L'attivismo (non comunista) di Bono Vox

Rosamaria Bitetti

Durante il concerto dell'Olimpico il frontman degli U2 ha proposto una visione individualistica e trasversale del cambiamento sociale che è oramai impopolare

Quando si va a un concerto degli U2, un po’ di attivismo politico ce lo si aspetta: Bono Vox rappresenta – e lui è il primo a scherzarci – l’idealtipo della rockstar con il complesso messianico, da decenni in prima linea a raccogliere fondi per qualsiasi causa di solidarietà. Quello che non ci si aspetta, però, è che una rockstar abbia un’idea del cambiamento sociale molto più sofisticata di quella degli attivisti di professione.

 

Già qualche anno fa aveva sconvolto i benpensanti ricordando una cosa che dovrebbe essere ovvia, ma non lo è: “Gli aiuti sono solo dei tappabuchi” dichiarò a una conferenza a Georgetown. “Il commercio, il capitalismo imprenditoriale liberano dalla povertà più persone degli aiuti – dovremmo saperlo tutti. L’Africa dovrebbe diventare una potenza economica”. In una Ted Talk sulla riduzione della povertà, ha snocciolato dati contro il catastrofismo, ricordando che la porzione di popolazione mondiale che vive sotto la soglia estrema di povertà è scesa dal 43% al 33% dal 1990 al 2000, e poi al 21% fino al 2010. Dimezzata. Che grazie a un aumento degli investimenti diretti all’estero – di nuovo: investimenti, non aiuti – i paesi subsahariani sono riusciti a ridurre la povertà e la mortalità infantile. Una rockstar predicatrice, ma che predica basandosi sui fatti – “evidence-based activist”, ama scherzare. E che non chiede semplicemente allo stato – a qualcun altro – di inventarsi più soldi, ma chiede a tutti gli individui di controllare lo stato, ridurne la corruzione, per liberare risorse per la crescita (e anche per gli aiuti, nessuno è perfetto).

 

E anche ieri sera, al pubblico esaltato da una scaletta di grandi classici, ha chiesto di controllare i governi, di “fare paura” ai politici. Un Bono Vox quasi libertario, che rievoca l’idea profondamente americana che i governi siano creati dagli uomini, a cui spetta sempre il compito dello scetticismo e della vigilanza sul potere – non l’abbandono fiducioso al dio-stato. In God’s country viene introdotta come una canzone sull’America: non un luogo fisico, ma ideale in cui le persone più diverse possano trovare un modo di convivere e perseguire la propria visione della vita. Sembra rievocare il famoso trittico della Dichiarazione d’indipendenza: Life, Liberty and the Pursuit of Happiness. (Nota di colore: un gruppo di fan intorno a me, forse stanchi di cotanto costituzionalismo, comincia ad intonare in risposta “Roma Alé, Roma Alé”).

Se lo stato non è la panacea di tutti i mali, non può essere un modo per deresponsabilizzarci e invocare soluzioni dall’alto. Le soluzioni le trovano gli individui. Ed è toccante come gli U2 utilizzano la meravigliosa scenografia per raccontare – adattando Miss Sarajevo – l’aspetto individuale della crisi in Siria. Ancora, non il solito poverty porn con cui si parla delle emergenze mostrando immagini strazianti. I bambini e gli adulti nel campo profughi di Zaatari si muovono fra le rovine con dignità e anche gioia: cercano di vivere ed essere felici, esattamente come noi. “Se potessi parlare a tutte le persone in uno stadio, cosa gli diresti?” – chiedono nel video a una quindicenne siriana – “Di essere felici e perseguire i propri sogni, perché non posso più tollerare altra tristezza”.

 

Bono Vox propone una visione individualistica e trasversale del cambiamento sociale che è oramai impopolare. Mentre gli intellettuali ci ripetono ogni giorno che è il neoliberismo, i poteri forti, il patriarcato, qualsiasi entità collettiva, a tramare per distruggere il mondo, a Roma Bono Vox ha ricordato che è nelle mani di ognuno di noi. Se la buona vecchia soluzione della sinistra, dare colpa al neoliberismo e chiedere allo stato di risolvere i problemi, non funziona, allora non c’è una parte che ha la superiorità morale di dettare l’agenda del cambiamento.

 

Il cambiamento parte dagli individui, e deve essere inclusivo. One, si chiama l’ultimo network di attivismo del frontman degli U2, perché ognuno può trovare il suo modo di contribuire a risolvere i problemi. Mentre dedicavano Ultraviolet a tutte le donne che, nel pubblico e nella vita, si impegnano a cambiare le cose, sfilava sul maxischermo una carrellata di donne-modello. Alcune di queste donne non rientrano nel mio pantheon di eroi intellettuali. Alcune di queste non rientrano nella lista che l’ortodossia del femminismo contemporaneo considera donne meritevoli di stima (ad esempio, Emma Watson, che qualche tempo fa è stata attaccata come falsa femminista per aver accettato di posare un po’ scoperta sulla copertina di Vanity Fair). Le donne su quello schermo, se potessero magicamente incontrarsi e discutere, probabilmente litigherebbero furiosamente. Ma il punto è esattamente questo: nessuno di noi sa qual è il modo giusto per cambiare il mondo, sta a ognuno di noi sperimentare e trovare il modo migliore per farlo.