foto di Javier de la Rosa via Flickr

Marcio su roma

Giuseppe Marcenaro

Il trionfo squillante della bellezza e le rovine, il guano e l’immondizia. Una città che il protagonista del romanzo di Giacopini vuole affogare

Città dominata e coperta di bellezza. Non potrebbe essere altrimenti. Anche se, nel corso dei secoli, trafitta da voraci e ricorrenti catastrofi che in talune parti l’hanno deturpata. Parti esaltate poi dalla malia dell’antico. Come dire che la “rovina” è superfascinosa. Oltre il trionfo squillante della bellezza, la prima idea che riempie la mente pensando a Roma sono gli incendi che occasionalmente l’hanno consumata. La seduzione di questa eccezionale città sembrerebbe discendere dal fastigio dei rifacimenti. Dopo ogni catastrofe i romani d’ogni epoca misero mano al restauro delle beltà perdute. Il risultato è il trionfo di secoli imbottiti gli uni sugli altri. L’imperio degli stili accavallati. Anche se nel miscuglio degli stili e delle epoche si vagolò spesso dal sublime al trucido. Esaltando fastosità e opulenza Roma cercava autorappresentazione. Vizio secolare.

 

Comunque – rifacimento, restauro o riedificazione di perdute vestigia – un tal Lucio Giacomo Lunfardi sostiene che “qui” (a Roma) nulla scompare mai, e nulla rinasce. “Qui” è una eternità. Una trasformazione nella sussistenza. Lunfardi è un romano vero, un romano de Roma. E’ tuttavia nutrito di tossico antiromano. Attraversato da un velenoso central pensiero. Una monumentale aspirazione. Vagheggia per la sua città una fastosa estinzione. Passabilmente scenografica. Non il rinovellarsi di un incendio come quello scoppiato la notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 e che infuriò per nove giorni propagandosi in quasi tutta la città. Per la cronaca è il celebrato incendio del tempo neroniano. Raccontato dall’autorevolissimo Tacito: “L’incendio iniziò in quella parte del Circo che confina lungo il Palatino e il Celio, dove il fuoco, scoppiato nelle botteghe che contenevano prodotti altamente infiammabili, divampò subito violento, alimentato dal vento, e avvolse il circo in tutta la sua lunghezza, visto che non esistevano palazzi con recinti o templi cinti con mura o qualcosa che potesse fermare le fiamme”.

 

Lucio Giacomo Lunfardi un tipo che, pensando in grande, immagina per la caput mundi un finimondo. Questa volta però non per mezzo del fuoco “purificatore”, ma grazie a un acquoreo lavacro: una piena del biondo Tevere che s’effonda dilagando in ogni angolo della capitale, sommergendola fin al vertice delle cupole e dei campanili. Insomma una città che faccia la fine di Fleba il Fenicio, morto per acqua nei gorghi acquitrinosi della Terra desolata di T. S. Eliot.

 

Lunfardi è un individuo turpe e indolente, fisico sgraziato, sguardo torvo… Conosciuto come l’abominevole, ma anche apostrofato il Lunfa, professo’, a moré, che cazzo vuoi?… Noto per l’insopprimibile odio per la città che gli ha dato i natali.

 

Bisogna capirla un poco l’epica di questo finimondo, immaginato, propalato dal Lunfardi che vive recluso nei fondi della chiesa di Santa Maria del Trivio. Nel suo sotterraneo, arredato con paramenti da chiesa, altari dismessi e specchiere da salone da barbiere anni Cinquanta, Lunfardi conserva, accuratamente catalogati, pile di giornali, un’enciclopedia degli stracqui del Tevere, ancora poco o nulla rispetto a quelli che Lunfardi aspetta… E mentre brama l’auspicata catastrofe, sopporta, affaticato da un eccesso di glicemia, le mandrie di tipi a piede libero in forma di greggi belanti per le strade stranote, dove si accalcano e si spintonano. Resse e calche e moltitudini flaccide, masse che vanno cercando una dimensione post umana. Una transumanza. Ovunque ossessive colonne.

  

Vive il Lunfardi coltivando odio e salivando veleno filtrato anche dalle sue letture fulminate di deliri e turpi masochismi: testi che documentano l’angosciante sofferenza per come è diventato il mondo, per lo spettacolo della sua città ridotta “per eccesso di solenne civiltà” a un colossale cataletto ed “esposta” in scena, dato il caso, in forma di catafalco libresco solennizzato dalle litanie di un italico linguaggio (la forma delle pagine che raccontano l’epica del Lunfardi) impastato da Vittorio Giacopini, autore del romanzo, vertiginosa parade dal titolo netto, essenziale come una lama. Visti i vituperi che vi si avviluppano. E come avrebbe dovuto essere il titolo ? Uno soltanto: Roma (ed. Il Saggiatore, 414 pp., 21 euro). Titolo che promette aulici trionfi e colature smerdazzate, agglutinamenti di volatili, rifiuti che vanno dal secco all’umido in un fervore di trucidi scarti da museo che soltanto dei superbi calunnianti come Gadda, Céline e un po’ Aretino si sarebbero sognati di mettere in scena con un pizzico di sperimentazione joyciana per far gioire orgogliosi colti lettori di pagine sfornate dalla trucideria creativa di solenni scriventi d’alto stile. Così, con il suo furore, Giacopini ci racconta il “nostro romanesco eroe”.

 

“Nel suo universo sotterraneo al Trivio, Lunfardi si abbandona al trastullo di futili rimembranze involontarie. Il fascino della città è svanito… L’Eur, per dire, che mai gli era piaciuto, o il coevo, scalcagnato, deforme e sempre tristo Villaggio Olimpico, quella serie patetica di case palafitta, di strade vuote dove mezza Roma aveva imparato a guidare, bene o male… La rabbia, la memoria e nessuna speranza, proprio nessuna. ‘La Terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno’: l’unica profezia azzeccata di Mussolini. Ma erano cose andate, l’irreversibile. Quel che Lunfardi non riusciva a capire e spiegarsi, era il presente. L’imbelle sogno di edificare quell’immane arco a segnare l’ingresso del quartiere, sulla Colombo. La presuntuosa inutilissima Nuvola di Fuksas… Niente pane né circo, niente denaro, e c’era chi sognava a vuoto e sperperava a vuoto, che poi è anche peggio. Il nuovo stadio della Maggica – alias A. S. Roma – a Tor di Valle, l’Acquadrome – ma che troiate – e i muraglioni decorati da Kentridge, l’arte ‘pubblica effimera’, un delirio. Tutto un estremo, pretenzioso, smaniare, tutto uno scialo. Luoghi indifferenti e estranei, spazi freddi, rammemorati in singhiozzi di flashback sbigottiti…”.

 

Lunfardi pare possegga l’unica copia esistente di una celebrata guida, Guida di Roma all’ombra, un itinerario per le strade della città che fa schivare ogni più fervente raggio del sole. Girare per Roma nei giorni d’estate è una grande fatica. Insopportabile il sole del Leone e della Vergine che dardeggia a picco, affoca le strade e le piazze, l’aria ardente ottunde i sensi del viandante. Alla calura si sciolse – è una curiosità letteraria - la creatività di Massimo Bontempelli che nel racconto L’ombra e la luce immagina che un tal Anselmo Memmi, dottore in Filosofia, quarantenne, benestante, scapolo e umanitario, abbia concepito e compilato una Guida di Roma all’ombra, a uso dei turisti estivi, per tracciare itinerari e visitare Roma, evitando gli spazi esposti al sole. Deve esser nata così la leggenda metropolitana di questo libro che molti hanno cercato ma, come diceva Pietro Paolo Trompeo, “è una specie d’araba fenice: tutti ne han sentito parlare e nessuno l’ha mai visto”. Opera che nessuna biblioteca possiede.

 

In realtà quella che compulsa Lunfardi è la pianta segreta degli itinerari sotterranei della capitale. Un reticolo fantastico che lo avrebbe messo in contatto con tutti i luoghi di una città “vista” dall’interno. Un viaggio a suo modo iniziatico, da gabinetto di riflessione alchemica: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem.

 

Quella di Lunfardi (versus Giacopini) è a un tempo una visione apocalittica e un amoroso abbandono alla disperazione per una città che il tempo, modificandola, le impedisce di essere in qualche modo riconosciuta. Almeno per l’immaginario solenne che “questa Roma” reca addosso: Storia… di più non sarebbe possibile; Arte… quanta se ne voglia; Bellezza… a strafottere. D’altra parte è una città che è stata raccontata e rappresentata in tutti i versi: inutile far un minimo elenco dalle storie dei Cesari, dei Papi, delle esaltazioni dei viaggiatori che si sdilinquivano al tramonto della luna sui fori… e ci si metta quanto si voglia da Romolo e Remo con la “lupa latteria”, fin alla Dolce vita, con tutta la nostalgia di via Veneto e i visionari notturni di Vigolo… E la storia esaltante e trucida passata da imperiali rappresentazioni fin alla città accasciata sul triclinio della sciatteria dei tempi nostri che la sorte ci sta riservando come “urbanità” espressa dal nuovo millennio. Roma, cadaverica dopo una battaglia. Tanfo e miseria, e ingorghi, contrattempi… Trucidezza da malemmi, fasto dell’imbecillità recata come raggiunto acme di autoconsiderazione.

 

E contro questo contemporaneo bell’esemplare di capitolino, con o senza potere ricercato affannosamente, con o senza cariche pubbliche, che tante son diffuse, con o senza sapienza… s’arma il Lunfardi che esplora un mondo sotto al mondo, un sottomondo: Lunfardi non ne aveva ancora ricostruito l’intero schema. Conosceva i dettagli essenziali studiati sulla carta segreta dei fondamenti romani. Proseguiva nell’esplorazione. Perlustrava. Era un gioco di pazienza. Un rompicapo. Tracciava rette tra punti ideali, stelle fisse, ricostruendo intrecci di linee che si intersecavano e si intrecciavano dando luogo a figurazioni stellari, a raggiera, cerchi magici e diagonali e segmenti, rettangoli, poligoni, triangoli, pentagoni, esagoni, ottagoni e così il turpe conquistador univa basiliche, parrocchie e oratori e cappelle e cortili di conventi, di monasteri… Lunfardi scopre che dalle “cantine” del Trivio, per vie sotterranee si raggiungeva l’ovunque. Disegna una contromappa di Roma, una sottomappa. Vede oscuri percorsi, li saggia. Dal Trivio, per cavernose piste va altrove: a Santa Maria in Via, a San Silvestro, alla Minerva e a San Rocco, a San Giacomo in Augusta, alle Fratte, a San Carlo ai Catinari, a Santa Cecilia, a San Giovanni della Pigna, a Santa Chiara e poi, di nuovo, a San Lorenzo in Lucina, ai Santi Apostoli, alla Trinità degli Spagnoli, ai Pellegrini, a Santa Maria in Aquiro, a San Salvatore in Lauro, alla Vallicella...

 

Quell’itinerario custodito come il più occulto segreto del Grand’Oriente è l’indecifrabile arcano di Roma. Chi forse aveva una vaga idea o un presentimento di questo groviglio di misteri, erano soltanto i sagrestani e quelli, Lunfardi, aveva finito per contattarli tutti uno per uno. Li ghermì e se li fece amici. E con quell’“esercito” vagheggiava di realizzare il suo sognato progetto: allagare finalmente Roma. A Lunfardi non veniva neppure in mente come avesse fatto a costituire quella specie di esercito sotterraneo che lo avrebbe coadiuvato azionando tutte le bocchette sotterranee delle acque della capitale di cui i sagrestani erano strani custodi e che stavano occultate sui fondi delle chiese di Roma (così si diceva) e che i sagrestani all’occorrenza, già convinti dal Lunfardi avrebbero potuto coralmente azionare per aumentare l’effluvio delle acque alluvionali del Tevere, accrescendone così la potenza, (questo spiegava “scientificamente” l’uomo del finimondo ai suoi seguaci). L’apporto delle acque degli acquedotti cittadini a quelle dei Tevere in effluvio avrebbero scatenato finalmente l’alluvione che Lunfardi auspicava da anni. Roma finalmente sommersa da un mare di fango. Lunfardi sognava lo sguazzo dei quartieri romani… tra i liquami e nella poltiglia dove avrebbero galleggiato rifiuti delle discariche, pattume, medicinali scaduti, vari e assortiti, veleni, robaccia tossica… E tutto quanto la mente perversa possa immaginare.

 

Ma chi è questo bell’esemplare di romano, il Lunfardi, che odia Roma, e che a ogni piè sospinto sembra invece dichiarare (inconfessato pensiero), facendosene vanto, “dove ho avuto l’onore di nascere”? Lunfardi è un ex giornalista con tutte le crisi e le angolose malevolenze che una professione del genere lascia nell’animo di chi l’abbia abbandonata per stufaggine o semplicemente per raggiunti limiti di età e contempli con venefico disprezzo l’universo suo lasciato a una nuova generazione di dilettanti, secondo il suo rancoroso giudizio.

 

Un libro apologo questo Roma di Giacopini? Un divertissement estetico? O semplicemente la metafora di una infelicità.

 

Nel giro dei sagrestani, Lunfardi è i1 “professore”, quel signore tanto gentile, l’archeologo dilettante, il valente erudito, i1 “romanista”. Con “simpatici” vagheggiamenti o ver vaneggiamenti suoi: Lunfardi già da ragazzo (lo confessa) avrebbe voluto vedere Roma allagata per gioco, mutata in una serie di laghi da attraversare in barchino… Aspirava veder acque ruscellanti alla Minerva, agli scavi dell’Argentina. Già. Roma la sognava allagata per andarsene in giro in canotto. Pensando alle alluvioni a partire da quella del 1870. Poi quella del 1927, quella del ‘37 e le altre degli anni Settanta. In attesa ovviamente di quella sua. Prossima. Si fa per dire.

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