La lotta alla corruzione come arma di distrazione di massa

Rocco Todero

Come ai tempi di "Mani pulite" calamitare l'attenzione verso la lotta al malaffare politico, che pure esiste, serve per non affrontare le responsabilità dei molti italiani che vivono di spesa pubblica

Il dibattito sul disegno di legge che nelle intenzioni dei suoi promotori dovrebbe inasprire la lotta alla corruzione utilizzando gli arnesi della lotta alla mafia ha rivelato, dopo numerosi interventi autorevoli di giuristi e politici di grande esperienza, come lo strumento prescelto rischi da un lato di essere del tutto spropositato rispetto allo scopo che si vuole perseguire e, dall’altro, di rappresentare niente di più che l’ennesimo epifenomeno del massimalismo manettaro ultra illiberale di marca italiana.

 

Le opinioni sull’argomento raccolte anche da questo giornale (fra le quali meritano di essere ricordate quelle di Luciano Violante e di Raffaele Cantone) hanno fugato qualsiasi residua perplessità circa l’opportunità della misura legislativa proposta, ed hanno, anzi, distillato notevoli dubbi persino sulla sua legittimità costituzionale, cosicché qualsiasi ulteriore riflessione sul tema rischierebbe di apparire sovrabbondante oltre che poco originale.

 

Resta da indagare, tuttavia, la ragione per la quale un provvedimento così congegnato sia stato dapprima concepito senza la remora di alcun minimo dubbio giuridico e poi sostenuto a spada tratta nonostante le numerose ed autorevoli critiche che lo hanno colpito.
Una ragione deve pur sussistere ed appare rinvenibile nella medesima spiegazione che lo storico Luciano Cafagna diede esattamente 25 anni fa, allorché descrisse in un suo saggio, utilizzando l’efficacissima metafora de “La grande slavina”, l’accavallarsi nel nostro Paese, intorno al 1993, degli effetti della crisi fiscale e di quelle morale e istituzionale.

 

Davanti all’enormità di un debito pubblico che era servito negli ultimi 50 anni nell’ordine, per foraggiare milioni di italiani, contrastare la disoccupazione strutturale, sostenere imprese pubbliche e private che impiegavano decine di migliaia di posti di lavoro fittizi, impiegare migliaia di precari nella pubblica amministrazione e che per essere sostenuto costringeva al pagamento di tassi d’interesse stellari, gli italiani, anziché immergersi in un bagno di umile autocritica al fine di sostenere decisioni politiche che avrebbero permesso di impedire per il futuro che metà di loro vivesse sulle spalle dell’altra, hanno pensato bene di sfogare la propria delusione per la fine dell’epoca d’oro (a debito) coltivando l’ossessione della lotta alla corruzione del ceto politico.

 

Difficilmente possono trovarsi parole più efficaci di quelle di Cafagna: “ Se sulla crisi fiscale si innesta una questione morale di ampie proporzioni, allora si verifica, nell’immaginario collettivo, un fenomeno del tipo << capro espiatorio>>, che calamita le responsabilità di tutto quel che si annusa come non funzionante su coloro che hanno violato le regole indesiderate di moralità politica. La percezione delle cose si deforma, sgravando le responsabilità stratificate, complesse e diffuse, e pervenendo a una identificazione simbolica del deficit pubblico con la << ruberia>> dei politici. Si provoca un fenomeno acuto di delegittimazione della classe dirigente. E si determina inoltre un minaccioso cumulo di effetti: la crisi fiscale, per l’intermediario della nozione di spreco, riverbera le sue cifre sulla << questione morale>> moltiplicandone la sensazione di specifica gravità finanziaria, e la questione morale, dal canto suo, delegittima i tentativi eventuali di azioni correttive del potere politico verso la crisi fiscale, aggravandone i termini. ….”.

 

Il dubbio è proprio questo: che anziché rappresentare francamente i guasti del deficit spending per chiedere agli elettori il sostegno politico per riformare alla radice l’assetto economico - sociale del nostra Paese, si voglia ancora adesso tenere desta l’attenzione dell’opinione pubblica verso la lotta contro la corruzione politica per evitare di discutere delle vere cause della crisi economica.
Come 25 anni fa, come nel 1993, la classe politica (di sinistra) grida all’assalto contro la pagliuzza per nascondere l’inerzia nei confronti della trave.

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