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Perché il rap di Eminem contro Trump è uno sfregio più degli altri

Stefano Pistolini

Il rapper bianco viene dalla culla dei “Reagan Democrats”, oggi parla ai suoi fan che sono trumpiani e dice: o me o lui

Roma. La prima cosa sconcertante, quanto alle turbolenze seguite alla presentazione tv della clip di Eminem alle prese (finalmente) con una nuova produzione, “The Storm”, un sermone-rap anti-Trump, è che tutto questo rumore saluta la discesa in campo di un rapper bianco, anzi, dell’unico bianco che conti in questa scena artistica. Veterano 45enne dalla vena esaurita e dai mille turbamenti che ne hanno ridotto a zero la presenza e la produzione, Eminem riappare, si direbbe, per fare un discorso chiaro a quelli come lui, anche se poi il suo exploit è stato subito rilanciato a livello nazionale, come caso mediatico del momento, giusto a fianco alle peripezie di Harvey Weinstein. Già: vacche grasse per tv e giornali – in un periodo in cui i grandi eventi raramente escono dal solco di sangue in stile Isis/Vegas – poter sbattere in prima pagina questa triade di campioni: Weinstein lo zozzone, il redivivo Eminem incacchiato e Donald, che è uno show a parte. Non che una pletora di rapper neri non si fosse già scagliata a colpi di rime contro le nefandezze del presidente: ma adesso parla – con stile e intensità, perché i quattro minuti del video senza musica, registrato in parcheggio davanti a una black posse in solenne silenzio, semplicemente spaccano – il rapper bianco che ha sempre incarnato la contraddizione d’essere il più bravo di tutti. E il pubblico di Eminem non è quello di Kendrick Lamar o Kanye West, per quanto esistano comunanze amorose tra i seguaci.

  

 

  

Come il NY Times ha indagato, ma come già traspare ascoltando le storie dette da Eminem negli anni e seguendone le peripezie private, la gente che lo ama ha un’altra estrazione, altri interessi, un’appartenenza differente: per lo più bianchi, delle classi inferiori e delle aree rurali. Qui Eminem dice loro, con un linguaggio da bar-biliardo, di scegliere: “Tiriamo una riga / con me o contro di me. Se non sai decidere e tentenni / se non sai con chi stare / ti aiuto io: vaffanculo”. Secondo lui non c’è da discutere: quel porco di Trump porta la nazione verso l’olocausto nucleare e insulta gli atleti che protestano contro le violenze razziali della polizia. Il paese, soprattutto quelli come lui, ovvero i bianchi che stavolta hanno votato per questo agitatore antipolitico, non possono far finta di niente. Devono dire se per loro va bene che le cose procedano così, che è ciò che volevano il giorno che l’hanno spedito alla Casa Bianca, o se hanno intenzione di dirgli di togliersi di torno, perché c’è stato un equivoco e la delega è sospesa. “Loro” sono 20 milioni di followers su Twitter e una base di fan che non smette di riconoscersi nelle sue canzoni, impareggiabili nel descrivere la porcheria del nascere bianchi dalla parte sbagliata della ferrovia, nei trailer park o nei villaggi diseredati, nelle famiglia squassate dalla mancanza di istruzione e lavoro, piagate dall’alcol e dalla droga, divorate dall’insoddisfazione e dalla rabbia.

 

Eminem è un ex ragazzo della Rust Belt che teneva su i pantaloni dell’industria Usa e che oggi è una lacerazione nel corpo di una nazione che fatica ad ammettere le sconfitte. E’ da posti come i suoi, la Macomb County alle porte di Detroit che, a fine 900, è spuntato un fattore imprevisto dello scenario sociopolitico americano: i Reagan Democrats, working class bianca e sottoproletari troppo incacchiati per condividere obbiettivi e rappresentanza con la classe media e le sue ambizioni. Là si ragiona di stomaco ed è più facile odiare. Anche votando contro i propri interessi, solo per dimostrare di esistere: per Reagan, appunto, o per Bush e poi per quello svitato di Trump, che così farà venire l’orticaria a Hillary. Il gesto di Eminem con “The Storm” evoca quello del redneck che, dopo un fiotto isterico, la mattina dopo prova a ragionare. Ora lo dice a quelli come lui. La notizia è che oggi non ci siano prese di posizione da parte di intellettuali o politici che possano rivaleggiare con l’audience riservata ai versi di un rapper sotto psicofarmaci. Eminem dice all’America disgraziata “guardate che casino abbiamo combinato”, e il resto del paese ascolta. Ascolta perfino un presidente che, fosse per lui, gli avrebbe già risposto per le rime. Il mondo cambia e l’America di più. Il dibattito (e i suoi effetti, perché un’onda così può montare chissà fin dove) si è abbassato di qualità. Ma la sensazione è che, facendosi rap, possa trovare la vie per tornare a essere popolare.

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