La banalità del nudo

Fabiana Giacomotti

Lo stilista Nicholas Nybro fa sfilare in passerella corpi au naturel. Un'idea vecchia e già sentita. E comunque a noi interessa vedere la mistificazione della moda

Superato lo choc termico del viaggio dall’Hermitage dell’isola del Giglio (vento di scirocco e 36 gradi con tasso di umidità 98 per cento) a Stresa (13 gradi, lago in tempesta, neve sulle cime di Macugnaga), mentre mi infilo grata la giacchetta di cashmere e soppeso con lo sguardo la scorta di legna vicino al camino trovo un messaggio della redazione del Foglio che mi chiede, con il garbo dei giovani ben educati verso i decani, se mi andrebbe di scrivere un pensiero sullo stilista Nicholas Nybro che alla Copenaghen Fashion Week, ha fatto sfilare un buon numero di modelli completamente nudi, e se ritengo che si tratti solo di una provocazione oppure di una vera tendenza proveniente da un settore che forse è a corto di idee e che dunque si rifugia nell’abito che è più caro al genere umano e in genere ad ogni specie, ovvero la propria pelle.

 

Per prima cosa, do loro ragione su tutta la linea, per le seguenti motivazioni. La prima: Nybro si è laureato nel 2009 e produce le proprie collezioni, biannuali e regolamentari, dal 2011; se pochi ne hanno sentito parlare un motivo ci sarà, sebbene l’uso e la forma che da al tulle mi ricordino davvero un po’ troppo da vicino Giambattista Valli e la stratificazione degli chiffon il Valentino di Pier Paolo Piccioli, che da un paio di anni è diventato il riferimento di tutti.

 

La seconda motivazione: la moda d’alta gamma fa in effetti sempre più fatica a suscitare desiderio d’acquisto a multipli del quattro-ottocento per cento sul costo della produzione, vedi Louis Vuitton che non sapendo più a quale santo e a quale artista votarsi ha fatto ricorso a quel furbacchione di Jeff Koons che ha riprodotto sulle borse i capolavori del Louvre come un bancarellaro qualsiasi. Dunque sì, abbiamo a che fare con un genio per mancanza di prove e con una moda che è generalmente in affanno. Poi, però, guardo meglio la collezione di Nybro, osservo i pantaloni color pulce con le tiracche a contrasto come i modelli dei lanzichenecchi seicenteschi, aperti e cascanti su petti smunti o glabri, leggo la solita, ennesima dichiarazione sui “corpi veri” e mi viene il magone pensando a quanto vecchi siano questi giovani. A quanto poco abbiano studiato, quanto poco abbiano letto, quando mai siano andati al cinema perché accidenti, com’è possibile che gente che si occupa di moda non abbia mai visto “Qui êtes-vous, Polly Maggoo?” di William Klein o “Prêt-à-Porter” di Robert Altman con quelle sfilate di corpi nudi che già ci sembravano vecchie allora?

 

Ora, capisco che se si sfila alla Copenhagen Fashion Week, che si tiene nei giorni in cui tutto il mondo della moda che conta è in vacanza e non si trova in giro un buyer manco a pagarlo (è in vacanza perfino Beppe Angiolini e ho detto tutto), si debba pur trovare un’ideuzza per superare i confini di quel palazzo reale a meringa e del porto di mattoni rossi, ma da quand’è che vediamo corpi nudi in sfilata e ci sentiamo raccontare la fola sul corpo al naturale che è il miglior vestito del mondo? Al di là del paradosso di sedersi a una sfilata per vedere la metà dei modelli nudi e macilenti, la cosa non regge né dal punto di vista antropologico, né etnologico che ne è il parente esotico, né sociologico, per non dire economico o commerciale.

 

Nella società occidentale il corpo nudo è sostanzialmente un non dato, mettete in fila Margaret Mead e Roland Barthes, ogni semiologo che vi venga in mente e qualunque studioso di moda e vi diranno tutti la stessa cosa: il corpo nudo è vestito, in quanto espressione di cultura, di scelta o, per l’appunto, di tentata provocazione. Scelgo di mostrare un corpo nudo per farvi riflettere sulla sua intrinseca perfezione perché l’abito lo modifica, lo altera, lo rende oggetto di voluttà, mentre il corpo nudo è antierotico. Esempio alla portata di ogni visualizzazione mnemonica: il celeberrimo dipinto di Tiziano “Amor sacro e amor profano” conservato alla Galleria Borghese. Quale delle due fanciulle appoggiate alla fonte rappresenta l’amore sacro, secondo la più condivisa delle interpretazioni? Quella ignuda, Venus Caelestis, simbolo di semplicità e purezza. Un secolo o quasi di studi semiotici trasversali ce l’hanno poi chiarito in forma pressoché definitiva, e Wendy Doniger in modo puntuale in uno studio del 1995 sul rapporto fra donne e attività pilifera (in parole povere: capelli, peli ascellari e pubici): il vestire è un dispositivo che disegna una matrice di valenze sul corpo e traccia una dialettica complessa, a volte paradossale, fra nascondimento e desiderio: è proprio perché questa matrice di valenza può essere scritta e riscritta sul corpo utilizzando il vestiario come linguaggio che gli individui possono, di volta in volta, utilizzare questo linguaggio non solo per proteggere certe parti del corpo dal desiderio altrui, ma anche suscitare il desiderio altrui di certe parti del corpo per l’appunto proteggendole.

 

La Genesi ci insegna che il peccato equivale a mascherare il corpo, e la moda ambisce a suscitare il peccato. Per quello è fatta. Per occultare, mascherare, modificare, cambiare codici, offrire nuove interpretazioni al sé, più vicine al proprio io ideale o all’io collettivo del momento. Meglio lo fa, più vende. Caro Nicholas Nybro, noi di matrice cattolica questa del corpo au naturel l’abbiamo già sentita e vista meglio di quanto potrai mai fare, mentre tu che di mestiere venderesti vestiti dovresti pensare meglio alla portata delle tue azioni, per evitare di tirarti la zappa sui piedi. Poi, lo sappiamo perché continuano a ripetercelo e forse riusciremo a convincerci, il corpo nudo è bellissimo anche quando non è bello per niente, i buchi della cellulite sono un miracolo del Signore e i peni mosci non fanno mai pena, anzi mettono allegria. Ma vedere tutta questa bellezza nature in passerella non ci interessa. Siamo lì per altro. Per la mistificazione.

Di più su questi argomenti: