Un seggio di Halabja, nel Kurdistan iracheno (foto LaPresse)

Tra feste e tensioni, in Kurdistan è già tempo di pensare al domani

Adriano Sofri

Le conseguenze del referendum che cambia l'intera regione

Erbil, lunedì pomeriggio. Si sta votando per il referendum in tutto il Kurdistan (iracheno), comprese Kirkuk e le altre “zone contese”, finora in piena tranquillità. Ho appena visitato alcuni seggi, aria di festa di famiglie, ieri ero stato a Kirkuk, dove fino all’alba c’era stata una tensione estrema. Cedendo alle minacce, specialmente iraniane, di un blocco dei confini e di un intervento militare – l’Iran domenica ha già chiuso il proprio spazio aereo ai voli da e per il Kurdistan – una parte del Puk, il partito curdo egemone di Sulaymaniyah e Kirkuk, aveva tentato un colpo di mano: per impedire l’allestimento dei seggi a Kirkuk e addirittura con l’idea di “prelevare” il governatore della città – che peraltro, com’è nella tradizione, appartiene allo stesso partito. Il braccio di ferro è stato lungo e durissimo: il famoso e famigerato uomo forte di Teheran, Qassem Sulaimani, capo delle forze internazionali iraniane e di fatto delle milizie sciite irachene, di Hezbollah libanese e siriane, è venuto per due giorni a Suleymanyah e a Erbil a imporre il proprio ultimatum. Vantando, oltretutto, un accordo con gli americani, oltre che con la Turchia: non male, per un ricercato internazionale.

 

Ieri mattina aerei iraniani avevano bombardato “esemplarmente” due zone montagnose dentro il territorio curdo. In campo curdo ci sono stati ondeggiamenti, ricatti, battaglie di allarmismi, con risultati immaginabili fra le persone: corsa all’acquisto di cibo e di benzina eccetera. Barzani e Kosrat, presidente e vicepresidente del Krg, e figure preminenti dei due partiti maggiori e rivali, hanno tenuto duro insieme e hanno prevalso alla fine, imponendo che si votasse comunque nell’intero territorio coinvolto. Le intimidazioni armate sono state neutralizzate a Kirkuk, dove si sta votando, mentre scrivo, addirittura con manifestazioni di adesione più vivaci che a Erbil, dove partecipazione ed esito – il Sì – sono più scontati. Kirkuk è una città molto grande, fra gli arabi e i turcmeni autoctoni una parte significativa aderisce al referendum, a differenza degli arabi introdotti da Saddam e dei turcmeni di più stretta obbedienza turca. In tutto il Kurdistan è giorno festivo per il voto, ma il governo di Baghdad ha minacciato provvedimenti disciplinari contro tutti i dipendenti pubblici che si fossero assentati (a Kirkuk negli impieghi pubblici sono in gran maggioranza arabi e turcmeni). Il confine con l’Iran è ufficialmente bloccato anche per via di terra, in realtà vi si svolge un traffico pressoché normale.

 

Vedremo le prossime ore e i prossimi giorni. Intanto, la scena è già stata drammatica e rocambolesca insieme. Non era facile immaginare uno svolgimento simile per un’iniziativa come quella di chiedere a una popolazione se vedrebbe di buon occhio una futura indipendenza. Fino a pochi giorni fa per i suoi avversari interni Barzani era una marionetta di Erdogan, che ora l’ha trattato come un nemico giurato e gli ha mosso le truppe al confine (e oltre). Fino a pochi giorni fa il Puk era visto all’ingrosso come asservito all’Iran e ora ha risposto picche a una pressione iraniana quale non si era mai vista. Fino a qualche tempo fa si poteva immaginare che gli americani (ammesso che esistano “gli americani”, e non siano a loro volta più sgangherati che le fazioni del Puk) trattassero con freddezza il desiderio di indipendenza curdo e l’indizione del referendum, ma non che ingiungessero ai curdi in modo ultimativo e diretto, a muso duro, a notte fonda, di rinunciare al referendum quando già i curdi della diaspora stavano votando – e si vedessero ignorati, sia pure con gran preoccupazione. Il Kurdistan di oggi, a referendum davvero svolto, non è già più quello di ieri, e non lo è più nemmeno il resto dei paesi confinanti e dei loro alleati. Bisognava pensare da anni, dalle ribellioni arabe, da quella siriana, dai sei anni di guerra civile, dai tre anni e passa di oltranza dello Stato islamico, all’inevitabilità di una revisione dei confini. Poteva dire solo due cose: un regime di alleanze e collaborazioni federali, in cui tutti, compresi i sunniti oggi allo sbando, avessero insieme autonomia sicurezza e solidarietà, o una chiusura dentro barriere di superstizione settaria o etnica, e il trionfo della guerra fra internazionale sciita e sunnita. L’Europa, che aveva dalla sua il retaggio della barbarie della Seconda guerra e la resipiscenza dell’Unione, non ha saputo che ripetere la litania dell’intangibilità dei confini già per lungo e largo cancellati. L’unità indivisibile dell’Iraq (o della Siria) è una tragicomica espressione diplomatica. Da domani, i curdi del Sì potranno discutere con tutti gli interlocutori dei rapporti reciproci, indipendenza, confederazione o qualunque altro assetto civile, se non si vedranno alzare contro una muraglia di armi, asfissia economica e denigrazione. E se non cederanno al peggio di sé, che pure esiste.

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