Kirkuk. Militanti dell'Isis arrestati dai peshmerga curdi. Foto LaPresse/Reuters

Quanto è vicina la guerra dell'Iraq contro il Kurdistan

Adriano Sofri

La vita quotidiana procede pressoché impassibile, ma la presenza a Kirkuk delle milizie paramilitari e dell'esercito iracheno è sempre più pressante 

Il Kurdistan è da anni un osservatorio (coinvoltissimo) privilegiato per gli avvenimenti travolgenti del vicino oriente e per quelli di gran parte del resto del mondo, che vi è accanitamente implicato. In questi giorni è l’osservatorio più appropriato e più coinvolto per seguire lo scoppio di una guerra. La guerra in questione sta per essere mossa, annunciano tutte le fonti, dall’Iraq contro il Kurdistan colpevole di aver svolto un referendum in cui ha chiarito di desiderare l’indipendenza (sic!): più precisamente, dalle fazioni estreme della galassia eminentemente sciita di milizie già “paramilitari” e ormai irreggimentate nelle forze armate regolari di Bagdad. Queste milizie, insieme all’esercito iracheno, si sono ammassate al bordo di Kirkuk, oltre che ai limiti curdi della provincia di Mosul, e da lì compiono incursioni contro i peshmerga – poi fatte passare per errori, “li avevamo scambiati per l’Isis” – e marce di avvicinamento. L’Iran dei Guardiani della Rivoluzione, che è il loro vero autore, è momentaneamente sospeso, oltre che per le divisioni interne, per l’imminenza, “a ore”, del pronunciamento americano su accordo nucleare e denuncia dei pasdaran appunto, la truppa militarmente ed economicamente dominante dell’Iran, come “terrorista”. I curdi, che ribadiscono a ogni loro ora di non volere la guerra e di auspicare una discussione calma e che si prenda tutto il tempo, hanno avvertito di essere pronti a rispondere – peshmerga vuol dire “pronti alla morte”, a fronteggiare la morte, ma ieri il vicepresidente e gran veterano Kosrat ha variato la traduzione, “pronti alla vittoria”, ha detto.

  

Kosrat ha spostato a Kirkuk la notte di giovedì 6 mila peshmerga al suo comando, che fa base a Suleymanyah, in aggiunta alle migliaia acquartierate nella principale città disputata. Da giovedì il cielo di Kirkuk e del circondario è continuamente percorso da caccia americani, come succedeva solo nei momenti più duri del confronto con l’Isis. La notte precedente, il governo regionale curdo aveva chiuso, per la prima volta dopo la riconquista di Mosul, la strada tra Mosul e Dohuk. Questa guerra così apertamente e fin troppo ovviamente annunciata coincide con un andamento ordinario pressoché impassibile della vita quotidiana. Ciò rende qui meno bizzarro il disinteresse europeo, che ha la sola attenuante della pazzesca tristissima distrazione della Catalogna: non ho sentito, forse per la distanza, una parola ufficiale europea su questo Kurdistan, una regione amica – amicissima, quella che “ha combattuto per noi” contro il cosiddetto Califfato, quella dove teniamo centinaia e migliaia di nostri carabinieri e militari “addestratori” – in cui da due settimane sono chiusi gli aeroporti, cioè il principale luogo di accesso. Stanno per fare bancarotta, si dice. In cambio, i prezzi di Bagdad, dove buona parte delle merci arrivano da qui, sono saliti molto più che in Kurdistan. Il blocco vuol dire che sono andati via alla svelta operatori umanitari (e archeologi, perché il suolo curdo ha tanta antichità quanto gas e petrolio, o gente che viene per affari e lavoro) e non arriva più nessuno. Qualche giovane archeologo è rimasto, più che dimezzato negli organici e lasciato nell’incertezza sulle antiche rovine da risuscitare e le nuove che si suscitano. Le truppe sciite irachene della “Mobilitazione popolare”, Hashd al-Shaabi, scalpitano per marciare su aeroporto, pozzi e quartieri di Kirkuk. Nessuno può sapere che cosa farà l’Iran direttamente, con le proprie milizie, quando Trump avesse comunicato nuove sanzioni e la denuncia del patto sul nucleare – i capi pasdaran hanno avvertito sulla loro gittata di “2.000 km”… Dalla parte curda tiene l’alleanza stretta saldata prima e dopo il referendum fra la parte di Barzani e quella di Kosrat, dunque fra il Pdk di Erbil e Dohuk e il Puk di Suleymanyah, Halabja e della stessa Kirkuk, dove il governatore è a sua volta fermissimo nell’adesione al referendum. Nel Puk però la continua e sconcertante altalena di consensi e dissociazioni dell’ala costituita dalla famiglia Talabani ha conosciuto giovedì una nuova sterzata: uno dei figli dello scomparso Jalal Talabani, Pafel, col sostegno di sua madre Hero, ha rivendicato lo scioglimento del Consiglio provinciale di Kirkuk e la destituzione del governatore (già votata dal parlamento iraniano, e naturalmente ignorata dai curdi), e dichiarato che la fedeltà al referendum è “contraria alla linea di Mam Jalal”. Questo pronunciamento, che aderisce platealmente alle richieste del governo di Bagdad, ricorre palesemente alla commozione (enorme) per la morte del vecchio Talabani, e si uniforma, a quanto pare, a un vero e proprio ultimatum comunicato al Puk da Teheran. I giorni prossimi mostreranno se e quanta forza abbiano nel tradizionale partito di Suleymanyah queste posizioni, di cui qualcuno pensa che non sperino tanto di sventare una guerra che preme, quanto di utilizzarne la rendita una volta che sia scoppiata con il suo peso di lutti, dolore e sacrifici. Quando scrivo, a mezzogiorno di venerdì, i comandi peshmerga comunicano che nella notte l’esercito iracheno e le milizia Ashd al-Shaabi, col pretesto di “ripulire” il territorio dai resti degli occupanti dell’Isis, hanno allestito un attacco a Kirkuk “con l’appoggio di forze straniere”, e avvertito la coalizione internazionale che lo scoppio della guerra significherà “una vera catastrofe”.

  

Così, il gioco della guerra. Aggiungo qualche riga sulla pace. Si è conclusa ieri la grande festa yazida, Jamaya Sheikhadi, l’adunanza dei Sette Giorni. L’ho frequentata in tutti questi anni, non avevo mai visto tanta gioia e cordialità. Era la prima volta per molti yazidi prima impediti dall’occupazione di Mosul. Mancavano invece i tanti yazidi espatriati, in Germania, in Canada, altrove, impossibilitati dalla chiusura dello spazio aereo. Una fiumana ininterrotta ha riempito la cittadella sacra di Lalish. Sono successe cose impensabili ancora poco fa. Giovani donne restate anni prigioniere e schiave dei criminali dell’Isis raccontare la propria storia e incoraggiare il loro popolo. Ragazzini e ragazzine, bambine e bambini rapiti dall’Isis e costretti alla sua “educazione” raccontare la gratitudine per il ritorno alla propria gente e alla propria fede e pregare per i tanti che ancora non sono liberi. Una gente reduce da un tentativo ampiamente attuato di genocidio fisico e culturale che si ritrova, coi suoi venerabili vegliardi e i suoi innumerevoli bambini e adolescenti, accogliente e gentile, con una fanciullesca ingenuità, tutti, donne e uomini, ragazze e ragazzi, ma risoluta, come nelle sue ragazze peshmerga, a non esporsi più inerme alla persecuzione. E’ grato stare fra queste persone, e fa pensare a molte cose, di quelle che si conoscono dai libri, o dalle memorie altrui, e qui si vedono, si abbracciano, ci si fa la fotografia.

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