La Cambogia non è solo un film

Massimo Morello

Un paese, noto soprattutto per le trasposizioni letterarie e cinematografiche del suo passato, che  sta diventando una tessera fondamentale nel domino del Sud-est asitico  

Pol Pot e Angelina Jolie: sono loro i maggiori testimonial del turismo in Cambogia. Il primo è il “Fratello numero Uno” dei Khmer Rossi, che tra il 1975 e il 1979 materializzarono qui l’inferno terrestre, provocando la morte di 1,8 milioni di persone: per fame, malattie, violenza.

«Ancor oggi molti turisti, appena arrivati chiedono di andare a veder i killing fields o il Tuol Sleng, i lupoghi dei massacri e delle torture» dice Claudio Bussolino, ex quadro del Partito Comunista Italiano che vive in Cambogia dal 1979. E’ arrivato qui al seguito delle truppe vietnamite che nel gennaio di quell’anno invasero (liberarono, secondo Bussolino e non solo) il paese. «Ricordo quando vennero aperte le fosse comuni. Ricordo il fetore, i corpi accatastati, il caldo».

Angelina Jolie arrriva in Cambogia nel 2001 per le riprese di "Lara Croft: Tomb Raider". Quell’esperienza, a contatto con una realtà di sottosviluppo e miseria, segna anche l’inizio del suo impegno umanitario con le Nazioni Unite. E nel 2002 adotta il suo primo figlio, il cambogiano Chivan Maddox. Il suo impegno per la Cambogia le vale anche l’amicizia del premier Hun Sen. Al potere dal 1985, il capo di governo più a lungo in carica di tutta l’Asia, Hun Sen le ha dato tutto il suo appoggio nella realizzazione dell’ultimo film diretto da Angelina: "First they killed my father", tratto dal saggio di Loung Ung (in Italia col titolo Il lungo nastro rosso), che racconta le vicende dell’autrice nella Cambogia di Pol Pot (il film sarà presentato il prossimo autunno  dalla piattaforma  Netflix).

Questo intreccio di storie sembra confermare l’immagine della Cambogia canonizzata dal film "Apocalypse Now", trasposizione nella giungla cambogiana del "Cuore di Tenebra" di Conrad. Invece, in questo caso, è un artificio: parlare di un passato che eccita la fantasia occidentale, per arrivare a un presente che non ha la stessa suggestione esotica ma si sta rivelando decisivo nello scenario del Sud-est asiatico. E’ il promo di un paese che vuole trasformare il passato in una fiction e sogna un futuro “normale”. Almeno secondo i canoni della normalità asiatica.

«Ai giovani non interessa sapere se sono figli della vittima o del carnefice» commentava con un pizzico di cinismo un vecchio giornalista americano che ha deciso di stabilirsi qui. E sono proprio i giovani – l’età media nel paese è di 24 anni, grazie al baby boom successivo alla fine della guerra civile, nei primi anni Novanta -  che hanno espresso la volontà di cambiamento.

Lo hanno fatto nelle elezioni amministrative del 4 giugno scorso in cui si dovevano eleggere i consiglieri di 1.646 comuni. Il risultato più significativo è stata l’affluenza: l’89,52% (ripetto al 65,13% delle precedenti comunali e il 68,5% delle politiche del 2013).  La vittoria, con largo margine, è andata al Cambodian People Party (Cpp), il partito di Hun Sen, che ha conquistato 1.158 comuni, pari al 70,3%. Il partito di opposizione, il Cambodia National Rescue Party (Cnrp), ha vinto in 487 comuni, pari al 29,6%. Le percentuali cambiano considerando il semplice computo dei voti: 51% al Cpp, 46% al Cnrp (il resto ad altre formazioni minori). Alla fine, considerando il potere di Hun Sen, il controllo sui media e del territorio (anche nei più sperduti villagi c’è una sede del Cpp) con conseguente voto di scambio, l’appoggio incondizionato delle forze armate, secondo un osservatore attento come Bussolino «Tutti, governo e opposizione, possono oggi dichiararsi vincitori. Hun Sen ha sicuramente vinto, ma nessuno ha perso».

I giovani erano sicuramente attratti dal programma di Kem Sokha, leader del Cnrp, focalizzato sulla difesa dei diritti umani, la lotta alla corruzione, la protezione dei più poveri (continuamente minacciati dall’esproprio delle loro abitazioni per far posto ai nuovi investimenti immobiliari), il sostegno finanziario alle comunità agricole. In una società sempre più polarizzata tra ricchi e poveri (il 20% della popolazione vive sotto la soglia di povertà) e in cui l’indice di diseguaglianza è in continua crescita, le nuove generazioni, più alfabetizzate e informate, sperano in un riequilibrio che materializzi il loro sogno di una nuova classe media. Rispetto ai loro genitori, inoltre, non sono così legate a Hun Sen, l’uomo che, pur con metodi spesso molto discutibili, ha posto fine a trent’anni di guerra.

In compenso anche i giovani riconoscono in Hun Sen l’artefice del boom economico: secondo la World Bank negli anni scorsi la crescita del Pil è stata dell’11%, nel 2016 e ‘17 del 7%. Una crescita che trova il suo simbolo nella Vattanac Tower, grattacielo di 187 metri che domina la capitale Phnom Penh. Immagine forte in una città che sino a pochi anni fa appariva come un gigantesco slum.

Giustificato, quindi, il timore che un cambio di governo possa bloccare lo sviluppo. «La stabilità politica e la crescita economica vanno di pari passo. Se una fa un passo falso l’altra lo segue» dice Tassilo Brinzer, editore, animatore della vita sociale di Phnom Penh, presidente del German Business Group in Cambogia, uno di quegli espatriati occidentali che hanno fatto fortuna nel paese grazie agli incentivi fiscali e alle facilitazioni d’impresa. Il timore è alimentato dallo stesso Hun Sen, che ha agitato lo spettro di una nuova guerra civile qualora nel 2018 l’opposizione vincesse le prossime elezioni generali sull’onda di una “rivoluzione colorata”.

E’ una dinamica apparentemente senza vie d’uscita. Che paradossalmente può risolversi seguendo il modello che si sta affermando in tutto il Sud-est asiatico: quello di una democrazia limitata che conceda qualche margine di manovra all’opposizione, coniugando controllo politico e liberalizzazione economica. E’ la filosofia politica che la Cina sta esportando con succeso in Asia orientale, sostenendola, come ha fatto anche in Cambogia, con investimenti per miliardi di dollari. Non a caso, qualunque cambio di guardia nel governo cambogiano non modificherebbe affatto la sua posizione geopolitica.   

In Occidente può apparire una distopia più che un compromesso storico. Andrebbe invece valutata nel suo contesto storico e culturale. In questa prospettiva, allora, potrebbe essere proprio la Cambogia e divenire un modello per gli altri paesi dell’area. Ne è un esempio il progetto dell’Anlong Veng Peace Center. Sino al 1998 il villaggio di Anlong Veng, nell’estremo nord del paese, al confine con la Thailandia, era l’ultimo santuario dei Khmer Rossi (è qui che è morto, nel suo letto, Pol Pot). Pochi anni dopo, quando ci passai, sembrava la scenografia di un film post-apocalittico, con locali frequentati da trafficanti ed ex guerriglieri convertiti alla rapina. Oggi lo studio  londinese DaeWha Kang Design vi sta progettando un centro studi che appare come una utopica città di pace e riconciliazione nazionale.

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