Iraq, l'offensiva delle truppe governative a sud di Mosul (LaPresse)

A Mosul il peggio arriverà quando non ci sarà più traccia del Califfato

Adriano Sofri

Un destino di violenza sanguinosa e irriducibile

Il poco spazio riservato alla battaglia per Mosul nell’ultimo paio di mesi era stato anche il contraccolpo dell’enfasi roboante e delle vere entusiastiche balle raccontate dai media al momento del lancio dell’offensiva, a metà dello scorso ottobre. Allora, l’ingresso delle forze speciali irachene, la Golden Division, in un sobborgo della grande città era passato per la conquista di Mosul. Eppure tutte le voci ragionevoli avevano previsto una durata della battaglia di molti mesi. Ne sono passati più di quattro, e si sono attraversate altrettante tappe. L’avanzata dei primi giorni era stata piuttosto impetuosa e la propaganda e la disinformazione avevano fatto il resto: la caduta dell’Isis a Mosul sembrava a portata di mano. Ma si era solo alla parziale ripresa della metà orientale – rispetto al fiume Tigri, il lato di Ninive – della città. L’avanzata cominciò presto a segnare il passo. Le altre truppe irachene non avanzavano abbastanza dal fronte meridionale e non assicuravano nemmeno il retroterra della divisione “antiterrorismo”. Ci furono episodi di vere ritirate di reparti iracheni. Soprattutto la resistenza dell’Isis, pur nella zona orientale passata in mano a iracheni e coalizione, si mostrò micidiale: autobombe, cecchini, tiri di artiglieria leggera e poi il ricorso più frequente e affinato ai droni esplosivi. In questo secondo e lungo periodo le operazioni militari furono praticamente fermate – gli stati maggiori iracheni parlarono di una “pausa” destinata al consolidamento. Né i comandi iracheni né quelli curdi – questi ultimi avevano svolto tutta la campagna iniziale di liberazione dall’Isis dei villaggi della piana di Ninive – hanno fornito dati esatti sulle perdite, che tuttavia sono state pesantissime. Ufficiosamente centinaia, nelle voci interne migliaia di uomini, e molte migliaia di feriti. La Divisione d’Oro, il gioiello “americano” delle forze armate irachene, rischiava di uscirne decimata.

 

In questo periodo, col passaggio dalla guerra di movimento a una di posizione, l’epopea dell’offensiva cedette via via a un disincanto e una svogliatezza, tanto più nell’attenzione internazionale, che intanto era assorbita dall’assedio di Aleppo. Agiva in questo senso anche la relativa limitatezza dei numeri tragici. Mosul era stata una città di oltre due milioni di abitanti, e ne aveva ancora quasi altrettanti. L’avvio della battaglia aveva fatto temere una carneficina immane, e comunque un disastro “umanitario” senza precedenti: l’eventualità di un esodo precipitoso di un milione e mezzo di fuggiaschi, paventato e annunciato, senza peraltro che fosse predisposta alcuna adeguata misura di accoglienza. Non è avvenuta, fin qui, né la carneficina né la fuga enorme. Fin qui. Sono stati denunciati e a volte documentati casi di violenze e abusi e vendette commessi contro civili sospetti o per pura faziosità e intolleranza, ed è necessario che vadano tutti vagliati e puniti. Ma l’attitudine militare tenuta a Mosul sia nei bombardamenti aerei sia nell’azione al suolo dalla coalizione è stata – fin qui – tale da distinguerla da quella tenuta e ostentata dall’alleanza russo-siriana-sciita ad Aleppo.

 

L’altra faccia di questa cautela – che la si voglia ritenere al tutto o in parte civile o invece ipocrita-diplomatica – è stata la scelta di raccomandare alla popolazione di Mosul di non tentare di abbandonare la città ma di rifugiarsi al chiuso delle proprie case. Solo nelle ultime ore sono arrivate parziali esortazioni a sollevarsi con le armi contro l’Isis. Quanto ai civili che comunque sono scappati dopo l’inizio della battaglia per Mosul, soprattutto dalla zona orientale, si è scelto di rendere l’accoglienza nei campi di raccolta degli Idp, gli sfollati, già esistenti o allestiti per l’occasione, la più breve possibile, e di indurre, quando non forzare, un rapido ritorno ai loro luoghi. Così anche la condizione di profughi e sfollati, accolti soprattutto nel territorio del governo regionale curdo, in un inverno che è stato decisamente rigido, ha contribuito a ridimensionare l’attenzione e la commozione attorno alla battaglia di Mosul. Fin qui, diciamolo ancora. Perché la sua tappa principale è appena stata inaugurata, dopo la conclusione della piena espugnazione di Mosul est –dove gli attentati e le sortite di uomini e congegni dell’Isis sono tuttora all’opera. Abbattuti tutti i ponti sul Tigri, la nuova offensiva della forza speciale irachena, e della forza aerea americana e della coalizione, si è mossa dalla zona a sud di Mosul, finalmente sulla sponda occidentale. Giovedì è stata annunciata la conquista dell’aereoporto, ormai praticamente fuori uso, dal quale sarebbe aperta la strada verso la Città Vecchia. Qui abitano ancora, secondo le differenti valutazioni, fra 600 e 800 mila persone, e fra loro forse 350 mila bambini. E’ qui la vera roccaforte dell’Isis, qui la moschea dalla quale al Baghdadi proclamò l’instaurazione del Califfato, qui una struttura urbana che, a differenza che nella parte ovest, impedisce i movimenti dei blindati pesanti. (L’esercito iracheno starebbe dotandosi di veicoli corazzati miniaturizzati per avanzare nei vicoli). Qui vive una popolazione estremamente provata dalla penuria e dal costo di cibo ed energia, oltre che dall’oltranza repressiva dell’Isis, dunque il più spaventoso rischio di un suo olocausto da parte delle milizie jihadiste. Si trova qui anche la parte di popolazione che assicurò all’Isis il proprio consenso già prima e poi dopo la presa del potere nel giugno del 2014, e che ancora glielo assicura nonostante tutto. E’ questa la spiegazione di un altro fattore di stanchezza e svogliatezza verso la drammatica battaglia di Mosul, sensibile soprattutto in Kurdistan. I curdi per lo più vi avvertono che Mosul, e non Tikrit, che pure era la culla di Saddam, è stata la vera capitale del jihadismo sunnita e insieme delle forze baathiste che hanno offerto al Califfato il suo nerbo tribale e militare. Così la battaglia di Mosul, che sembra così cruciale per le sorti del medio oriente e oltre, è vista qui da molti come un epilogo dello scontro fra i due oltranzismi sciita e sunnita, al cui termine formale, la cacciata dell’Isis da Mosul, comincerà una violenza ancora più sanguinosa e irriducibile. E i curdi adulti sono persone che non ricordano un periodo della loro vita in cui non ci sia stata la guerra. I curdi giovani, per quello che ne vedo, non ne vogliono sapere. La partecipazione, la solidarietà con la liberazione di Mosul dall’Isis, mi dicono, è affare di un like su Facebook. All’Accademia di belle arti Ali Adi, il mio amico pittore che come tutti della generazione di mezzo ha un passato di militante e di esule, ha dato un tema ai suoi allievi: estraete dagli avvenimenti contemporanei un fermo immagine e illustratelo. Hanno immaginato per lo più una scena che avesse a che fare con storie d’amore, nemmeno uno ha scelto qualcosa che avesse a che fare con la guerra o la politica. L’amore, dico, c’entra, è il contrario della guerra, ma Ali non ne è convinto. Nemmeno io.

 

Quanto ai responsabili curdi, il cui impegno fu essenziale nella prima fase dell’offensiva per Mosul, restano militarmente impegnati ma hanno già rinunciato a presentarla come la grande riconciliazione nei rapporti con Baghdad. Al contrario, quei rapporti sono tornati al punto morto iniziale, sulle partite economiche come su quelle politiche, ed è forte l’incombenza di un conflitto post-Isis fra curdi e milizie sciite, ora integrate a pieno titolo nelle forze armate irachene. Baghdad resta un luogo d’azzardo. Se la battaglia di Mosul ha dato lustro a un esercito iracheno, o almeno ai suoi reparti speciali, che lo aveva rovinosamente perduto, il bando di Trump ha costernato il suo governo, nel momento del più forte impegno sul campo con l’alleato americano. Guaio cui negli ultimi giorni un viavai di primattori politici e militari americani ha cercato di mettere una toppa.

 

Tutto questo spiega il grigiore nel quale è entrata la battaglia per Mosul, alla vigilia del suo incendio maggiore. Ho l’impressione che stanchezza e svogliatezza abbiano coinvolto anche le organizzazioni internazionali che pure hanno in Kurdistan una loro frequenza lussureggiante. Da domani tuttavia il calendario dell’assedio della grande città tornerà a farsi urgente. 

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