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Diciassette piani di patriottismo per un voto che cambierà la regione

Adriano Sofri

Si avvicina il referendum per l’indipendenza del Kurdistan. Tra euforia ambigua, spari e conseguenze poco esaminate

Erbil. Nella notte di Erbil, dopo tanto tempo, si sente di nuovo sparare. L’euforia indipendentista è ambigua, sembrano sparatorie, sono festeggiamenti. Si contavano sulle dita gli articoli usciti fino a un paio di giorni fa sul referendum indetto dai curdi del Governo regionale curdo finora iracheno, che si terrà il prossimo 25 settembre. Ora stanno arrivando tutti, perché la notizia è che forse scoppieranno nuove guerre, forse si ravviveranno quelle vecchie. La notizia decisiva è che il referendum si farà, e finora la maggioranza degli esperti scommetteva che non si sarebbe fatto, perché il realismo politico non prevede una simile alzata d’ingegno di un piccolo paese, sì e no un quarto del popolo sparpagliato cui appartiene, contro l’ostilità pressoché unanime del resto del mondo. Eccezioni principali: Israele e la Catalogna, ciascuna per suoi conti, piuttosto trasparenti; gli Emirati e, indovinate, la Russia.

   

Ieri sono stati comunicati i dettagli finali dell’accordo sulla costruzione del gasdotto dal Kurdistan al Mediterraneo via Turchia, che Rosneft finanzierà con un miliardo di dollari e sarà completato per la parte curda nel 2019. Per il resto incognite e minacce sono innumerevoli. Domenica gli inviati a Erbil hanno trovato una tempesta di sabbia, una temperatura di 42 gradi (percepiti 42 mila) e una ridda di incontri, ultimatum e manovre più fitta della sabbia negli occhi. Sabato era esplosa un’autobomba a Kirkuk, facendo due morti e alcuni feriti: Kirkuk è il cuore della questione, per Kirkuk si scaldano le comparse della prossima guerra, coi registi ancora incerti, e i produttori impegnati a fare i conti. Kirkuk ha una maggioranza curda e due consistenti minoranze turcmena, o turcomanna, e araba, oltre a parecchie altre. La bomba è esplosa in un quartiere arabo e manifestazioni di giovani curdi hanno subito reagito: “Noi non abbiamo paura”. Hanno fatto bene, anche perché davvero loro non hanno paura. Fonti meglio informate suggeriscono però che la bomba è stata collocata da qualche mano moderatamente islamica alla porta di una casa che ospitava un viavai sospetto, perché vi si spacciavano superalcolici. Episodio istruttivo, e alla cronaca del referendum curdo sull’indipendenza piacerebbe preferire il registro grottesco, piuttosto che l’epico. L’epopea si fa sentire e vedere, già nelle bandiere colossali che pendono dai grattacieli della città che stava per diventare Dubai, e magari lo diventerà di nuovo: davanti a me, per esempio, la bandiera prende diciassette piani. Diciassette piani di patriottismo. Il Kurdistan si sta rovinando in bandiere in questi giorni. Ma anche ammessa una certa stanchezza per le bandiere in genere – provvede il tifo calcistico a rigonfiarle – bisogna riconoscere che la bandiera curda, coi tre colori italiani e un gran sole raggiante al centro è delle più suggestive.

  

Un piccolo popolo di qualche milione, porzione di una nazione di qualche decina, che vota per la propria indipendenza (poi, a referendum incassato, si vedrà in quale forma: la trattativa vera comincerà allora), ha qualcosa di anacronistico che lo rende insieme scostante e commovente. Questioni simili si sono giocate e definite in Europa un secolo e mezzo fa, più o meno, salvo riprecipitare negli imperi variamente nominati. I curdi non hanno mai avuto uno stato. Il mondo gliene promise uno a Sévres 1920, e glielo sfilò a Losanna 1923. Non se ne accorse quasi, il mondo, ma i curdi ci avevano creduto. Sévres è un nome che si legge in giro qui, e non per la porcellana. Nel primo dopoguerra gli inglesi, che si erano spartiti coi francesi i territori che si chiamarono Iraq e Siria, tennero in proprio mandato il vilayet di Mosul e dunque il Kurdistan di Erbil, Suleimanyah e Kirkuk. Nel dicembre 1925, per loro conto, La Lega delle Nazioni decretò l’annessione all’Iraq di Faysal, a sua volta un protettorato inglese, dell’ex vilayet, sostenendo di aderire alla volontà della popolazione, che se ne guardava e da allora non smise di resisterle. Quel passaggio di mano è un bel precedente, a ricordarlo oggi. La parola con cui i curdi chiamano il referendum è: referendum, notevole lezione sull’influenza, se non del diritto romano, almeno del lessico. (Parole locali, in curdo o in arabo, hanno piuttosto il significato di sondaggio, di consultazione, senza il rilievo istituzionale). I curdi ebbero poi una breve, nemmeno un anno, repubblica nel 1945, a Mahabad, ve la racconterò con gli aneddoti pertinenti nei prossimi giorni: nacque grazie al disordine dell’immediato dopoguerra e alla protezione sovietica, morì sanguinosamente nemmeno un anno dopo nel ritorno all’ordine, quando l’Urss si prese altrove la sua parte. Si capisce dunque questa festa di bandiere. E si capisce anche come sia indiscreto, per così dire, fare ai curdi (iracheni, per ora) la lezione sull’inattualità del desiderio di avere uno stato e sull’opportunità di immaginare un medio oriente federato e capace di autonomie locali e dimensione sovranazionale. Non c’è un manifesto del genere, e solo a evocarlo si suscitano sorrisi comprensivi. Lo propongono i curdi di Turchia e dunque di Siria, ma solo perché la prospettiva di una secessione è per loro (per i turchi molto di più, per i siriani un po’ meno) così remota da meritare il silenzio. Dunque i curdi (finora iracheni) abbiano il loro Gran Giorno ottocentesco, salvo rispondere la mattina dopo, come all’indomani di tutti i Gran Giorni, alla domanda: “E adesso, che te ne fai?”.

  

Le formazioni in campo

Vediamo ora, grosso modo, le formazioni. Gli americani, che qui sono decisivi, militarmente più che economicamente, senza di che il Califfato sarebbe ancora in sella e anzi avrebbe dilagato. Gli americani non vogliono perdere un Iraq in mano sciita già largamente infeudato all’Iran, e tanto meno vogliono perdere il legame coi curdi, il solo alleato non infido in un terreno eroso dall’avanzata di altri poteri regionali e della Russia. Gli americani osteggiano davvero il referendum in favore di uno status quo che permette loro, o li illude, di continuare a barcamenarsi fra Baghdad e curdi. Turchi e iraniani, nemici giurati ma recenti partner spregiudicati di una serie di partite geopolitiche, la siriana in primo luogo, non vogliono il referendum. Hanno ambedue i curdi di casa, benché il problema sia molto più impellente per Erdogan che per Teheran. Tengono ambedue a uno status quo che divide il Kurdistan iracheno in due zone d’influenza, turca quella di Erbil e Dohuk e del partito-dinastia egemone, il Pdk, e iraniana quella di Suleimanyah e Halabja – e Kirkuk – e del partito-dinastia egemone, il Puk. Ma anche questa rappresentazione è in via di svelta trasformazione. Barzani, il capo del Pdk, con la sfida del referendum ha voluto ricongiungersi al mito di Mahabad che aveva segnato la sua infanzia. I notabili del Puk stanno dalla sua parte, più convintamente il suo vicepresidente e prestigioso veterano Ali Rasul Kosrat, cui è affidato il fronte di Kirkuk, più cautamente la signora Hero Talabani, che rimpiange una Baghdad laica e intellettuale e anche l’Iraq di cui suo marito fu presidente, e bada anche alla propria quota azionaria. Quanto ai legami del Puk col confinante Iran, sono destinati a indebolirsi quando le milizie sciite agli ordini dei pasdaran minacciano di far guerra a Kirkuk curda.

  

Poi ci sono gli affari: lunedì al valico turco-curdo iracheno di Zakho, dove un anno fa il traffico si era ridotto a 1.000 camion alla settimana, ne sono transitati 2.000 in un giorno. La Turchia ha bordinato grandi manovre militari al confine, ma il minacciato blocco del Kurdistan farebbe molto male a tutti. A Baghdad si sono via via rincarati i toni contro il referendum, anche da parte del premier Abadi, incalzato dall’oltranzismo di Maliki – quest’ultimo ha proclamato che l’Iraq non sopporterà mai un’altra Israele nella propria terra, immaginando arditamente sé come un altro palestinese. Le intenzioni degli americani sono difficili da interpretare e per un McGurk, inviato presidenziale (ma di Obama) presso la Coalizione globale, che viene a proporre la sua soluzione a Duhok, c’è una portavoce del Dipartimento di stato che dice di non saperne niente. C’è una corsa a spiegare le cose a Trump, con l’occasione dell’assemblea Onu a New York. Ieri da Baghdad sono arrivate offerte di ridiscutere tutto, anche una confederazione, anche una secessione, in un lasso di tempo di un decennio: dieci anni contro gli otto giorni che mancano al referendum, un’apertura un po’ scaduta. (L’Onu si era contentato di suggerire uno scambio fra gli otto giorni e tre anni…). Un’opposizione interna sul referendum c’è, ma non sembra consistente. Ci furono precedenti, allora furono poco più che sondaggi, esercitazioni, e risultarono plebiscitari. E’ bene che non vada così, anche se Barzani ha bisogno di una maggioranza molto forte da mostrare al citato resto del mondo e da giocare al momento di tirare le conseguenze.

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