Tayyip Erdogan. Foto LaPresse/Reuters

La democrazia violata

Adriano Sofri

Ecco perché il risultato del referendum in Turchia mostra un Erdogan sempre più debole

Penso che il “rispetto per la sentenza delle urne” sia del tutto fuori luogo per il risultato dichiarato del referendum turco. Le opposizioni che denunciano brogli e irregolarità, e l’improvvisata sanatoria delle schede non vidimate da parte del competente comitato elettorale, sono ragioni sufficienti a mettere in causa quel risultato. Ma erano già le condizioni che hanno preceduto e preparato il referendum a invalidarne lo svolgimento: le colossali misure di repressione, epurazione e intimidazione attuate dopo il tentato golpe, la guerra a oltranza contro la rappresentanza parlamentare e amministrativa del sud-est curdo e l’assedio delle sue città, e lo stesso programma di Erdogan, che un ilare eufemismo chiama presidenzialista, bastavano a dimostrare pregiudicato l’appuntamento del referendum. Naturalmente occorreva dirlo prima. L’Europa politica non l’ha detto, o non abbastanza, e quando suoi membri, come il governo olandese, hanno preso decisioni drastiche come il respingimento di membri del governo turco, l’hanno fatto avendo d’occhio le proprie elezioni e non la denuncia della democrazia violata in Turchia. Le stesse decisioni hanno reciprocamente funzionato in pro di Erdogan, in particolare nel voto degli elettori turchi espatriati.

 

Ora il risultato elettorale proclamato frettolosamente e ancora più frettolosamente tradotto nei fatti dal regime dell’Akp è una testimonianza ammirevole della renitenza di una così vasta parte della società turca, non solo numerica, come mostra il voto delle maggiori città. Erdogan ci è arrivato attraverso un percorso che avrebbe dovuto dissuadere qualsiasi leader sensibile alla democrazia e preoccupato dall’incombenza di una guerra civile: attraverso il voto parlamentare fallito, la ripetizione delle elezioni, un golpe spaventato e anticipato da piegare all’epurazione di gulenisti presunti e veri militari, magistrati, poliziotti, professori e giornalisti. Ora dispone, secondo lui, del 51 per cento per stravolgere la Costituzione del suo paese. Si può ritenere che le mosse screanzate che ha improvvisato nella sua lunghissima campagna elettorale l’abbiano aiutato a farcela. Più fondatamente, hanno contribuito a fargli perdere fiducia e voti rispetto alle elezioni ultime, nelle sue stesse roccaforti. L’hanno isolato sul piano internazionale. Rotti, ipocrisie a parte, i legami con l’Europa, compresa, che è più singolare, la componente autoritaria e nazionalista dell’Europa, quella che lui chiama “nazista” dal suo inaspettato antifascismo. Escogitata un’alleanza di ritorno con la Russia derisa dall’esibizione del vertice sciita di Mosca fra Putin, Iran e Siria di Bashar. Invocato un ritorno di benevolenza degli americani che però non riesce, per ora (e speriamo che duri) a far loro ripudiare l’alleanza coi curdi siriani a Raqqa. Erdogan è più debole e dunque è probabile che debba e voglia forzare ulteriormente le cose. Il risultato del referendum, si dice, gli permette di restare in sella da sultano “fino al 2039”. Il risultato del referendum, al contrario, sembra escludere, politicamente, che Erdogan sia destinato a morire di morte naturale. Resta da vedere a che costo per i suoi sudditi, che hanno mostrato di non rassegnarsi facilmente a essere sudditi.

Di più su questi argomenti: