Cosa ne sarà dell'Iraq dopo il sempre più vicino referendum curdo

Adriano Sofri

L'odio tra sciiti e sunniti e le interessate mire iraniane

Torniamo sul referendum curdo-iracheno, cui ormai mancano solo 25 giorni, e di fatto molto meno, perché giovedì comincia la festa del pellegrinaggio, l’Eid al Adha, che si protrarrà fino al 4 settembre (peraltro con date variabili, perché nemmeno in questo sunniti e sciiti intendono concordare). Ieri si è compiuto un passo formale importantissimo, perché a Kirkuk, il più vasto e ricco dei territori “contesi”, il consiglio provinciale ha votato a larga maggioranza l’adesione al referendum. Per ritorsione, le fazioni sciite fanno dichiarare illegittimo dal parlamento di Baghdad il governatore di Kirkuk e l’intero consiglio. Secondo gli sciiti di Hashd al Shabi i confini curdi devono essere riportati al 2003. Dall’offensiva dell’Isis del giugno 2014 la resistenza curda ne ha allargato il territorio di oltre un terzo, annettendogli del resto per lo più città e villaggi tradizionalmente a maggioranza curda. Anche i cristiani della provincia di Ninive chiedono di partecipare al referendum curdo, dopo che voci prepotenti di nuovi padroni sciiti hanno proclamato di voler loro applicare la Jizya, la tassa di compensazione imposta ai dhimmi, le minoranze monoteiste non musulmane. La questione cristiana, per chiamarla così, è esasperata dalle rivelazioni su falsificazioni di documenti che hanno sottratto alla comunità cristiana in tutto l’Iraq oltre il 60 per cento delle sue proprietà mettendole in vendita, mentre i legittimi titolari abbandonavano il paese.

 

E’ difficile dire quanti saranno i votanti al referendum del 25 settembre perché non esiste un censimento aggiornato e affidabile. Si valuta che gli aventi diritto saranno 5 milioni e mezzo, per una popolazione complessiva vicina ai 9 milioni. Ogni giorno che passa rende più difficile una revoca del referendum indetto. Il suo principale fautore, Ma’sud Barzani, presidente prorogato e controverso del governo regionale curdo, mentre il parlamento è da tempo sospeso, ha dichiarato di non volersi più candidare, e di voler essere “soltanto un peshmerga, ciò che non può essere rifiutato a nessuno”: mossa saggia, perché il referendum riuscito e il suo adempimento farebbe in realtà di lui un padre della patria che qualunque carica formale rimpicciolirebbe.

 

Ancora più sorprendentemente Barzani ha detto che non saranno candidati nemmeno i suoi “più vicini”, che occupano i posti di maggior rilievo nel governo curdo e nel Pdk, per far posto a una classe dirigente rinnovata: promessa più difficile da mantenere. C’è, gravissimo, il problema sunnita. L’Iraq senza Kurdistan e con la minoranza sunnita divisa e frustrata largamente dalla vendetta sciita, sarebbe infeudato al prepotere iraniano. I sunniti sono privi per ora di una rappresentanza autorevole, che abbia magari la forza di proporre anche per loro un referendum sull’autonomia e l’assetto federale, associandolo all’iniziativa curda. E’ un fatto che l’inimicizia fra sunniti e sciiti, vecchia di 1.400 anni, non è mai stata così feroce e irriducibile, e sunniti e sciiti iracheni, arabi entrambi, sono molto più divisi dall’opposizione settaria di quanto siano uniti dalla comunanza etnica; e gli Hashd al Shaabi iracheni, arabi, sono sempre più un’appendice dei pasdaran, iraniani. Gli attentati con le autobombe continuano a colpire Baghdad, ce ne sono stati tre negli ultimi due giorni, e una donna si è fatta esplodere uccidendo un peshmerga a Tall Afar; ma l’eredità più angosciosa della sconfitta dell’Isis a Mosul sta nei bambini rapiti e addestrati alla scuola islamista. Ci sono a Mosul circa trenta minori orfani di foreign fighters ceceni, contesi fa le cure dell’Unicef e quelle, più urgenti, della Russia. Ci sono bambine yazide diventate adolescenti dentro famiglie dell’Isis che non sanno più quale sia la loro famiglia e il loro mondo. Ci sono bambini yazidi rapiti piccolissimi e che tre anni dopo non sanno parlare né capire la loro lingua materna, né riconoscere le loro madri.

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