Bob Dylan

Bob Dylan, l'enigma

Stefano Pistolini

Il neolaureato premio Nobel esce con Triplicate, che è l’ennesimo grande canzoniere americano

La sua versione di “Stardust”, al tempo stesso rallegra e fa piangere. Come un film di Woody Allen – anzi l’atmosfera è proprio quella, quelli vecchi, ai tempi di “Radio Days”. Il viale del tramonto di Bob Dylan è lungo, dorato, ma anche terribilmente malinconico – e questo non era prevedibile. Esce “Triplicate”, il terzo album che il cantautore (in vacanza, come autore) dedica alla canzone americana classica del Novecento, mandando nei negozi addirittura un triplo con trenta canzoni che, se vogliamo fare i precisini, sarebbero state comodamente in un formato doppio. Ma dopo mezzo secolo di carriera luminosissima, vogliamo fare le pulci alle scelte di marketing di Bob?

 

Piuttosto viene da chiederci, con curiosità e rispetto, cosa gli passi per la testa di questi tempi e cosa ci sia dietro la scelta reiterata d’indossare i panni del crooner e d’interpretare i pezzi famosi degli altri, col suo stile e con quella vocalità non imitabile. Se si tratti solo di pigrizia, di inaridimento, esaurimento degli argomenti, imbarazzo nel tornare a poetare adesso, da vecchio, con un repertorio di figure, immagini e demoni che ha dato già mille repliche e non serve ne aggiunga altre. Insomma, se il suo negarsi nella sua essenza e il suo concedersi in questa versione a mezza luce sia un capriccio calcolato, il gesto di ritrosia di un sommo caposcuola, che si limita a interpretare il prologo a sipario chiuso. Anche la presentazione del lavoro Dylan l’ha ottimizzata concedendo una sterminata intervista a un unico giornalista di fiducia, Bill Fanegan, e pubblicandola sul suo sito bobdylan.com.

 

Qui si concede gigionismi, come lo spiegare che i 10 brani su ciascun disco, per un totale fisso di 32 minuti, per lui è questione di numerologia, quelli sono numeri fortunati e poi solo così le masterizzazioni vengono bene e i solchi non si ammassano troppo. Difficile dargli retta quando spiega che le sue canzoni sono sempre state troppo lunghe e di conseguenza il suono dei suoi album è sempre stato poco corposo: ci prende in giro, che è il suo modo prediletto di rapportarsi col prossimo, a meno di non essere un venerabile bluesman del Delta. Ed ecco che gli viene servita su un vassoio d’argento la domanda delle cento pistole: “Non sei preoccupato di ciò che possono pensare i fan di un altro album di standard?”. La risposta ha il suono metallico della provocazione: “Queste canzoni sono per l’uomo della strada, la gente qualunque, le persone di tutti i giorni. Forse sono dei fa di Bob Dylan, forse no, io non lo so”. Che è un po’ rasentare il sadismo, sapendo bene che solo i fan di Dylan più rocciosi possono bearsi di sentire come sarà quel certo classico passato attraverso l’autotune vivente che è l’ugola di Bob, connessa a quegli arrangiamenti finto-filologici, che evocano un culto dell’americanità nei dintorni del surreale.

 

Il viaggio tra queste canzoni e i fantasmi rimasti impigliati nei loro spartiti, è un elucubrazione che sta tutta nella testa di Dylan, nel suo rapporto maniacale con la storia della musica leggera americana e con il ruolo psicoanalitico che essa ha giocato, avvinta alla parabola del progresso in quella nazione. “Volevo fare giustizia a queste canzoni” sostiene, perché i significati ancora nascosti in esse meritavano d’essere valorizzati: “Queste canzoni hanno lo sguardo limpido. C’è un realismo diretto in esse, una fede paragonabile a quella del primo rock’n’roll”. Affiorano riverberi di quel Dopoguerra, che Bob conosce da bambino: “Vengo da Duluth, città industriale, cantieri navali, rotaie, scambi, edificata sul granito sulle rive del Lago Superiore. Rospi, marinai, boscaioli, tempeste”. Emerge la sua voglia di viaggiare a ritroso nel tempo, riassaporando il brodo primordiale fatto di suoni a cui si sarebbe abbeverato per diventare la voce poetico-musicale di una generazione. Flanegan gli chiede: quando ti capita qualche filmato di te che canti 40 o 50 anni fa, cosa vedi veramente? “Vedo Nat King Cole, ‘Nature Boy’”, risponde Bob, citando il primo verso della canzone “A very strange enchanted boy”. “Vedo un performer sofisticato, con una cifra già postmoderna. Una persona diversa da quel che sono adesso”. Roba per adepti. Dylan, il musicista che ha scelto di restare in tour fino alla morte, ha preso un’altra decisione: incide dischi per se stesso, per creare un enigma sonoro nel quale immergersi, come fosse una realtà virtuale. Sono gli ultimi tentativi per capire il segreto che lo assilla: perché la musica, in quel momento d’apparente perfezione americana – bianca, middle class, ottimisitica – divenne la perfetta rappresentazione di una condizione fortunata? Dov’è che quei suoni s’impadronirono di uno stato mentale condiviso, diventando, come in quel famoso disturbo neurologico, vividi come colori?

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