Loris F. Capovilla

L'amicizia fraterna fra Capovilla e Turoldo nel segno del Concilio

Piccola posta

Letture inedite raccolte in un libro curato da Marco Roncalli

Un anno fa moriva a Camaitino, Sotto il Monte-Giovanni XXIII (Bergamo), il cardinale Loris F. Capovilla, don Loris. Mi avevano ricordato la data Marco Boato e i suoi fratelli, grazie ai quali anch’io gli diventai amico, e oggi l’avrei ricordato qua con affetto, ma posso fare di meglio, perché in questo anniversario esce una raccolta preziosa di lettere inedite di don Loris (1915-2016) e padre David Maria Turoldo (1916-1992). Il libro è curato da Marco Roncalli e Antonio Donadio e ha in appendice un intervento di Granfranco Ravasi su Turoldo e uno di Bruno Forte su Capovilla. Edito da Servitium, si intitola Nel solco di papa Giovanni. L’amore e la devozione a Papa Giovanni XXIII e la fiducia nel Concilio sono infatti il cemento dell’amicizia fra i due interlocutori, che nel paese natale del Papa avrebbero trascorso a turno gli anni ultimi delle loro vite e che, scrivono i curatori, “ora riposano a pochi metri l’uno dall’altro, sullo spicchio di collina occupato dal piccolo cimitero di Fontanella, quasi a ridosso del muretto di cinta. Nella nuda terra, ai piedi di due croci di legno robuste”.

 

E’ questo a colpire soprattutto chi si affacci su quella amicizia piena di rispetto e di discrezione, la mancanza di gelosia e anzi la reciproca felicitazione per il sentimento di una comune grazia ricevuta. Il carteggio, in alcuni periodi frequente, in altri radissimo, va dal 1963 al 1991. Nel 1963, quando di Papa Giovanni si conosce la fine vicina, Turoldo scrive al segretario particolare: “Quante volte avrei voluto vederla… quando era così difficile sperare in giorni di grazia come questi che stiamo vivendo: giorni per cui ora siamo così immeritatamente felici. Tanto, che tutto, tutto ha del miracoloso… Come faremo a sdebitarci? Unica tristezza, e lo sa Iddio che tristezza, la malattia del Santo Padre: è molto di più che la malattia del proprio padre e della madre. Come è strana la Provvidenza! Forse eravamo troppo contenti. Era tutta la gente contenta, specialmente gli umili”. E Capovilla: “Sì, mio caro Padre. Si è accesa nel mondo una grande speranza. Ed è con questa forza nuova che tutto deve muoversi, qui e nei giovani paesi – e nei ‘decrepiti’… Noi conosciamo un pochino l’uomo dei nostri giorni che è assai migliore rispetto a quello dell’’800, del ’700... Tutto s’è messo in movimento: il diritto, la giustizia sociale, la fraternità. I nazionalismi si attenuano; il razzismo muore”.

 

Non resterà a lungo il loro tono. Appena due anni dopo, Capovilla: “Vedo poca gente. Son tentato di pensare che, pian piano, uno dopo l’altro, calano i sipari: ma non me ne dolgo. Io rimango nella luce e nella pienezza – e anche nella speranza – e nella gioia”. Turoldo, 25 marzo 1966, scrive: “Ma ora mi sento solo, forse troppo solo”. Sono ambedue impavidi, e ambedue fermi nella loro fedeltà. “Mi è sempre piaciuto servire, non comandare”, dice Capovilla, cui la sua provvidenza ha concesso di servire a lungo nel posto che credeva il più degno. A Turoldo, più impetuoso, raccomanda di tirar dentro la sua impresa, la “Casa di Emmaus”, il vescovo: “Ciò che si dovesse prospettare e fare al di fuori o al di là dell’Autorità diocesana si risolverebbe in fuoco scomposto e fumo fatuo”. L’altro risponde con santa pazienza, e Capovilla: “Son contento che Lei abbia parlato col vescovo, riportandone incoraggiamento ed impressioni felici”. Quando è lui a diventare vescovo – bisogna pur allontanarlo da Roma, bisognerà pur allontanare da Roma quelli che oggi sono troppo vicini e cari a Papa Francesco – le sue prime sortite entusiasmano l’amico distante: “Una vera gioia sentire in tutta la sua prima lettera pastorale queste vampate di fraternità, di partecipazione umana, di serenità, di speranza. E’ così che dobbiamo continuare la nostra missione, anche per non sciupare il dono di essere stati contemporanei di Papa Giovanni: che Dio mi salvi da ogni tradimento!. Ma ‘purtroppo siamo tutt’ora e sempre uomini di poca fede, di tiepido amore; uomini da tempo di armistizio e non di pace’”. (Che bella citazione: sono tentato di augurare, a noi di ora, che riusciamo almeno a diventare gente da tempo di armistizio).

 

Nel settembre del ’68 Turoldo, che pure del movimento che attraversa la società riconosce la promessa, sente che il rinnovamento nella chiesa si chiude: “Più il tempo passa, e più sembra un sogno la sua / di Papa Giovanni / apparizione sulla terra. Adesso resta ben poco da fare (anche se c’è tutto da fare, e da capo). Non c’è più fiducia né speranza”. “Lei sa – scrive Capovilla – che siamo tremendamente soli, tanto più perché gli uomini non sono liberi nei pensieri, negli affetti, negli orientamenti, nelle decisioni”. Turoldo è stato bersaglio di attacchi sfrenati, condotti da ambienti integralisti e da giornali come il Borghese o il Tempo: “E dire che si fanno, costoro, paladini del Papa / Paolo VI /. Mentre, povero Papa!, ho proprio paura che parli a un mondo – quel mondo – volontariamente sordo, e ambiguo, e untuoso, e ‘chiesastico’, il quale invece è pagano, essenzialmente pagano”. Capovilla ricorderà la lezione del suo Papa: “Non ci siamo soffermati a raccattare, per rilanciarli, i sassi che da una parte e dall’altra della strada ci venivano gettati addosso... Così Papa Giovanni a me, il 31 maggio 1963, mentre si disponeva a partire in un tramonto che aveva i contrassegni dell’aurora”. Ma anche lui, lasciata la diocesi di Chieti e poi quella di Loreto, traeva nel 1989 un bilancio amaro: “Il mio itinerario di ventisei anni, dal 1963 a oggi, è stato uno stillicidio di sofferenze tenute nascoste (il più possibile), previste da Lui… Caro P. David, spronato anche da Lei, che testimonia come si devono accettare le ‘variazioni’ più conturbanti, non ho paura né della ‘vecchiaia’, né del fatto di non contare nulla, e mi chiedo come spendere il resto di vita che Dio mi concede”. Il suo resto di vita sarebbe durato ancora 27 anni, il tempo che la provvidenza aveva disposto perché ricevesse, centenario, nella casa del suo Papa, la berretta cardinalizia inviata da Papa Francesco.

 

Aveva scritto ancora a padre Turoldo: “Inorridisco all’immagine di un congedo protocollare, con facce da funerale, tirate a lucido per la circostanza. La solitudine, che mi ha tenuto buona compagnia da sempre ma più accentuatamente dalla morte di Giovanni XXIII in poi, vorrà suggellare la mia bara, e con essa segreti e rimpianti, poche gioie e sincero pentimento”. Turoldo lo aveva preceduto di tanto. Nel dicembre del 1988, festeggiando lui malato a Sotto il Monte, Gianfranco Ravasi aveva indicato nella sua poesia “un tratto duro, che qualche volta impressiona, impaurisce, atterrisce”, ma aveva aggiunto: “Tutti gli amici che sono qui sanno di essere amati da lui in una maniera assolutamente unica e diversa, tante quante sono le persone. Ed è per questo che durante questa sua malattia si è creata una sorta di sinfonia attorno a lui”. E aveva concluso: “Vorrei quasi affidare a lui l’impegno di dare un messaggio… E’ una frase che ha indirizzato proprio agli amici e che penso possa rivolgere questa sera a tutti noi: ‘Torniamo, amici, ai giorni del rischio’. In questi tempi in cui si vogliono a tutti i costi certezze elementari, blande, fatue, grigie, giorni in cui ci si accontenta sempre dei colori modesti, degli orizzonti piccoli, padre David ci invita ad andare, come ha fatto sempre per tutta la sua vita, fino alle frontiere, a penetrare nei territori in cui i due cavalieri del bene e del male si combattono tra loro, verso confini sempre minati e misteriosi”.

 

Ci diciamo sempre le stesse cose.

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