… Quindi figurati”, dice Rotondi. Dopo di me il diluvio, è la vecchia aspirazione del Cavaliere. E morto un delfino se ne fa un altro. “Mara, che ne pensi tu di Mara?”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.