Eleonora Giorgi e Carlo Verdone sul red carpet della Festa del cinema di Roma (foto LaPresse)

I vantaggi della Festa del cinema di Roma rispetto al Festival

Mariarosa Mancuso

Il direttore Antonio Monda non è più costretto a rincorrere le prime assolute o le prime internazionali. I critici che la seguono, non sono più costretti a seguire un concorso geograficamente corretto

La Festa del cinema di Roma ha molti vantaggi rispetto al Festival. Per Antonio Monda che la dirige, e non è più costretto a rincorrere le prime assolute o le prime internazionali (magari di film che nessuno ha voluto altrove). Per i critici che la seguono, non più costretti a seguire un concorso geograficamente corretto – certe cinematografie, per esempio la portoghese e la brasiliana, non hanno ancora afferrato il concetto base: si chiama cinema perché qualcosa si deve muovere.

 

Gli spettatori hanno sempre scelto quel che preferiscono vedere, comprando i biglietti. Ma è evidente che poter scegliere tra “I, Tonya” di Craig Gillespie e “Detroit” di Kathryn Bigelow attira di più che dover scegliere tra l’iraniano e il rumeno (abbiamo scelto apposta due paesi che raramente sbagliano, e che visti dall’Italia fanno morire d’invidia per le idee e le sceneggiature).

 

Tra gli imperdibili c’era “Logan Lucky” di Steven Soderbergh, che cambia genere ogni volta che gira un film (e qualche anno fa aveva annunciato il suo ritiro). Il camp di “Liberace”, “Sesso, bugie e videotape” (anno 1989, produzione Harvey Weinstein con la sua Miramax), la serie vetero-ospedaliera “The Knick”. Rapina, in West Virginia, alla Charlotte Motor Speedway dove si sta disputando una corsa NASCAR (le macchine del film “Cars”, per noi che non sappiamo di automobilismo: ma non è importante). Congegnano il piano i fratelli Logan: Adam Driver senza un braccio e Channing Tatum che zoppica, mentre la sfortuna sembra perseguitare la famiglia. Pensate a “Ocean’s Eleven’s” mescolato con gli idioti di “Fargo” o di certi film con George Clooney.

 

Che vi piaccia o no il tennis, “Borg McEnroe” di Janus Metz è una delusione. La partita opponeva il gelido svedese all’irascibile americano (“il punto più basso toccato dai valori Usa dopo Al Capone”, annuncia un commentatore). Il primo era al suo quinto Wimbledon dopo averne vinti quattro, l’altro moriva dalla voglia di affermarsi. Shia LaBoeuf – attore irascibile anche nella vita, ricordiamo una sua passerella con un sacchetto di carta in testa, due i buchi per gli occhi – è una scelta perfetta. Sverrir Gudnason è più immobile e inespressivo di quanto richiesto dalla parte. La sceneggiatura dice una cosa, la ripete, dopo un po’ la spiega, la ridice come se fosse nuova, la ripete un’altra volta, fino a esaurimento dello spettatore che vuole solo vedere i palleggi (gli piaccia o no il tennis).

 

Scoperte, pochissime. L’unica che si fa ricordare è il disegno animato “The Breadwinner” di Nora Twomey (condiviso con la sezione Alice nella città). Prodotto da Angelina Jolie, che non sta dietro la macchina da presa e quindi non fa danni. Racconta una ragazzina afghana di undici anni che si taglia i capelli e si veste da maschio, per sfuggire ai talebani e comprare da mangiare alla famiglia.

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