I morti viventi

Massimo Morello

In molti paesi del Sud-est asiatico milioni di esseri umani sono merce di scambio e traffico

In Thailandia sono classificati 40 tipi di fantasmi. I più temuti sono i phi pob, fantasmi (generalmente di donne) che si impossessano di un corpo, lo divorano internamente e passano a un altro. In questo modo possono distruggere un intero villaggio.

I phi pob sono i protagonisti per eccellenza dei film horror thai, un genere sempre più apprezzato in Asia. Ma per molti, soprattutto nei villaggi del nord-est, la regione più povera del paese, sono reali, immanenti. Esistono perché la popolazione ci crede. Tanto che pochi giorni fa, un remoto villaggio rurale della provincia di Amnat Charoen, incuneata tra Laos e Cambogia, ha richiesto l’intervento della polizia per essere protetto da un phi pob che stava seminando il terrore e nemmeno una cerimonia buddista di purificazione è riuscito a cacciare.

 

Tutto ciò si può spiegare con la permanenza dell’animismo sottinteso alla cultura thai (e di tutto il Sud-est asiatico). Ma può anche essere la manifestazione di un inconscio collettivo che teme la “possessione” più di ogni altra cosa. Come sosteneva Joseph Campbell, studioso delle religioni che ha dedicato la vita a esplorare e comparare le mitologie, parlare del mito significa parlare dell’esistenza in ogni sua manifestazione e constatarne allo stesso tempo l’essenza dolorosa che trae nutrimento dal quotidiano, dalla necessità di misurarsi con la realtà. La realtà, in Thailandia come in altri paesi del Sud-est asiatico, spesso è proprio quella della reale possessione degli esseri umani, del traffico che li divora.

Lo dimostra il Trafficking in Persons Report 2017 presentato il 27 giugno dal Dipartimento di Stato Americano. Suddiviso in 4 livelli (Tier) in ordine crescente di gravità, il rapporto mantiene la Thailandia al terzo livello (ufficialmente denominato lista d’osservazione del livello 2), quello in cui sono comprese le nazioni che non soddisfano gli standard minimi nella protezione delle vittime del traffico. Secondo il rapporto la Thailandia è sia serbatoio sia punto di transito per circa quattro milioni di persone, uomini, donne e bambini, usate in lavori forzati (specie nell’industria manifatturiera e nella pesca) o sul mercato del sesso.  Nel rapporto si ammette che è stato fatto qualche progresso, ma non sufficiente. Il governo thai, pur mostrandosi deluso di una mancata promozione al livello superiore, ha dichiarato che che ciò non avrà conseguenze sull’export.  

Nella stessa categoria rientrano altre due nazioni dell’Asean: il Laos e il Myanmar (più noto come Birmania). Quest’ultimo, tuttavia, è stato promosso dal peggior livello in cui si trovava lo scorso anno (e dove invece è stata retrocessa la Cina). Una decisione giustificata soprattutto dal fatto che, secondo il rapporto, la Birmania avrebbe posto fine al reclutamento di bambini soldati, ma giudicata prematura da Human Rights Watch, che denuncia proprio la presenza di bambini soldato nelle forze armate birmane.

Dati di questo genere, così come le analisi che ne sono fatte, sia in accusa sia in difesa, dovrebbero  far riflettere quando, sin troppo spesso, si parla di un “tramonto dell’Occidente”. Basandosi, in questo caso, solo su dati macroeconomici. 

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