Umberto Bossi e Matteo Salvini - foto LaPresse

A tu per tu

Io Bossi, lui cita

Salvatore Merlo

Conversazione con l’Umberto, tra un sigaro e un panino al tacchino, ricordi da reduce (scazzottate e altre delizie) con rimpianti che bruciano. La Lega che fu e l’Italia di Renzi

Dice: “Io li picchiavo”, i fascisti. Matteo Salvini invece ci fa le manifestazioni e gli accordi elettorali. Lui aveva per modello la Csu bavarese, Salvini è antitedesco. “La Lega era europeista. Ma l’euro è stato fatto male. Ci siamo entrati male. E Salvini non ha tutti i torti”. Allora gli dico che Salvini ha cambiato tante cose, però ha mantenuto una continuità di stile, una certa sgrammaticatura violenta, l’uso abbondante e aggressivo del turpiloquio, per esempio. E gli dico esattamente così, all’Umberto: Salvini imita Bossi, ma è come una scimmietta che imita l’addestratore. E l’Umberto ride, e forse involontariamente cita Feuerbach: “L’uomo è ciò che mangia e ciò che respira”, dice. “Salvini ha mangiato e respirato Bossi tutta la vita. Il suo problema adesso non è prendere i voti. Sa come farlo. Ma questi voti, dopo che li prende, dove li porta? Che ci fa?”. Bossi ci faceva i governi, e quei voti li portava a Roma, dentro i ministeri, per contare e influenzare. E infatti, re dell’istinto, fiutatore e pirata, imbrogliava tutti, destra e sinistra, Forza Italia e Ds. Diceva: “Berluskaz è il più simpatico, un riccastro senza princìpi”. Oppure: “D’Alema è il più intelligente, è uno spasso parlare con lui di strategia”. E senza mai confondere il voltafaccia con il raggiro, faceva gli sberleffi alla politica. Era infatti un briccone innocente che seduceva e via via metteva nel sacco Occhetto e Segni, Scalfaro e Cossutta, Berlusconi e D’Alema… E lo animava una sorta di audacia sfrontata e tranquilla, una completa mancanza di scrupoli e la convinzione che il mondo politico fosse in fondo popolato di allocchi e che fosse sufficiente allungare una mano per cogliere un’occasione. “Ma è presto per dare un giudizio su Salvini”, mi dice. “Le parabole si analizzano alla fine”, mormora con voce debole, ma con il vecchio talento di sempre, quello di chi sa farsi un po’ Gian Burrasca e un po’ diplomatico.

 

Ai tempi d’oro di Arcore rifiutava il bitterino e le tartine al caviale e chiedeva Coca Cola e pizza. Poi, passeggiando con Berlusconi, esclamava: “Ué, fammi vedere il tuo Pinturicchio”. E quello si incantava: “E’ un animale politico, pieno di intuito e di fascino popolare”. Invece oggi alla Camera, in un giorno di seduta parlamentare, Umberto Bossi divora un panino con il tacchino in tre morsi, come fa quasi ogni pomeriggio quando è a Montecitorio: uno, due, tre. Finito. E a settantun anni la sua vitalità selvatica si rivela ancora, ma compressa nei dettagli: al bar gli si avvicina Giovanni Toti, il portavoce del Cavaliere, e allora Bossi sorridendo gli tira subito un cazzottone d’affetto. “Ahia. Ti prego, basta, già c’è Salvini che ci picchia tutti i giorni”. E in quel tirare pugni, in quel braccio destro ancora potente, non offeso dalla paralisi, è come se si fosse concentrata tutta la vigoria esplosiva del Bossi che era, quel distillato di fisicità e politica, quell’odore di tabacco, di vino scadente, di sudore, quel pionierismo muscolare che inventò la Lega pensando che l’Italia sarebbe diventata padana o non sarebbe più stata Italia, insomma quella forza della vita che dalle valli della Lombardia nel 1992 precipitò su Roma ladrona con la violenza ineluttabile d’un fenomeno atmosferico. “Ma lei non ha mai fatto a botte sul serio”, gli dico. “Come no? Mille volte”, risponde lui in un soffio, i capelli appena scarmigliati, la camicia slacciata, la giacca con appuntato un trifoglio irlandese, il volto segnato da solchi profondi. E la gioventù, le nottate di fatica e di cazzotti devono apparirgli oggi voluttuose e facili come una romanza napoletana.

 

"Ai primi tempi della Lega si faceva a botte con i comunisti, ma soprattutto con i fascisti, che mi hanno sempre fatto un po’ schifo”. E allora mi mostra la sua mano, mano da metallurgico, tozza e pesante come un blocco di marmo. E tira un cazzottone contro il bancone del bar: pam! Così quando mi stupisce raccontandomi che il suo poeta più amato è il siciliano Ignazio Buttitta (“da ragazzo trovai un libro di Buttitta in casa, qualche meridionale doveva averlo regalato a mio padre, che assieme a mio zio faceva assistenza agli immigrati”), quando mi cita quella poesia che si conclude così: “Chi cammina curvato torce la schiena / se è un popolo torce la storia”, allora gli dico che lui a Ignazio Buttitta gli assomiglia persino fisicamente: la stessa aria un po’ selvaggia di chi si è appena svegliato dopo aver dormito su una panchina, su un tram, in una vecchia automobile. “Ma io sulle panchine ci dormivo sul serio”. E dalla memoria emergono vecchi ricordi dimenticati, oscuri, lontani, tutta una dura esistenza sballottata. “Mi ricordo di una notte a Pizzighettone, in provincia di Cremona, zona di contadini rossi, pericolosa perché menavano. Facevo attacchinaggio notturno, mettevo su i manifesti della Lega, poi me ne andavo a dormire su una panchina dei giardinetti pubblici, per qualche ora. E quando mi svegliavo andavo a sciacquarmi la faccia raccogliendo l’acqua dalla fontana”.
Non si sente sconfitto, onorevole Bossi? Di federalismo non parla più nessuno. “I semi li abbiamo messi, stanno lì sotto terra. Potrebbero volerci anni, ma la storia è ciclica e le idee buone ritornano”. E quanto alla sconfitta, nella vita ci si abitua solo alla felicità, solo al successo. Al fallimento l’istinto umano oppone sempre invincibili barriere di speranza. E insomma nella politica non si sa mai, dice Bossi, bisogna girare, rigirare, rosicchiare l’osso fino all’ultimo. E chissà se in quest’uomo che tanto ha vissuto e comandato, che ha vinto e anche perso, che ha conosciuto il sapore del potere, cova una sorda insoddisfazione che non viene dal corpo malato quanto dall’anima. “Mi capita di pensare che forse abbiamo precorso i tempi con la Lega”, confessa.

 

“E’ stata una corsa da bestie. Prima c’è voluto molto tempo e fatica per far capire al nord che esisteva una questione settentrionale. Portammo alla luce cose confuse, oscure, ignote, che altrimenti sarebbero rimaste sepolte, sprofondate dentro il popolo del nord. Poi c’è voluto un sacco di tempo per convincere la gente che si dovevano fare le riforme costituzionali”. Poi niente, però: né federalismo, né secessione, né devoluzione, e riforme poche. “La riforma del Senato che vuole fare Renzi è come la nostra riforma, quella che ci fu bocciata dal referendum. A quel tempo però la sinistra era contraria perché così voleva il gioco della politica”. Ma lei con il federalismo contagiò tutti, persino D’Alema. “Facevano finta di essere federalisti. Il federalismo tirava e loro fiutavano l’aria. Senza crederci”. Eppure con D’Alema, che fu una sua vittima ingenua, Bossi organizzò il ribaltone del 1994, mangiando sardine, c’era anche Rocco Buttiglione, in un appartamento che il senatùr aveva in affitto a Roma: “Andai in cucina, aprii il frigorifero e ci trovai una confezione di pan carré, alcune scatole di sardine e tre o quattro lattine di birra”.

 

Ed è come una cariatide finalmente libera del suo fardello. Non si lamenta. Non porta rancore a nessuno. Non recrimina. “L’unica cosa che rimprovero a Salvini è la rottura con Flavio Tosi. E’ stato un eccesso di emotività. Salvini ha sbagliato, era ovvio che la rottura gli avrebbe portato dei problemi. Io sono sempre stato un impulsivo, ma certe volte piuttosto che esplodere mi buttavo nell’acqua di una fontana”. E i ricordi s’inanellano nelle parole di Bossi, azzurri e imprendibili come il fumo del suo sigaro Garibaldi (“prima della malattia mi facevo cento Marlboro rosse al giorno. Fumare fa male, ma chi vuole salvarsi la vita a tutti i costi finisce sempre con il perderla”), vividi come il sapore dello zenzero candito che divora e che assaggio anche io: “Con Berlusconi litigai furiosamente, feci anche cadere il governo, ci dicemmo cose irripetibili. Ma poi tornammo insieme”. Perché? “Perché conveniva”.

 

E insomma l’umoralità, loro, la tenevano sotto controllo. “Con l’età invece, invecchiando, si diventa meno elastici, non si spiega altrimenti la baruffa tra Berlusconi e Fini, la rottura da cui è cominciata la dissoluzione del centrodestra”. Dunque il centrodestra si sta dissolvendo? “Si è già dissolto da tempo. Ora si sta dissolvendo Forza Italia, perché non c’è più Berlusconi… Però nemmeno la sinistra se la passa bene”. A sinistra c’è Renzi. “Ah, perché Renzi è di sinistra?”. Non le piace Renzi. “E’ un furbetto, tanto fumo e niente arrosto. Un venditore”. Come il Cavaliere, gli dico. E allora sul volto di Bossi cala l’ombra del sorriso malizioso d’un tempo. Poi i suoi occhi scivolano con vitrea indifferenza sullo schermo che trasmette i lavori dell’Aula, sta parlando un giovane deputato: “Chi è?”. E’ uno dei Cinque stelle, gli dico. “Ah beh”. Che ne pensa lei di questi ragazzi arrivati in Parlamento con uno Tsunami tour, sono un po’ come i primi leghisti a Montecitorio. “No. Questi si animano solo quando c’è da fare casino. Scoprono la vita parlamentare quando c’è da fare ostruzionismo. Poi, per il resto, sono dei bravi ragazzi, simpatici, forse, ma un po’ esangui”. E Grillo? “Si è messo in un bel guaio con la politica. Era meglio se restava nei teatri, mi sembra infelice”.

 

E invece Bossi è un uomo allegro, possiede anche un umorismo allusivo, sottile, non solo quello greve che gli conoscono tutti. Però, ogni tanto, lascia che la stanchezza dei tanti anni in vetta gli scorra via come pioggia sui vetri, come quando gli chiedo di Giulio Tremonti, che gli è ancora molto amico: “Tremonti era seduto in macchina accanto a Berlusconi, e Berlusconi è andato fuori strada. Patapùm. Peccato”. E il rapporto con Tremonti, con il quale Bossi va spesso a cena, alla mensa della Camera, quella più spartana, oggi è una cosa a metà tra la familiarità dei collegiali e quella dei reduci, per metà cameratismo e per metà complicità di rimembranze. “A Berlusconi le cose andavano bene finché c’eravamo io e Tremonti. Poi sono arrivate le ragazze, tutta una serie di persone che si sono approfittate di lui. Ed è rimasto solo, il Cavaliere, anche la moglie lo ha lasciato. Un disastro”. Ma Berlusconi si è anche un po’ fregato con le sue mani, obietto: la storia del bunga bunga è stata devastante. E così, mentre inseguo i capricciosi semicerchi e le repentine diagonali con le quali l’Umberto attraversa il Transatlantico senza fermarsi mai, lui esibisce un sorriso che vuol significare indomita prestanza: “La figa uno la deve fottere, non ci si deve far fottere dalla figa”, dice. E pronuncia queste parole con l’aria di uno che sa di cosa parla. Difatti flette il braccio, palmo della mano in avanti, dita ripiegate, e lo muove avanti e indietro a stantuffo. Ed ecco il suo spirito greve, ma efficace.

 

D’altra parte la leggenda dei suoi anni d’oro è piena di donne da lui assiduamente corteggiate “scopo scopandi”. E a ben osservarlo si direbbe che le donne gli mettano ancora un certo citrato nel sangue, malgrado lui dica che non è vero. E infatti ricorda ancora con una certa formosa precisione “quella ragazza monumentale” che serviva al tavolo lui e Daniele Vimercati nella trattoria di Valganna, provincia di Varese, in cui nel 1991 fu scritto il libretto rosso del bossismo, “Vento del Nord”.

 

[**Video_box_2**]“Ma al di là delle sventatezze private di Berlusconi”, riprende Bossi, che evita ogni mia allusione alla sua vita privata, “con il Cavaliere i magistrati ci sono andati pesante, pesantissimo”. E anche Bossi ebbe scontri epici con i magistrati. “Una volta, era il 1993, dissi che avremmo dovuto ‘raddrizzare la schiena’ a un pm di Varese, si chiamava Abate. Ma non sapevo che fosse poliomielitico, costretto su una sedia a rotelle. Di quella frase mi sono pentito, la malattia si rispetta”. E dicono che Bossi si sia addolcito con l’età. Prometteva pallottole, Mario Segni era “una lumaca bavosa”, con i giornalisti voleva fare a pugni “visto che non abbiamo soldi per comprarvi”, con la bandiera tricolore “si puliva le palle”. Adesso invece dicono che si commuova nell’ascoltare l’inno di Mameli. “Non direi più che il tricolore va gettato nel gabinetto… ma penso che accanto al tricolore dovremmo aggiungere la bandiera della Padania”. E ha parole di rispetto persino per Bettino Craxi. “Provo pena per la figura di Craxi. Secondo me non ha mai preso nemmeno un centesimo per sé. Craxi girava con le tasche vuote, senza una lira”. Ma ventitré anni fa i leghisti sventolavano il cappio a Montecitorio, Bossi intercettava Tangentopoli, diventava un fenomeno di fine epoca. La corruzione alimentava il suo movimento nell’Italia che non sopportava più né Machiavelli né Marx. Lui e Leoluca Orlando, il settentrionale e il meridionale, volevano mandare tutti in galera. Allora lo dico a Bossi: voi nel 1992 calaste a Roma ladrona come barbari vendicatori. E Craxi vi faceva schifo. “Quello era finanziamento dei partiti, in gran parte. Illegale sì, ma aveva una ragione politica”, risponde. “Io di Mani pulite oggi penso questo, penso che in certi casi la corruzione diventa un tentazione troppo forte per le aziende, diventa quasi una necessità di sopravvivenza. Quando non ci sono leggi semplici le aziende si arrampicano sugli specchi, sono pronte a tutto pur di avere un appalto”. E Craxi? “Viveva in una dimensione tutta politica, per i capi come lui, che incarnano e si risolvono nei loro partiti, non c’è più differenza tra privato e pubblico, non si sa più dove finisce il partito e comincia la persona. Sono tutt’uno”.

 

E forse Bossi sta parlando un po’ di se stesso. Anche lui ha sempre girato senza soldi, “la Lega è Bossi e Bossi è la Lega”, hanno sempre detto i padani, perché era vero, anche se ormai la corte dei ruffiani attorno al grande capo si è assottigliata, il codazzo di tutti i parassiti della terra si è diradato, e attorno a lui rimangono soltanto gli affetti e le amicizie più vere. Lo cercano i giovani leghisti cui lui incute rispetto e soggezione, si confessano con lui, in segreto, i dirigenti preoccupati da Salvini e da Maroni. E ancora, quando parla di politica, gli occhi del vecchio capo brillano d’intelligenza, ma come assestata. Il 10 aprile 2012, a Bergamo, si consumò la notte delle scope, la presa del potere di Roberto Maroni, la crocifissione di Rosi Mauro e del cerchio magico, con Bossi che si era dimesso e chiedeva scusa dopo gli scandali, le indagini della procura di Milano, l’arresto dell’ex tesoriere Belsito. Alla fine Rosi Mauro è stata prosciolta da ogni accusa. Bossi ne parla con difficoltà. “E’ stata una vicenda dolorosa, mi dispiace soprattutto per la famiglia di Rosi”, che fu travolta da volgarità di ogni genere. “Anche voi giornalisti ci siete andati pesanti. Siete dei cingolati che schiacciano gli sconfitti”. All’improvviso si protende in avanti con quel movimento carnivoro che ancora dà al suo viso un’espressione selvatica, si è stancato. Mi saluta con una sorta di timidezza brusca, “ciao eh”. E mi dà un cazzotto.

 

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio 2014), Ezio Mauro (22 febbraio 2014), Giancarlo Leone (1° marzo 2014), Flavio Briatore (7 marzo 2014), Fedele Confalonieri (15 marzo 2014), Giovanni Minoli (29 marzo 2014), Luca di Montezemolo (3 aprile 2014), Urbano Cairo (10 maggio 2014), Claudio Lotito (2 luglio 2014), Giovanni Malagò (26 luglio 2014), Beppe Caschetto (9 ottobre 2014), Bruno Vespa (29 novembre 2014), Vincino (10 gennaio 2015), Marco Carrai (13 febbraio 2015), Ettore Bernabei.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.