Marco Travaglio (foto LaPresse)

Davigo, Travaglio e la bufala dei magistrati iper produttivi

Luciano Capone
I magistrati italiani sono i più produttivi d’Europa. E’ ciò che sostiene l’Associazione nazionale magistrati o chi se ne fa portavoce, come Marco Travaglio. Peccato che non sia vero: l’Ocse non ha stilato alcun ranking del genere.

Roma. I magistrati italiani sono i più produttivi d’Europa. E’ ciò che sostiene l’Associazione nazionale magistrati o chi se ne fa portavoce, come Marco Travaglio che domenica scriveva: “I nostri magistrati sono i più produttivi tra i 54 membri del Consiglio d’Europa”. Solo poco tempo fa il direttore del Fatto quotidiano attribuiva la graduatoria a un’altra organizzazione: “L’Italia ha i magistrati più produttivi di tutti i paesi Ocse”.  Qualcosa non deve funzionare a dovere nella proverbiale memoria di Travaglio, visto che l’Ocse non ha stilato alcun ranking del genere e che il Consiglio d’Europa ha 47 stati membri e non 54. Per capirne di più e avere informazioni più affidabili occorre andare alla fonte, Piercamillo Davigo quindi. Il neo eletto presidente dell’Anm spiegava pochi giorni fa di cosa si tratta: “I magistrati italiani sono i più produttivi dei 48 Stati del Consiglio d'Europa (sono 47, ndr), lo dice la Commissione Europea per l’efficienza della giustizia (Cepej) che pubblica ogni biennio un rapporto sull’andamento della giustizia. I dati parlano da soli. Noi produciamo il doppio dei nostri colleghi francesi e il quadruplo dei tedeschi”.

 

La verità è che i numeri non parlano mai da soli, spesso sono dei ventriloqui a farlo al posto loro. Nel caso in specie, se potessero, certamente si esprimerebbero in termini diversi. Innanzitutto perché la Cepej, che raccoglie i dati sulla giustizia inviati da ogni paese membro, in più parti del rapporto precisa che non è possibile stilare classifiche vista l’eterogeneità dei dati e degli ordinamenti. In effetti il numero sui casi chiusi pro-capite, che è l’indice di produttività considerato, non specifica se si tratta di sentenze, prescrizioni, decreti penali o annullamenti, perché i criteri usati dalla Cepej non sono uguali per tutti i paesi, che hanno sistemi giudiziari differenti. Dire che in un cesto ci sono più acini di uva che pere o meloni è un’informazione non molto utile e che anzi trae in inganno se non si spiega bene che si tratta di frutti diversi.

 

Che il sistema giudiziario italiano, uno dei più lenti del continente, abbia magistrati che rendono quattro volte più dei tedeschi, produttivi al di là della sostenibilità umana, sembra poco credibile perché in genere ecosistemi inefficienti tendono a produrre disfunzioni più che eccellenze. L’Ocse (quella erroneamente citata da Travaglio), in un rapporto sulla giustizia (stavolta vero), scrive che “la durata dei procedimenti è più bassa e la produttività dei giudici è più elevata nei paesi che destinano una quota maggiore del bilancio della giustizia all’informatizzazione”. E purtroppo in Italia, a detta degli stessi magistrati, in questo campo siamo indietro.

 

Il problema, si dirà, è quindi che vengono destinate poche risorse alla giustizia. In realtà, sfogliando le oltre 500 pagine del rapporto Cepej, si scopre che dal 2004 al 2012 la spesa per il sistema giudiziario in Italia è aumentata di 600 milioni ed è ai livelli più alti d’Europa. Il problema è che “in Italia – scrive la Cepej – l’aumento del budget della giustizia registrato nell’ultimo decennio è dovuto all’aumento del costo dei giudici. Gli altri capitoli di spesa non hanno avuto nessun aumento sostanziale”. In pratica le risorse che potevano servire per informatizzare il sistema e aumentare realmente la produttività sono andate nelle tasche dei magistrati, spesa corrente anziché investimenti. Così in Europa la giustizia italiana è tra le più lente e i magistrati sono tra i più pagati, due indicatori che ci dicono qualcosa di diverso sulla produttività. Durante Tangentopoli, un periodo certamente entusiasmante per Davigo (e Travaglio), il socialista Rino Formica diceva del suo partito che “Il convento è povero, ma i monaci sono ricchi”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali