Azzedine Alaïa (foto LaPresse)

Addio Azzedine Alaïa, genio fuori tempo ma mai fuori moda

Fabiana Giacomotti

Il sarto franco tunisino, scomparso ieri a 77 anni, organizzava sfilate quando riteneva arrivato il momento per farlo e non si è mai piegato ai diktat del mercato e della committenza

“Questa non è una mostra dedicata alla moda, ma una mostra che si inserisce nel percorso culturale del museo”, disse nel luglio del 2015 il direttore della Galleria Borghese, Anna Coliva, inaugurando “Couture/sculpture”, la mostra retrospettiva dedicata ad Azzedine Alaïa che, nella sua minuscola statura, svettava accanto a lei, altissima e, senza dubbio, un po’ preoccupata dei rilievi che qualche parruccone dell’arte pura e incontaminata e bla bla bla avrebbe potuto farle. Non ne arrivò neanche mezzo, nemmeno da chi ignorava che il sarto franco tunisino Azzedine Alaïa, scomparso ieri a settantasette anni a Parigi dove viveva, creava i suoi meravigliosi abiti senza tempo e organizzava sfilate quando riteneva arrivato il momento per farlo, non si era mai piegato ai diktat del mercato e della committenza come, pur nel loro genio, facevano invece i Bernini e i Canova che popolano il museo.

 

I visitatori più attenti, che parimenti ignoravano i suoi studi in scultura all’Académie de Beaux Arts di Tunisi, intuirono però le proporzioni di Paolina Borghese avevano più di un punto di contatto con quelle dei bustier di cuoio e di paglia intrecciata o con le reti metalliche in cui si articolavano i suoi severissimi abiti da sera, nei quali ogni donna si sentiva valorizzata al massimo e, soprattutto, capita e accolta nelle proprie forme, qualunque esse fossero.

 

Come tutti i grandissimi della moda, primo fra tutti Cristobal Balenciaga, Azzedine vestiva le donne più belle del mondo (Inès de la Fressange, Grace Jones e Naomi Campbell sono state fra le prime a dichiarare pubblicamente ieri il proprio dolore per la sua scomparsa), ma anche le più piccole, le più tonde, le meno attraenti, senza il chiodo fisso di trasformarle, modificarle, travestirle che hanno quasi tutti gli stilisti di oggi. In uno dei suoi abiti abilmente costruiti anche se in apparenza semplicissimi, giustificatamente molto costosi, ogni donna si sentiva esaltata al massimo nella propria femminilità. Portare uno dei suoi capi era, ed è perché adesso si scatenerà senza dubbio la caccia al pezzo originale fra chi gli preferiva il brand di stagione - un’esperienza che una collega ha definito perfettamente: “Radiosa e superba”.

 

Azzedine Alaïa, nato figlio di contadini a pochi chilometri da Tunisi, aveva mosso i primi passi in una sartoria locale per poi trasferirsi a Parigi su consiglio, o meglio dietro spinta della sorella gemella. Era il 1957 e Azzedine, quasi diciottenne, aveva subito trovato posto nell’atelier di Christian Dior che, di lì a pochi mesi, sarebbe morto. Era seguita un’esperienza da Guy Laroche e quindi, nei primi Anni Sessanta, la decisione di aprire il proprio atelier in rue de Bellechasse, sulla Rive Gauche. La prima sfilata riconosciuta e degna di nota data 1980, quella più famosa del decennio, invece, il 1986 perché vi debuttò Naomi Campbell, che da quel momento in poi gli avrebbe votato un affetto filiale e una devozione difficili da inglobare nell’umoralità apparente, e per molti versi giustificata, del suo personaggio. La casa atelier di rue de la Verrerie, nel Marais, dove il 5 luglio scorso si era tenuta l’ultima sfilata haute couture, fuori dal calendario ufficiale e dopo sei anni di silenzio, era anzi il rifugio parigino della modella più famosa e controversa. Nell’occasione, e in un caldo infernale perché la piccola sala era stipata all’inverosimile e i “bravo” eccitati erano cominciati a luci ancora spente, Naomi aveva aperto il défilé indossando un cappottino di visone decorato a motivi matrioska, i capelli a chignon avvolti nella plastica, e vedendola avanzare così sicura e fresca, la platea aveva avuto la certezza di trovarsi a un evento unico e forse sovrannaturale. Gli abiti presentati erano tutti unici, nuovi e meravigliosi, ma avrebbe potuto anche accadere il contrario, perché Azzedine Alaïa, pur timidissimo e silente com’era nei suoi sorrisi, talvolta presentava per due stagioni di seguito lo stesso modello di cui era convinto.

 

Negli anni Ottanta aveva lanciato la moda che oggi si definisce body-conscious, in banale sintesi modellante e aderente al corpo, nel suo caso sottilmente esaltante. Nulla, nella moda di Azzedine Alaïa, era volgare, nemmeno il total look animalier di cui aveva vestito Grace Jones consacrandola musa eterna della musica e, soprattutto, dello stile. La finanza, e il grande denaro della moda, aveva cercato più volte di affiancarlo o, per meglio dire, di controllarlo. Nel Duemila, dopo un corteggiamento estenuante, c’era riuscito Patrizio Bertelli.

 

Nel 2007, Alaïa si era ricomprato tutte le quote. Il titolo del New York Times svelava con superba ironia come fossero andate le cose: “Prada sells Azzedine Alaïa to a very happy buyer”. Qualche mese dopo, conscio che in tempi di globalizzazione le grandi disponibilità fossero necessarie, aveva stretto una partnership con il gruppo Richemont. Il colosso che governa Cartier, Vacheron Constantin, Jaeger le Coultre, Piaget, Mont Blanc e, nella moda, Eres e Chloé, era il più adatto a comprendere il percorso e lo sviluppo del suo pensiero creativo. Da allora, non vi era mai più stato uno screzio ma, anzi, qualche incoraggiamento e molta disponibilità di tempo perché “le maitre légendaire”, come da comunicato del gruppo di ieri sera, potesse dedicarsi a qualcuna delle sue passioni. Il teatro, per esempio. Nel 2013, poco prima dell’apertura della sua nuova boutique parigina, aveva disegnato i costumi di un allestimento delle “Nozze di Figaro” a Los Angeles, con scenografie di Jean Nouvel. Poi si era dedicato al lancio del suo primo profumo e all’allestimento della sua mostra, valutando e contattando personalmente i musei che avrebbero potuto accoglierla. A Roma era arrivato dopo un lungo tour ma, non a caso, tutte le foto uscite in queste ore per celebrarne la scomparsa lo ritraggono immancabilmente alla Galleria Borghese, accanto alle statue di Canova. Vestiva sempre di nero, con una giacca modello guru e pantofole di cinesi ai piedi. Nessuno raccoglierà la sua eredità perché lui era la sua azienda. Tutti lo copieranno come hanno sempre fatto, senza riuscirci mai. Le quotazioni dei suoi abiti schizzeranno alle stelle. Come i pezzi d’arte che sono.

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