Un frame del film "The Place"

L'insostenibile delusione del cinema italiano

Mariarosa Mancuso

In “The Place” sembra stiano facendo il saggio all’accademia d’arte drammatica. Peccato 

Se non avessimo pratica di cinema italiano giureremmo che è impossibile. Si sceglie una serie a presa rapida sullo spettatore, la si traduce pari pari – l’adattamento è un’altra cosa, qui non c’è stato bisogno di cambiar nulla, essendo l’ingrediente la natura umana con le sue debolezze – e la si fa recitare ai migliori attori italiani. Il risultato è talmente deludente che non crediamo ai nostri occhi. “The Booth at the End” è il titolo della serie, creata da Christoper Kubasik: voleva qualcosa che costasse poco e rendesse tanto. Unico set, una tavola calda anni 50. Un tizio sta seduto al tavolo in fondo, davanti a lui si alternano vecchi, giovani, uomini, donne, anche una suora. “Tutti vogliono qualcosa”, come diceva il titolo di un film di Richard Linklater. Qualcuno ha già chiesto all’uomo misterioso cosa vuole, qualcuno la deve ancora chiedere (lui annota tutto su un quadernone: le richieste e i compiti assegnati perché i desideri si realizzino). La parola d’ordine prima di sedersi è “mi hanno detto che il pastrami qui è buonissimo”. A parte il pastrami – che a Roma onestamente non possiamo pretendere – “The Place” di Paolo Genovese (da oggi nelle sale dopo l’anteprima alla festa di Roma) riproduce esattamente la situazione. L’uomo che esaudisce i desideri è Valerio Mastandrea, uno dei pochi attori italiani che abbiamo negli anni apprezzato. Primo problema, non di poco conto: risulta del tutto sprovvisto dello sguardo mefistofelico che il ruolo richiede. Xander Berkeley, che recita nella serie, lo aveva eccome: era insinuante e diabolico, come si conviene a uno che per far guarire il marito dall’Alzheimer chiede a una vecchietta di fabbricare una bomba e di farla scoppiare in un luogo affollato.

  

Siamo tra “La zampa di scimmia” di William Wymark Jacobs – secondo Steven King uno dei più paurosi racconti dell’orrore mai scritti, tre desideri da esaudire e vengono tutti formulati in maniera disastrosa – e “Button, Button” di Richard Matheson: “Per diventare ricco faresti morire qualcuno premendo un pulsante?”. Roba forte, difficile da smorzare. E invece succede. Stiamo attaccati alla serie, i personaggi sono disegnati con un realismo impressionante. Non è solo recitazione, sono le facce, gli abiti, il modo di parlare: in “The Place” sembra stiano facendo il saggio all’accademia d’arte drammatica. Le persone non parlano a quel modo, quando hanno appena saputo che per esaudire il proprio desiderio devono rapinare una banca, o pestare uno sconosciuto a sangue. Non è solo violenza: alla suora che vuole ritrovare Dio chiede di farsi mettere incinta.

  

Il film di Paolo Genovese rallenta il ritmo, sottolinea ogni parola pronunciata. Non pare neppure più la stessa sceneggiatura. Cominciamo a chiederci chi sia l’uomo misterioso, e l’incanto sparisce. Peccato.