Foto LaPresse

Memento Mosul

Adriano Sofri

Il mondo assiste indifferente alla gara per conquistarsi quel che rimarrà dopo la battaglia

Bisognerà spiegare, e spiegarsi, perché il destino di Mosul sia diventato sempre più indifferente al pubblico indifferente e agli stessi appassionati a quella causa. Non è solo effetto del tempo che passa, i quasi sei mesi dell’offensiva per anni dilazionata: che sarebbe durata almeno tanto era evidente a chi avesse un po’ di conoscenza dell’affare. Forse un soprassalto arriverà se arrivasse una carneficina un po’ più grossa, i filmati e la commozione di un giorno o due. Il fatto è che il tempo trascorso, i sei mesi della riconquista e gli anni della dilazione, ha già messo in scena le violenze e le guerre a venire, troppo ingorde per aspettare che Mosul sia sgombrata dai farabutti del Califfato prima di affacciarsi con la bava alla bocca e i coltellacci in mano. Ieri c’è stata un’informazione del portavoce militare iracheno a Baghdad. Ha detto che i miliziani dell’Isis ancora asserragliati dentro Mosul ovest sono un migliaio e che controllano più solo un decimo della città oltre il Tigri. Può essere vero, più arduo è prendere in parola la cifra fornita sui miliziani dell’Isis uccisi nel corso dell’offensiva, cioè dalla metà di ottobre dell’anno scorso: 14.647. La precisione, fino all’ultimo uomo, della cifra non basta a renderla più verosimile. E comunque costringe a scegliere fra questa e quella fornita all’inizio dell’avanzata della coalizione, quando le milizie dell’Isis nella città venivano calcolate fra 3 mila e 5 mila.

 

Intanto, si moltiplicano i pretendenti alla divisione delle spoglie del dopo-Mosul – i Proci, stavo per scrivere, se all’epopea non mancassero il mare e Penelope e Odisseo. Lo sventurato Trump, che aveva appena solennemente dichiarato l’impegno ad armare i combattenti curdi siriani per la riconquista di Raqqa, passando da una decisiva alleanza di fatto alla sua pubblica rivendicazione e alla sfida esplicita alla Turchia, ha ricevuto per una graziosa mezzoretta Recep Tayyp Erdogan e, senza sconfessare il proclama filo-curdo siriano, ha giurato guerra senza quartiere al Pkk curdo-turco di cui i siriani del Rojava sono compagni di fede e di lotta. La contraddizione non lo consentirebbe, la sfacciataggine di Trump e di Erdogan sì. Negli stessi giorni il territorio yazida di Shingal, fra Mosul e il confine siriano, già teatro di scaramucce e poi veri scontri armati fra “guerriglia” curda legata al Pkk e peshmerga curdi legati al governo di Erbil, ha conosciuto un inizio di invasione da parte delle truppe sciite di Hashd al Shaabi, già descritte come “paramilitari” e ora inglobate nelle Forze armate regolari irachene (o viceversa) e obbedienti di fatto a Teheran. L’avanzata delle milizie sciite dentro villaggi yazidi ha violato l’esplicito patto fra Baghdad ed Erbil che le escludeva da quel territorio e ha sollevato l’allarme di Barzani, presidente del governo regionale curdo, che oltretutto si era trovato di fronte al fatto compiuto senza averne avuto alcun preavviso. A Baghdad il primo ministro Abadi ha ammesso che la cosa fosse andata così e l’ha dichiarata risolta di comune accordo, come se si fosse trattato di un incidente stradale. In realtà anche questa ennesima scaramuccia è un episodio della variopinta guerra locale e internazionale che si va giocando su ogni tessera di questo mosaico sgangherato. I miliziani sciiti non sarebbero entrati nella zona di Shingal se non si fosse instaurata una convergenza, per non chiamarla ancora alleanza, fra loro e il Pkk, favorita dall’Iran in funzione anti-turca. E se il fronteggiamento fra curdi turco-siriani del Pkk e curdi iracheno-siriani del Pdk di Erbil non si fosse procurato in ciascuno dei due rivali una componente yazida da invocare a giustificazione della propria presenza militare. Erbil aveva risposto alla provocazione delle milizie sciite evocando una risposta che sarebbe venuta da “Stati Uniti, Turchia e Arabia Saudita”: cioè, a prenderla sul serio, la trasformazione di Shingal in un altro piccolo Yemen. E non è che uno dei capitoli di questo infinito garbuglio. Il rischio è appunto che il garbuglio riduca l’impegno alla liquidazione dell’infamia jihadista dell’Isis, a Mosul e a Raqqa – e a Hawijiah e nelle altre roccaforti minori in cui ancora tutto è sospeso perché i “liberatori” studiano la lunghezza dei rispettivi artigli. Il rischio è che lo scetticismo diventi cinismo o rassegnazione. Che cosa si potrebbe fare, e chi? Chissà. Che cosa si poteva fare e chi, nell’Europa in cui si completava la liberazione dal nazifascismo dopo una violenza impareggiabile e alla vigilia di un futuro di artigli affilati? Qualcosa si fece, qualcuno lo fece. L’Europa potrebbe riprovarci, fuori casa – ma quelle guerre le arrivano in casa: se fosse capace di riprovarci là, farebbe meglio la pace con se stessa, qua.

Di più su questi argomenti: