Carlo Pucci durante il processo di Mafia Capitale (foto LaPresse)

Mafia capitale era una fiction

Salvatore Merlo
La teoria del mondo di mezzo, con Roma che sembrava essere diventata la nuova Corleone d’Italia, continua a perdere pezzi. Dopo Cantone, ieri 117 richieste di archiviazione. Il caso De Cataldo. Storia di un flop annunciato.

Roma. “Ce li abbiamo tutti in mano”, “per i soldi se so’ scannati”, dicevano al telefono Luca Odevaine e Salvatore Buzzi, mentre i carabinieri intercettavano e registravano per conto della procura di Roma, l’ufficio che ieri ha clamorosamente chiesto l’archiviazione per centodiciassette imputati nell’inchiesta Mafia Capitale, imprenditori, avvocati, ma soprattutto politici, tra cui Gianni Alemanno (ancora indagato per corruzione e finanziamento illecito) e Nicola Zingaretti, il presidente della regione Lazio il cui coinvolgimento nelle indagini è stato reso noto solo ieri, cioè con il proscioglimento, un caso di rispetto della privacy e delle garanzie più unico che raro nel paese dei processi mediatici, delle intercettazioni libere, e del massacro preventivo. “Ce li abbiamo tutti in mano”, “per i soldi se so’ scannati”, dicevano dunque Odevaine e Buzzi, felici di trattare la politica come materia infima, come i monatti che facevano affari con gli appestati, come gli spacciatori con i drogati, fornendo a loro insaputa materiale per le pagine dei quotidiani, e propellente umorale per quel partito della rabbia che di lì a poco avrebbe vinto le elezioni a Roma. E più esageravano al telefono, più erano imprecisi, più si rafforzava in loro l’idea che “siamo tutti carogne”: perché nell’esagerazione, nella millanteria, nella sparata iperbolica, c’è l’autoassoluzione, cioè la sostanza stessa, la cifra delle rivelazioni, delle allusioni, delle mezze parole e delle chiamate in correità cui Buzzi si è abbandonato a partire da giugno del 2015, a sei mesi dal suo arresto per associazione a delinquere di stampo mafioso, di fronte a quei magistrati che ora un po’ gli credono e un po’ no: quelle accuse nei confronti di Alemanno, di Zingaretti e delle altre centoquindici persone da ieri prosciolte. “Alemanno si è portato via… ha fatto quattro viaggi lui e il figlio con le valigie piene de’ soldi in Argentina… se so’ portati le valigie piene de contanti, me l’ha detto uno della Polaria”, dicevano. E ci si doveva proprio immaginare Alemanno nei panni del malversatore tonto e del tangentista maldestro, così sfigato da portare il denaro contante verso l’Argentina a un passo dal suo secondo default tecnico, con le banche tutte sull’orlo del fallimento. E insomma più Buzzi la sparava grossa e più credeva di essere pulito, perché maneggiava un mondo di correi e di dannati della terra, “una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso”, il “mondo di mezzo” che dalla realtà finiva nel cinema, e viceversa.

 

Ma Alemanno era “quello della parentopoli” cavalcata dai giornali, e Roma, mentre queste intercettazioni e queste accuse vagavano contundenti nell’aria e nell’etere televisivo, davvero si riempiva sempre più di monnezza, faceva i conti con l’amministrazione bislacca di Ignazio Marino, dunque con gli autobus stracarichi e puzzolenti, con i parchi pubblici trasformati in foreste infrequentabili o in sozze pattumiere. Tutto era credibile, dunque creduto. Verosimile, eppure troppo impastato di storie, vicende, fatti politici e giudiziari che trovavano unità nella complessità solo grazie alla potenza della parola “mafia”, un’immagine capace di tenere insieme fenomeni che forse non stavano insieme, quasi un’operazione artistica. E infatti da subito, quando ancora non c’erano stati i primi proscioglimenti (per Alemanno è il secondo), ancora prima di questa ultima e colossale richiesta d’archiviazione per centodiciassette persone – mastodontica, com’è tutto mastodontico in questo suggestivo lavacro di giustizia – sin dall’inizio, si diceva, i contorni dell’inchiesta apparivano evocativi e letterari, stracarichi di simbologia, sospesi tra intercettazioni e sceneggiato tv, in continua suspense tra realtà e finzione, in una città, Roma, in cui però si consumava sul serio il falò dell’abbandono amministrativo e del degrado urbano. Tutto un regno labirintico cosparso di trabocchetti di senso nei quali ancora oggi si rischia di cadere a ogni passo.

 


Gianni Alemanno (foto LaPresse)


 

E insomma in questa vicenda, in questa osmosi tra cronaca cittadina e azione giudiziaria, si consuma forse il processo pubblico, di piazza, al degrado e alla decadenza di Roma, alla monnezza e alla clientela pluriennale, all’incuria amministrativa e al grottesco dominante nella vita pubblica capitolina, tutto un impasto imprendibile, un intreccio esasperato che come sempre avviene in Italia è interpretato dal sopravanzare della magistratura, prende cioè l’aspetto di un cerchio di fuoco nel quale saltare tutti a colpi di codice penale e di 416 bis. Dunque tutto diventa infuocata materia da tribunale speciale del popolo, un rovo contorto di buone intenzioni e di esagerazioni – perché sono sempre le belle bandiere a eccitare le pulsioni più grevi, e poi violente – cui forse non sono estranee la strabiliante ed esemplare supercondanna a tre anni chiesta contro Ignazio Marino (per il reato di peculato), e nemmeno il sentimento, sospeso tra rabbia e pasquinata, che a Roma ha portato alla vittoria di Virginia Raggi e del Movimento cinque stelle, ovvero di quelli che “noi non facciamo compromessi e non facciamo prigionieri”.

 

Tutto si tiene allora, perché questa mafia senza rituali né omicidi, senza cadaveri infilati nel cemento armato, senza la “famiglia” e senza la “commissione”, priva della struttura militare dei “soldati” e dei “capidecina”, senza il radicamento e il controllo del territorio, senza l’uso bestiale, sistematico ed estensivo della violenza armata, si rivela alla fine, per sottrazione, semplicemente Bagaglino, cioè strapaese, volgarità e rapina ordinaria, cresta e ricotta di una città profondamente in crisi, debilitata, capace però di ricondurre tutto il male – in uno straordinario sforzo di semplificazione e di catarsi – a questa parola così evocativa: “mafia”, appunto, applicata alla criminalità becera e un po’ spavalda di Roma, cioè all’universo dei grassatori e dei cravattari della suburra, e ovviamente al mondo odiato della politica, causa delle disfunzioni clientelari che pure piacevano e creavano consenso, un mondo che avrà delle colpe, che ha forse dei colpevoli, ma che ieri ha visto il proscioglimento di centodiciassette indagati tra cui Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma che il suo processo e la sua condanna li ha già subiti per gli anni passati in Campidoglio: non rieletto. Lo stesso concetto, anche se con più prudenza, lo ha espresso persino Raffaele Cantone, capo dell’Anti corruzione: “Su Roma non mai segnalato alle procure ipotesi di 416bis”, il reato di associazione mafiosa.

 

E allora bisogna stare attenti a distinguere le responsabilità politiche da quelle penali, la mafia da una banda di cravattari, la piovra della corruzione miliardaria nelle grandi opere pubbliche dal racket delle pulizie e delle piccole cooperative che raccolgono le foglie morte nei parchi, e persino saper distinguere un’intercettazione e una smargiassata telefonica da una sentenza di condanna, cosa che invece nel pasticcio mafioso capitale, in questo sfogo in cui verità e finzione danzano avvinghiate come figure del valzer, non avviene. Così si realizzano anche paradossi meta-letterari che sarebbero forse piaciuti a uno scrittore dalla fantasia sbrigliata come Kurt Vonnegut. E allora ecco che al processo salta fuori che Giancarlo De Cataldo riceveva telefonate da Buzzi. E insomma l’autore di “Romanzo Criminale” e di “Suburra”, i libri di fiction che hanno per protagonista Massimo Carminati, la banda della Magliana e poi la fanghiglia dei grassatori e ricottari capitolini, il magistrato che stava in procura e poi è passato al tribunale, l’uomo che ha fornito la scenografia suggestiva sulla quale s’è impasticciata tutta questa contorta vicenda, conosceva Buzzi, ci parlava persino al telefono, come un po’ tutti, a quanto pare. Ma la cosa più incredibile, dove il procedimento meta-letterario ha il suo climax e il suo scioglimento, è che in una telefonata intercettata fra i due, Buzzi dice a De Cataldo, proprio a lui: “Oh, lo sai chi lavora co’ noi? Che te fai una risata ora, che è venuto a lavora’ co’ noi? Carminati! C’ho pure Carminati, mo’”. Torna così utile quella definizione emersa dalle intercettazioni telefoniche (a proposito: sono le intercettazioni che si fanno letteratura o è la letteratura che si fa attraverso le intercettazioni?), torna insomma ancora una volta utile il “mondo di mezzo”, quel luogo dove tutto si mischia, dove tutto è possibile, anche che lo scrittore incontri i personaggi dei suoi romanzi, come nel racconto “La fille de papier” di Guillaume Musso, “la vidi prendere forma, separarsi dalle parole e farsi carne”: il vero, il verosimile, il falso, l’assurdo e il fantastico. Tutto è reale, ma anche no, nella Mafia Capitale, come una doppia verità, un doppio sogno.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.