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Mariti all'inferno

Fabiana Giacomotti

Una nuova drammaturgia della famiglia: in passato Harvey Weinstein l’avrebbe sfangata. Danni collaterali, la carriera di stilista della moglie

Prologo. Nostra culpa, nostra maxima culpa. Alla notizia che nella caduta del tycoon Harvey Weinstein sarebbe stata trascinata anche Marchesa, la linea di abitoni da red carpet della moglie Georgina Chapman, noi scribi della moda italica abbiamo lanciato grida di giubilo. Mentre una schiera infinita di commentatori e di cronisti improvvisamente svegli e memori si interrogavano sull’omertà che accompagnava da trent’anni la carriera di predatore sessuale del produttore della Miramax, mentre le donne di tutto il mondo si domandavano se fossero state molestate a sufficienza nel corso della propria vita da poterne scrivere sui social nel mega sit-in social collettivo, liberatorio e programmatico #meToo (è incredibile, noi ragazze riusciamo a competere anche sulla qualità e il numero delle mani che ci sono state messe addosso), i modaioli brindavano all’idea che nessuna star sarebbe mai più stata costretta a indossare le terrificanti meringhe multistrato di organza, pizzi, arricciature di quel marchio “dal nome di una telenovela messicana al cui confronto Pronovias è rarefatto minimalismo sperimentale”, strepitoso conio del collega Antonio Mancinelli che è d’obbligo citare. Gli abiti di mrs Chapman ci parvero un po’ vecchiotti, ma sicuramente eleganti, in un’unica occasione, quattro anni fa: ne scrivemmo stupefatti anche sul Foglio per poi scoprire che erano stati copiati pari pari da una serie di modelli delle Soeurs Paquin dei primi del Novecento. Che alla violenza sessuale si aggiungesse quella stilistica ci sembrava insomma troppo. Detto questo, era prevedibile che, nella speranza di salvare il salvabile e in ottemperanza alla speciale visione Usa del coniugio, Georgina Chapman avrebbe inscenato la commedia dell’inconsapevolezza e i vapori dell’incoscienza, prendendo le distanze dal marito come non fece tre anni fa in Francia Anne Sinclair, madame Dominique Strauss-Kahn, esposta a uno tsunami di sputi e sperma perfino superiore al suo perché aggravato dall’accusa di razzismo, e che al marito offrì l’unico flebile appoggio della propria dignità, nonostante l’evidente ripugnanza nel farlo. Stand by your man, dopotutto, è solo il titolo di una canzone americana, non di un modello di comportamento condiviso nei cinquanta stati dell’Unione, e pare che our man Harvey inseminasse perfino le piante dell’ufficio.

  

Beoni, tromboni, ricattatori, deboli, laidi, aguzzini, goffi, avari: declinazioni del carattere maschile che erano considerate superabili

Parodo, episodi e stasimi della tragedia weinsteniana. Degli “enfants terribles” di Cocteau abbiamo fatto una locuzione; delle “mogli intriganti” un caposaldo dei palcoscenici dai tempi di Plauto fino a Tom Wolfe e con doveroso passaggio nella Francia duecentesca del satirista Adam de la Halle e del suo “Jeu de la feuillée”, in cui il protagonista “sfoglia” appunto vizi femminili come margherite a maggio. I mariti imbarazzanti, di cui Harvey Weinstein è l’ultimo rappresentante al tempo stesso reale e metaforico, una figura così ingombrante da accorpare caratteri fisici e narrativi, sono invece un’assoluta novità nella drammaturgia occidentale. Gli articoli che ne ripercorrono la carriera di molestatore seriale in accappatoio e tubo del massaggio, grotteschi ferri del mestiere, stanno assumendo la valenza di un corpus letterario di cui varrà la pena di occuparsi seriamente fra qualche anno, quando il clamore della vicenda si sarà sopito e di tubi per massaggi e falpalà si saranno perse le tracce, sono in effetti un unicum e un’anteprima. Questo non perché di mariti e fidanzati beoni, tromboni, scorreggioni, stupratori, ricattatori, deboli, laidi, aguzzini, sciatti, goffi, avari eccetera non siano piene la storia e la fiction: mettete insieme Charles Bovary, Dick Diver di “Tenera è la notte”, gli assassini in delitti a sfondo sessuale Laurent di “Thérèse Raquin” e Alex DeLarge di “Arancia Meccanica”, il sordido papà Grandet, qualunque eroe di De Sade e il cornuto masochista e felice di Dostoevskij, Pavel Pavlovic, e ne avrete un florilegio perfetto e completo anche senza attendere i mollaccioni de “Gli indifferenti”, gli imbelli “sdraiati” di oggi o quella compagnia di guitti che recita in “Suburra” tentando di calarsi in faccia un’espressione feroce, ma perché fino a qualche decennio fa tutte queste declinazioni non esclusive, ma parecchio accentuate, del carattere maschile, erano considerate superabili sia in società sia, soprattutto, in famiglia. Lo erano perfino la pazzia vera e propria, l’omicidio e l’incesto, figurarsi la trasmissione di malattie veneree e di altre affezioni invalidanti in via permanente a mogli e amanti, i calzini sporchi, il fiato da leone o la goffaggine a tavola e nelle serate con gli amici, che a leggiucchiare sul web sembra essere una delle prime cause per le quali, negli Stati Uniti, si richiede la terapia di coppia (“al matrimonio di mia cugina quarantenne, Jack ha chiesto quanti uomini avesse dovuto farsi prima di incontrare mr Right. Un c. totale”).

  

Mentre Carlo d’Inghilterra resterà per sempre avviluppato al totemico tampax di Camilla, narrano le biografie che il bisnonno Edoardo VII avesse conosciuto una delle sue amanti meno famose ma più discrete, Rose Lewis, di professione cameriera, saltandole semplicemente addosso nella sala da pranzo degli amici d’Orléans che lo ospitavano e che aveva trovato vuota. Il fatto non è acclarato in via definitiva perché l’interessata si guardò bene dal raccontarlo ai giornali come avrebbe fatto la cameriera incrociata da Strauss Kahn nel 2014; certo è che né la moglie Alexandra né l’amante en titre del sovrano, Alice Keppel, vi fecero caso. Morale diversa, appunto, e in giro davvero pochissime donne con una professione che permettesse loro di mantenere adeguatamente se stesse e gli eventuali bambini nel caso di un’alzata di testa e di orgoglio. Un marito era un marito era un marito, dunque si teneva caro anche se stuprava le servette di casa o se giaceva nel letto coperto dalle pustole della sifilide contratta in qualche bordello.

  

Il marito della stilista era l'unico in grado di far indossare quegli orrendi vestiti alle donne, e quel marito con il suo potere non c'è più

Tuttora vengono lette e citate come esempio di devozione muliebre le lettere di Eleonora d’Aragona alla figlia Isabella d’Este, sposa di Francesco Gonzaga che per tutta la vita si sarebbe infilato sotto ogni coperta per farvi sesso o anche inscenarvi qualche degenza al fine di evitare abboccamenti politici o la guida di eserciti che non gli andavano a genio, al contrario della moglie che si sarebbe introdotta invece nella corte pontificia di Giulio II, con il suo seguito di smaliziatissime “donzelle”, pur di salvaguardare il ducato, spingendole nel letto di chiunque potesse tornare utile senza la benché minima remora e intonando a sua volta canzoncine licenziose e balli allusivi. “Vogliamo con questa nostra exortarvi et admonirvi che spesso andati a visitare il signore vostro consorte in questa sua indisposizione e che lo domandati come è stato e come sta, et cum parole amorevole et bona ciera lo confortati et acarezati, servendolo de vostra mano”, scrive Eleonora alla figlia il 28 luglio 1491, maritata da poco, e già si immagina la sedicenne Isabella sbuffare lungo i corridoi del castello di Mantova per andare a servire di persona il brodo caldo (in tempi successivi e in alternativa, il grog e il tè) che gli uomini ritengono tuttora la panacea contro ogni male.

  

In realtà, e pur senza voler generalizzare, non sembra cambiato affatto il gradiente di violenza, prevaricazione e modi sgarbati che un uomo riesce a produrre nell’ambiente che lo circonda e che cinquant’anni fa faceva scrivere all’antropologo Ashley Montagu come “nel mondo occidentale, i maschi sembrino vivere in uno stato cronico di eccitamento e, al contrario delle donne, siano dominati dal sesso” in ogni loro forma espressiva. Sono cambiati però e appunto le reazioni e maschili e, soprattutto, femminili, a questo presunto stato di alterazione costante e alle azioni che ne derivano, insieme con la legislazione che le regola e le sanziona.

   

Devozione muliebre nelle lettere di Eleonora alla figlia Isabella, sposa di Francesco Gonzaga, che si sarebbe infilato sotto ogni coperta

Per quanto riguarda i casi di violenza sessuale in Italia, nessuno è convinto che siano aumentati, anzi le statistiche dicono che sono diminuiti rispetto a soli cinque anni fa e in percentuale ancora maggiore durante l’ultimo semestre. Però se ne parla di più, si tace di meno o, per usare una formula (anche lei) abusata, si tollera zero. Quando, qualche sera fa su Raitre, Asia Argento raccontava a Bianca Berlinguer che nel 1997, l’anno in cui subì il primo assalto di Weinstein, la legge che anche in Italia equiparava la violenza sessuale a reato contro la persona e non contro la morale era stata appena introdotta e che dunque per molte donne, lei compresa e all’epoca ventunenne, si trattava di materia nuova, da maneggiare con cura e con timore, forse si stava arrampicando sugli specchi, come ha osservato qualcuno che avrebbe ritenuto “coerente” vederla denunciare subito l’accaduto e magari, chissà, vederla lavare gloriosamente i piatti in qualche fast food dopo essere stata espulsa dal sistema, ma in realtà esprimeva un disagio comune fra le donne ancora oggi. Weinstein è stato impallinato perché si è trovato all’incrocio fra un regolamento di conti con il fratello e un nuovo capitolo di quella che il sociologo Norbert Elias definiva “la civiltà delle buone maniere”, cioè del processo di autodisciplina e di controllo degli istinti che è alla base dello sviluppo sociale e che inizia ad affermarsi in modo costante e organizzato nel Medio Evo. Solo settant’anni fa, our man Harvey l’avrebbe sfangata, come l’avevano sfangata Louis B. Mayer e Darryl Zanuck, l’uomo per il quale Variety coniò la locuzione del casting couch, il divano del produttore, o ancora Irving Thalberg, la cui moglie, Norma Shearer, poteva giusto contentarsi di mettere in scena la moglie tradita e offesa che cacciava il marito nel celeberrimo “Donne” di Cukor, ma che nella vita reale taceva come le altre, e magari invitava l’ultima nuova stella stuprata per un tè nella grande beach house di Los Angeles offrendole tutta la sua simpatia.

   

Agli albori del Cinquecento, solo una come Margherita di Valois, con la sua raffinata educazione e la sua cultura, avrebbe potuto concedersi il lusso di trovare ributtanti la rozzezza e l’insopportabile odore personale di quel re di Navarra che le avevano dato in sposo, cacciandolo dal letto la prima notte di nozze; e solo adesso questa sarebbe una causa più che valida per un divorzio. Il marito imbarazzante era un non dato, mentre le mogli intriganti e pretenziose una categoria di cui si rideva e che un marito come si doveva avrebbe dovuto contenere: “A noi duole et havemo vergogna di una mogliera di quella sorte, che vuol far sempre a suo modo e di suo cervello”, scriveva risentito Francesco Sforza, a cui non certo la spada ma il cervello politico talvolta faceva invece difetto, ed ecco che Isabella doveva correre in difesa del figlio, l’adorato e brillante Federico, promesso come ostaggio qui e là dal padre. Agli uomini imbarazzanti spesso corrispondevano e corrispondono infatti donne scaltre a diverso titolo e con differenti scopi. Raramente complici o motori di nequizie come Lady Macbeth, ma anche raramente ignare.

  

Vivere ogni giorno con uno stupratore seriale, con un ricattatore di professione o con un millantatore senza essere sfiorate dal benché minimo sospetto è del tutto impossibile a meno di non voler offendere l’intera categoria femminile: di certo Laura Sala, la moglie di Mario Chiesa, non avrebbe potuto immaginare che dalle sue ricerche di denaro nascosto a fini divorzili si sarebbe scatenata Tangentopoli. Di certo, però, sapeva bene dove e come indirizzare il suo avvocato nella caccia al malloppo. Per questo, e soprattutto agli occhi di noi “vecchi europei” che agli americani appariamo troppo smaliziati, suonano squallide le prese di distanza di Georgina Chapman nei confronti del marito, e del tutto ridicoli gli articoli del New York Times in sua difesa. Scrivere di un “matrimonio d’affari” in presenza di due figli piccoli è fuori luogo e molto offensivo per tutte le parti in causa, e se gli avvocati dell’ossutissima Georgina non fossero in preda al panico come lei eviterebbero di far uscire difese che suonano come autoaccuse. Domandarsi se e a quale prezzo verrà mantenuto in vita il brand Marchesa, tema sul quale la stampa americana continua a baloccarsi da settimane, è assolutamente fuori luogo. Non sopravvivrà affatto, ma non perché Harvey Weinstein lo stupratore sia, o meglio fosse, il marito della stilista. Ma perché il marito della stilista era l’unico in grado di far indossare quegli orrendi vestiti alle donne, e quel marito con il suo potere e i suoi imbarazzanti tubetti di crema non c’è più. Epilogo.

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