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Giletti e i martiri della Rai

Andrea Minuz

Il presentatore, Fazio, vedremo Gabanelli: la tv pubblica come fabbrica di furori collettivi e perseguitati politici

C’è insomma questo curioso gioco delle parti. Il puro e dolente cinema italiano si scopre pieno di piccoli Weinstein mentre la Rai si trasforma in una fabbrica di martiri, personaggi scomodi, spiriti liberi. “E’ più difficile rimanere in Rai che andare via”, diceva Fazio quest’estate, nel turbinio della famigerata trattativa. “Dopo ogni puntata dovevo staccare il cellulare”, racconta oggi Giletti, “perché venivo assalito dalle telefonate dei dirigenti”. “Tornare a ‘Report’ sarebbe mortificante per la trasmissione”, scrive Milena Gabanelli nella lettera di dimissioni da Viale Mazzini. Tutti contro la Rai. Una Rai bloccata, oppressa, vilipesa dalla politica, abbandonata persino dalla Nazionale di Ventura che si sgancia dai Mondiali spingendo molti spettatori a passare la prossima estate con Sky. Una Rai che è il miglior viatico alla carriera dentro e fuori la Rai. “Dentro”, come insegna il caso Fazio. “Dentro” e “fuori” come dimostra la nuova “Arena” di Giletti su La7. Format identici, spostati da una rete all’altra, con risultati opposti ma speculari. Giletti ha avuto almeno l’accortezza di mettere un bel, “Non è”, davanti al titolo, trascinandosi l’eco del clima insostenibile di Viale Mazzini, degli editti bulgari e di “Non è la Rai” di Boncompagni. Fino all’ultimo abbiamo sperato in un programma con cento ragazze in costume da bagno che fanno i quiz sui vitalizi, invece niente. Resta solo il richiamo polemico. “Non è L’Arena perché anche io non sono più lo stesso dopo la tempesta umana e professionale che ho attraversato”.

 

Tutto nasce dalla proposta indecente di metterlo a tacere con un varietà. Non so se vi rendete conto della gravità della cosa, ma Giletti sì. “Faccio giornalismo, non varietà”; “mio padre mi ha insegnato a non perdere la dignità: con un varietà avrei tradito 4 milioni di telespettatori”; “quando mi hanno proposto il varietà, non ho potuto fare altro che sbattere la porta e andare via”. Il varietà – da sempre arma di distrazione di massa della casta – diventa qui il segno indubitabile del potere più repressivo che esista, quello dello spettacolo. Il varietà come silenziatore. Il varietà come bavaglio. L’oppio del varietà. Saperlo fare, il varietà, ma vabbe’. Pasolini ci ha spiegato un milione di volte che “la televisione è fascista e autoritaria come nessun mezzo di informazione al mondo”, ma Giletti ci ricorda che non tutti finiscono come dei piccoli Eichmann a eseguire gli ordini di un sistema che ci vuole prigionieri di “Tale e quale show”. Con il passaggio a La7, “L’Arena” termina quel lento, inesorabile processo di erosione interna di “Domenica In” iniziato vari anni fa. Un progressivo sganciamento della trasmissione dalle grinfie del varietà pomeridiano che finalmente rivela a tutti ciò che “L’Arena” è sempre stato sin dagli esordi: un programma contro tutte le caste dei privilegi. “L’Arena era scomoda perché faceva opinione”, spiega Giletti.

 

Spostarlo di rete e di fascia oraria, trasferendolo dall’ora di pranzo alla sera e mandandolo in onda contro Fazio, diventa così la rappresentazione plastica del conflitto tra il palazzo e la piazza. L’uomo dallo stipendio d’oro contro il fustigatore dei vitalizi. Il detentore dei privilegi e il giornalista vicino alla gente, quello che “dà fastidio”. Intanto, domenica scorsa la sfida Fazio-Giletti ci ha regalato una prima, significativa prova di grillismo a reti unificate. Mentre Fazio intervistava Di Maio su RaiUno, Giletti snocciolava le cifre dei vitalizi su La7. Di Maio diceva “Dottor Fazio”, con una splendida, misuratissima pacatezza campana da Prima Repubblica. Spiegava il principio “uno vale uno”, diceva che il voto a M5s è un “voto contro i privilegi”, che vuole “far nascere il Facebook italiano”, che è andato all’estero a incontrare “i suoi alter ego”. Parlava di “internet delle cose” con la stessa disinvoltura con cui Zuckerberg spiegherebbe la parmigiana di melanzane. Il tappeto soffuso di Fazio, la sua zona lounge, diventava così il palcoscenico ideale per esaltare il grillismo soft, quello che resta in Europa e sull’euro vedremo, quello che fa “ripartire le aziende”, quello che ha il volto democristiano dell’onorevole Di Maio, sereno e impassibile come i pesci rossi nell’acquario di Fazio. “Che tempo che fa” si trasforma in un possibile terreno d’incontro tra le professoresse democratiche, i devoti di San Gennaro e il grillismo “di centro” targato Di Maio. Scatta anche il paragone col giovane Andreotti, seppur filtrato da una citazione di Bruno Vespa. Sarebbe più calzante De Mita, ma Fazio non osa. Le elezioni sono vicine. Non si sa mai. L’epoca del fact-checking è ormai un ricordo lontano.

 

Nel frattempo, su La7, si consumava un regolamento di conti in puro stile noir. Luci soffuse. Un’ombra che cammina avvolta nell’oscurità. L’occhio di bue che lo illumina nel buio dello studio. “Quando uno entra in una tempesta, non sa neanche se riesce a uscire vivo da quella tempesta, spera solo di attraversarla”. Siamo dalle parti dei grandi incipit del cinema noir, à la “Double Indemnity” di Billy Wilder (“L’ho ucciso per denaro e per una donna, ma non ho preso il denaro e ho perso la donna… bell’affare”). Giletti guarda negli occhi il suo spettatore e spiega la proposta del varietà, la volontà di “chiudere per sempre l’Arena”, impreziosendo il racconto con dettagli precisi, come quel “settimo piano di Viale Mazzini” che evoca subito il Mega-Direttore-Galattico di Fantozzi con l’acquario di Fazio e gli epurati che nuotano dentro. Spiega come e perché se n’è andato “sbattendo la porta”. Poi esce e scende le scale (non prende l’ascensore, usa le scale) e scendendo le scale riavvolge “tutti i momenti, tutto quello che ho vissuto in questi ventisette anni all’interno dell’azienda che amavo” e incontra “tutte le persone che voi non conoscete ma che compaiono in quei titoletti di coda alla fine delle trasmissioni”. Poi pensa a quando ragazzo, carico di sogni, saliva le stesse scale che ora (nel suo racconto) stava scendendo. Poi l’incontro col mentore, Giovanni Minoli. Poi l’ingresso in Rai e un “grazie all’azienda che ho amato”, un’azienda in cui “sono entrato ragazzo e sono uscito uomo, ma non solo uomo… giornalista”, e qui ripete scandendo, “gior-na-li-sta”. Forse “c’era qualcuno che non l’aveva capito”. Ora è chiaro a tutti. “In fondo al tunnel c’è sempre una luce e si arriva in un mondo migliore”. Dissolvenza. Nero.

 

Sarà il nuovo orario serale, sarà la nuova produzione “Freamantle”, di sicuro i monologhi di “Non è l’Arena” hanno guadagnato un “effetto-cinema” e una dimensione epica che in Rai non s’era mai vista. Arriva anche il saluto di Fiorello. “La Rai non ha capito, ti ha lasciato andare così”. Anche Giletti propone un grillismo moderato, presentabile, ragionevole, di lotta e di governo. Ovviamente, il grillismo di Giletti non ha nulla a che fare con l’appartenenza politica o la dichiarazione di voto, ma con l’“esprit du temps” della nuova “egemonia culturale” (copyright Panebianco), della lotta senza quartiere ai palazzi, alle caste, alle gerarchie, ai privilegi. Da qui l’insistenza ossessiva sui vitalizi come sineddoche della sopraffazione, degli sprechi, dell’arroganza della politica. Visti in contemporanea, Di Maio da Fazio e Giletti su La7, tracciano i contorni di un grillismo soft con l’idea fissa della purezza, ma senza la zavorra impresentabile dei microchip, delle scie chimiche, dei no vax, dell’olio di palma, del sapone fatto in casa, delle coppette mestruali da scambiarsi tra amiche la domenica al parco per la festa della “decrescita felice”. Però tutta questa roba è anche la vera, profonda linfa vitale del M5s, della sua pesca a strascico di elettori su internet, insomma, della sua “base”, come si dice dalle parti della sinistra-sinistra. Questi però sono problemi di Di Maio. Giletti, invece, con la prima puntata di “Non è l’Arena” ha mostrato di saper capitalizzare al meglio i propri cavalli di battaglia, partendo con un servizio sull’affaire Tulliani che regalava passaggi da puro cinepanettone, tra latitanze a Dubai, inseguimenti all’aeroporto, Ferrari a Montecarlo, società offshore e trame oscure legate al “Re delle slot”, Francesco Corallo. Poi i grandi classici. I servizi che si intitolano, “La pensione si allontana ma il vitalizio non si tocca”, “Padre e figlia uniti dal vitalizio”, con le cifre snocciolate sulle scenografie. Però Giletti specificava, anzi aveva l’occasione di chiarire che lui non è contro i vitalizi, ma contro i privilegi. Quando affonda sui politici e il pubblico in studio applaude, lui attenua: “Non fate così che poi mi cacciano anche da qui”. “Lei tra un po’ avrà tre vitalizi”, dice al sindaco di Olbia, Settimo Nizzi, mentre il fornaio Mauro, in collegamento da Comacchio, si alza tutte le mattine alle quattro e non può andare in pensione. E’ giusto? No, non è giusto. Ma qui non si vuole esasperare l’odio per i politici. Al contrario, Giletti vorrebbe riavvicinare la gente e la casta. La parte finale è tutta per il nostro “spaghetti Weinstein”, guest star Lele Mora, incazzatura femminista di Luisella Costamagna e nuovo, immancabile appuntamento con la saga, “avances e molestie, qual è il confine?”.

 

Il caso dei dati Auditel usciti in ritardo è solo l’ultimo dei tanti regali della Rai. Ma il fatto è che Giletti mostra di conoscere il suo pubblico, traghettandolo da RaiUno a La7. Fazio no. “Che tempo che fa” e “Non è l’Arena” prolungano in fascia serale il duello tra “Domenica In” e “Domenica Live” e come nei due show del lungo pomeriggio domenicale la Rai non riesce a tenere il passo. La narrazione costruita da Giletti è più compatta, espansa, irriverente. Esemplare l’ospitata di Alessandra Moretti, cui Giletti dava del “lei”, che innescava così il doppio regime discorsivo del talk-show e della soap coi retroscena del gossip “Cairo Editore”. Su Facebook, la pagina di “Non è L’Arena” festeggia già i diecimila followers. Fazio invece ha perso anche contro “Casa Pound”. Ospite della Annunziata dopo Veltroni, il leader post-neo fascista ha fatto in proporzione più ascolti di Di Maio, ma certo qui si cavalcava ancora l’onda lunga della capocciata di Ostia. Giletti ha intercettato un consenso politico-giornalistico trasversale, pescando nel sentimento anticasta della linea Fatto Quotidiano-Libero-Giornale e intascando gli endorsement di Fiorello e Salvini che tuìtta contro “i manovratori cui Giletti dava fastidio che si sono tenuti il Fazio-Flop”. Per fortuna c’è “Rosy Abate”. Il “Kill Bill” di mafia targato Valsecchi ha annichilito la sfida Fazio-Giletti confermando la passione del paese reale per la fiction sgangherata. Certo, lo share non è tutto. Per quello basterebbe infilare una capocciata ai reporter ogni due, tre puntate e gli ascolti si impennano. Quello che stupisce semmai è la facilità con cui Mediaset riesce a entrare in sintonia con gli italiani che appare speculare a quella con cui la Rai riesce a incasinarsi da sola.

 

Il martirologio di Viale Mazzini mantiene intatta la sua struttura schematica. Fazio ne ha approfittato questa estate, quando “parlava delle intollerabili ingerenze della politica”, quando minacciava di andarsene a La7 o Discovery, quando temeva per la sua famiglia e ha spiegato di non voler più accompagnare i figli a scuola e “guardarmi intorno per vedere se c’è qualcuno pronto a insultarmi”. Giletti invece ne ha approfittato per irrobustire il profilo di un personaggio politicamente sfuggente ma televisivamente compatto e costruirci sopra un “one-man-show” in linea coi tempi che corrono. Vedremo che tipo di eroina diventerà Milena Gabanelli. La Rai fabbrica di paranoie collettive, di martiri e di perseguitati politici è a suo modo un formidabile racconto del paese, col suo carico di complottisti, retroscenisti e fustigatori dei vitalizi. Un paese in cui un ritardo nella pubblicazione dei dati Auditel il giorno dopo la prima sfida Fazio-Giletti fa scattare un esposto del Codacons, perché si tratta di “un episodio grave sul quale deve indagare l’Autorità per le Comunicazioni”. Così, non smetteremo di stupirci di come in oltre cinquant’anni di sociologia dei media e  saggistica apocalittica, gli intellettuali più raffinati e i pensatori più radicali abbiano  speso fiumi di parole, elaborato teorie, proposto modelli di analisi per metterci  in guardia dai pericolosi effetti che può avere la televisione su chi la guarda, mai però su chi la fa.

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