il Presidente della Regione curda dell'Iraq, Massoud Barzani (foto LaPresse)

L'imminente referendum curdo è una ghiotta occasione per i terrorismi

Adriano Sofri

Le mosse di Barzani e il caos alle porte

A dieci giorni dal referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno, le pressioni sui suoi promotori si fanno più stringenti e minacciose, e affannate, anche. Da parte di qualcuno le pressioni mirano soltanto ad accumulare ragioni e pretesti, pretesti più che ragioni, a un futuro regolamento di conti coi curdi che prevede esplicitamente il ricorso alle armi. Altri, compresa una specie di coalizione diplomatica americano-britannica-tedesca-francese (italiani non pervenuti), mirano ancora a ottenere una rinuncia al referendum, sia pure nella forma della dilazione, promettendo un pronunciamento del Consiglio di sicurezza: è un fatto che a questo punto il rinvio del referendum significherebbe personalmente per Masud Barzani e per gran parte della leadership curda un discredito difficilmente riparabile. Ieri si è svolta a Dohuk, uno dei quattro capoluoghi provinciali del Governo regionale curdo, Krg, una riunione, la più impegnativa finora, fra il presidente Barzani e una delegazione del rappresentante speciale dell’Onu Jan Kubis, degli ambasciatori inglese e americano a Baghdad, dell’inviato speciale di Trump per la coalizione anti-Isis McGurk e del console generale americano a Erbil. Barzani si è riservato di rispondere alle loro proposte dopo aver consultato “la leadership” curda. L’ultimo espediente escogitato dai suggeritori esterni è che sia il parlamento curdo, riconvocato per oggi, venerdì, dopo anni di sospensione, a votare una richiesta di rinvio, che permetterebbe a Barzani di simulare un rispetto per la decisione parlamentare: ipotesi che immagina tanto un parlamento quanto un Barzani maneggevoli a piacere, come non è probabile, credo. Presto ne avremo la verifica, del resto. Ieri è stata la volta del ministro degli Esteri turco di “ammonire” il Kurdistan di Erbil che tenere il referendum “gli costerà caro”.

 

 

A Baghdad anche il primo ministro Abadi ha rivendicato la destituzione del governatore di Kirkuk votata dal parlamento, che, coi deputati curdi usciti dall’aula, ha votato anche l’incostituzionalità dell’iniziativa del Governo regionale curdo. Quest’ultimo da anni denuncia il mancato rispetto degli accordi costituzionali da parte del governo iracheno. La complicata ingegneria istituzionale dell’Iraq post-Saddam prevede che il presidente della repubblica spetti ai curdi, e il titolare attuale, Fuad Masum, membro del Puk, il partito curdo egemone di Suleimanyah (e Kirkuk), sta per essere giubilato. Minacce aperte di ricorso alla forza, accompagnate da provocazioni armate diffuse sia ai bordi sud di Kirkuk e Makhmur che di Mosul, vengono rivolte ai curdi dai pasdaran iracheni, le milizie sciite Hashd al Shabi, in particolare dalla loro ala più oltranzista, Asaib Ahl al Haq. Il famigerato energumeno Abu Azrael, il pubblicitario eroe sciita che si vantò e non di rado riuscì a emulare l’efferatezza dei tagliagole dell’Isis, ha annunciato e mostrato – l’uomo è un pubblicitario – la mobilitazione di ragazzini pronti a marciare contro i curdi. A Mandali, nel governatorato di Diyala, dove il consiglio cittadino aveva votato l’adesione al referendum, le milizie arabe sciite sono entrate, hanno destituito il presidente e costretto il consiglio sotto la minaccia delle armi a revocare il voto.

 

I più imbarazzati sono gli americani, stretti fa il rischio di un Iraq sciita sempre più infeudato all’Iran e il rischio opposto di perdere, coi curdi, il loro unico vero ed efficace alleato su una scena mediorientale che li ha visti vacillare dovunque. E’ un fatto che americani e alleati hanno rafforzato preventivamente le zone più roventi di un futuro conflitto, ai confini di Ninive e del sud di Kirkuk, dove peraltro continua a incombere la battaglia per espellere l’Isis dalla sua ultima grande roccaforte, Hawijia, alla quale dovrebbero partecipare insieme sciiti e curdi già sospettosi e nemici gli uni degli altri. I promotori del rinvio del referendum possono far leva sulle proverbiali divisioni interne ai curdi, specialmente nel Puk, dove l’ala che si riconosce nel vicepresidente del Krg e leggendario veterano Kosrat, la più influente anche a Kirkuk, è schierata con più decisione per il referendum, e l’ala della famiglia del vecchio presidente Talabani – personalmente fuori dalla mischia per ragioni di salute – è forse più tentata da una brutta figura del partito rivale, il Pdk, e del suo capo, Barzani. Ma la stessa prepotenza delle pressioni internazionali e delle minacce sul referendum, che fanno sentire il Governo regionale curdo in una specie di stato d’assedio, renderebbe troppo costoso a dirigenti curdi di qualunque fazione mostrarsi cedevoli, in un paese dove la fierezza conta ancora per molto. Si è arrivati a prospettare un blocco aereo che lascerebbe il Kurdistan interamente isolato: prospettiva prepotente quanto impensabile.

 

Del resto l’autonomia del Kurdistan cominciò con la No Fly Zone istituita a ridosso della guerra del Golfo del 1991, all’indomani delle più spietate persecuzioni dei curdi a opera delle forze irachene, allora sunnite agli ordini di Saddam. Il referendum ci sarà, e ogni immaginabile negoziato su tempi e modi del nuovo assetto istituzionale – secessione completa, qualche genere di confederazione che dia una prospettiva anche ai sunniti oggi disfatti, un disegno che coinvolga anche gli altri stati confinanti compresa l’esplosa Siria… – potrà essere condotto da una leadership curda forte dell’investitura che si aspetta dal voto. Tutti gli allarmi sono fondati, e l’occasione che il referendum offre anche al terrorismo, ai terrorismi, tanto più in zone miste strategiche e contese come Kirkuk, è delle più invitanti. Intanto è quasi comico, tragicomico se volete, vedere l’accostamento fra referendum curdo e catalano: l’uno si svolge perché manca nel medio oriente qualunque visione che somigli a quella che permise all’Europa uscita da una orrenda barbarie intestina di darsi un futuro, l’altro si svolge nonostante l’Europa pensata allora possa, se soltanto se ne ricordasse, offrire alle piccole patrie l’orgoglioso affare di una più grande patria comune.

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