Valentino Parlato

La mia reciprocità silenziosa con Valentino Parlato

Adriano Sofri

Immaginare che l’altro sia vivo e abbia sentito che siamo morti, senza sgomento né vero dolore

Se si volesse e si sapesse dire che cosa proviamo alla morte di uno di noi, per così dire. Quel noi, quando si vive a lungo, cambia tante volte e però continua a durare, salvo che intervengano prescrizioni segnate non dal tempo ma da rotture imperdonate o smemorate. Ho fatto amicizia con Valentino Parlato cinquant’anni fa. L’avrò visto un paio di volte negli ultimi vent’anni. Non importa, ieri ho rinunciato a scrivere qualche riga. Avrei potuto scrivere che lo salutavo, che gli volevo bene, che era un uomo bravo. Si è ricordato nei sottotitoli che aveva votato per la Raggi, come se fosse. Pensiamo “uno di noi” e i connotati più strettamente politici del noi sono sbiaditi ed è un’altra comunanza che preme, più vaga e però esigente. Una reciprocità, che permette di immaginare che l’altro sia vivo e abbia sentito che siamo morti, senza sgomento né vero dolore, perché è quello che ci aspettiamo l’uno dall’altro, ma con una pena intima e non rassegnata.

 

Ogni tanto due di noi si incontrano per caso e dopo tre frasi già si domandano a vicenda “che fine ha fatto” un altro di noi. Non lo sai? E’ stato male, o si è trasferito a Shangri-La, o ha votato Raggi, o, come, non lo sapevi? E’ morto già da tre anni almeno. Ci accomiatiamo e troviamo presto il modo di liberarci dal pensiero, che fine abbiamo fatto. Poco fa avevo ricevuto i saluti di Valentino, gli volevo bene, mi fa piacere credere che mi volesse bene. C’è una reciprocità che non chiede niente, alla fine, ma è stata quasi abbastanza.

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