Foto LaPresse

Troppi temi sociali nel weekend della moda di Milano

Fabiana Giacomotti

Tra flash mob anti Trump e inviti alla “resilienza”, va in passerella la questione della temporalità della moda, o per meglio dire della sua storicità, per molti versi un nonsenso

Milano Fashion Week collezioni donna inverno 2017-2018 giorni 4 e 5, cioè il week end. Da Bottega Veneta a Salvatore Ferragamo e Mario Dice tutta una tirata, con le stagiste alla prima stagione che friggono perché non si aspettavano di dover lasciare il fidanzato da solo e loro “tengono alla qualità della vita” senza essersene ancora fatta una ma così, per sentito dire. Naturalmente si stanno vendendo vestiti ma, vista l’immane copertura mediatica, gli stilisti ne approfittano per portare al centro dell’attenzione temi sociali: la difesa dei diritti femminili (flash mob anti Trump da Missoni con i pussyhat rosa trovati sulle panche mentre un’Angela Missoni ancora più energica del solito invitava i mille ospiti alla “resilienza”); il valore della diversità, non solo sessuale che nella moda è ampiamente accettata ma anche anagrafica, che è invece un tema più spinoso per chi, con l’etichetta dei componenti, offre un piccolo sogno di giovinezza (Antonio Marras ha fatto sfilare modelle ottantenni; Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno infilato anche qualche mamma, fra i tanti figli d’arte come Anais Gallagher e Gabriel Kane Day-Lewis) e la stessa età della moda, che è quasi certamente una questione interna al settore, perché tanti di noi iniziano a trovare piuttosto ostico questo continuo repechage di stili molto passati.

 

Il centro città è pieno di famigliole venute a respirare un po’ di atmosfera modaiola per poi tornare a casa a lamentarsi che con tutta quella calca non si riesce neanche a manovrare il passeggino cingolato e che infatti viene spinto proditoriamente sulle caviglie di noi cui tacchi. Davanti all’ingresso della showroom di Giuseppe Zanotti in via Montenapoleone c’è una ressa da stadio. Dev’essersi sparsa la voce di un qualche arrivo vip. Mamme e papà sono fermi in attesa nei loro piumini e nelle loro scarpe rialzate genere Hogan, i bambini sono giustamente annoiati, strillano e tirano calci. La gente che conosci e che ti incontra mentre arranchi fra una sfilata e una presentazione inizia a incoraggiarti ad alta voce manco fossi un maratoneta. “Dài che manca poco”. Ignorano che fra due giorni inizia la fashion week di Parigi (per chi fa anche l’ultima tappa, la nostra unica e vera competitor), o che ne è appena finita un’altra (per me che seguo le sfilate della haute couture). La maggior parte di noi ha iniziato il tour il 13 gennaio scorso a Firenze per Pitti Uomo, non ricorda più i tre quarti delle cose che ha visto senza consultare appunti e video di Instagram e in media ha visitato anche i pur straordinari, ma vastissimi, saloni degli accessori: Micam, Mipel, TheOne (pellicce, ex Mifur), White (marchi di ricerca), Super (idem ma con gestione Pitti). Il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda ha impiegato due anni per farli coincidere con le date delle sfilate, sordo a ogni rimostranza su (abbastanza inesistenti) differenze nella produzione/consegne/distribuzione dei pellettieri rispetto alla moda pronta e tenendo ben stretti i cordoni della borsa fino a quando i presidenti delle varie associazioni hanno trovato l’accordo. Risultato: l’allineamento perfetto arriverà si spera il prossimo anno, ma già da questa stagione Milano ha finalmente saputo fare massa, se non proprio squadra, i buyer sono mediamente soddisfatti della permanenza in una città che, certo, non offre gli stimoli goderecci di Parigi (colleghi, compratori e produttori che ufficialmente lamentano la noia di “dover” andare a Parigi in realtà smaniano per la trasferta), ma vale comunque il soggiorno.

 

Chi e che cosa si stia non solo vedendo, ma anche comprando, è oggetto di molte chiacchiere a bordo passerella, infiniti conciliaboli che aiutano a trascorrere la lunga attesa fra l’arrivo degli invitati e l’inizio dello show (in media: trentacinque minuti di attesa, otto-dieci minuti di sfilata) ma che offrono interessanti prospettive sul futuro del mercato o almeno, come usa dire, il “sentiment”. Fra i compratori di maggior rilievo, che in Italia sono una decina, l’orientamento è alla visione puntuale, esaustiva e attenta delle sfilate di maggior rilievo, e all’acquisto di molti marchi “di ricerca”, cioè giovani e a prezzo contenuto. Gli italiani continuano a comprare zero o poco, ma anche i turisti disposti a spendere diecimila euro per un vestito di pret-à-porter vanno poi stuzzicati nel loro amor proprio e nel gusto offrendo loro l’apparente “scoperta” del “bravissimo stilista emergente” che offre gonne a trecento, talvolta di ispirazione nuovissima e talvolta meno.

 

La questione della temporalità della moda, o per meglio dire della sua storicità, per molti versi un nonsenso (l’aveva compreso ancora Giacomo Leopardi quando la fece dialogare con la morte, in una delle sue “Operette”), è infatti al centro delle discussioni di questi giorni fra chi, avendo sulle spalle non solo il Grande Slam di questa stagione, ma almeno altri quaranta e altrettanti anni di frequentazione di musei, archivi, cinema e mostre, si domanda se la nuova moda debba sempre ispirarsi a qualche secolo, decennio, stile passato o possa provare, come dice Giorgio Armani, “a guardare avanti e sperimentare, come fa la tecnologia”.

 

Il tema si propone fortissimo il sabato mattina quando, nei corridoi dell’Accademia di Brera, sfila la collezione di Bottega Veneta, un’attenta, elegantissima, raffinata, meravigliosa ricostruzione storica che parte da “Donne” di Cukor, scena iniziale d’equitazione compresa (1936), lambisce i territori della sfilata-scandalo di Yves Saint Laurent del 1971 (le pellicce di kidassia, effetto scimmia, e le pettinature, sempre ispirate agli Anni Quaranta), passando poi attraverso la Caduta degli Dei di Luchino Visconti vestita da Piero Tosi (1969, più o meno coeva, e sempre ambientata nei Quaranta). Sfila Eva Herzigova, ma potrebbe essere Ingrid Thulin. Giovanissimi e influencer applaudono entusiasti, le cinesi soprattutto, noi vecchie lenze ci guardiamo un po’ interdetti. Se c’è un mondo che felicemente ignora il passato, e che anzi non vede l’ora di sembrare Joan Crawford nello stesso abito plissettato di lamé argento con cui affronta lo smacco dell’abbandono del marito sottratto a Norma Shearer e si infischia di non saperlo, ce n’è un altro che dalla moda vorrebbe qualche sollecitazione in più. Uno sguardo nuovo, o almeno il tentativo di.

 

La collezione di Missoni (una maison che lavora da cinquant’anni attorno alla maglia, peraltro) è una delle più riuscite della stagione: un mix fra lane grosse, dall’aria lavorata a mano, e filati sofisticatissimi che ricordano, certo, gli anni delle lotte femminili, ma con affetto e spinta all’impegno, senza nostalgia. Appare nuova anche la collezione di Ferragamo firmata da Fulvio Rigoni: pulita, sofisticata, strutturata eppure sensuale senza accessi. La accompagnano le calzature e le borse disegnate da Paul Andrew, che rivedono, certamente, i codici della maison, compreso il famosissimo platform sagomato, rendendoli però, moderni. Senza mai la tentazione di fare, invece di moda, storia del costume.

Di più su questi argomenti: