Le cascate della moda

Fabiana Giacomotti

Sono quelle che ha messo in scena Lagerfeld per Chanel a Parigi. Ma gli abiti interessano ancora? Ecco come si sono trasformate le sfilate, in cui tutto piace purché opulento, stupefacente e audace

Ogni epoca ha il suo Florenz Ziegfeld. La nostra l’ha trovato in Karl Lagerfeld, ma non quello del debutto ormai remoto dell’anno 1957, dei colletti rigidi e dei capelli folti, nerissimi e alti sul capo alla Gustav Mahler (il parallelismo potrebbe non piacergli), bensì quello candido e rutilante dell’altro ieri o, per meglio dire, dell’ultimo decennio, cioè da quando le passerelle delle sfilate di Chanel si sono trasformate nel set di un musical di Cole Porter o in una moderna versione del music hall di Mistinguett. Set di crociere, supermercati, cabine di aereo, scale a chiocciola alte dieci metri con le girl in discesa plastica dapprima e in posa plastica dopo: “Anything goes”, va tutto bene e tutto piace purché opulento, magnifico, stupefacente, audace, effetto wow e soprattutto a prova di ripresa col cellulare. Lunedì scorso, per la collezione primavera estate 2018 di Chanel, Lagerfeld ha trasformato il Grand Palais, già di suo un poderoso accrocchio stilistico Belle Epoque, in un facsimile delle Gorges du Verdon, “il gran Canyon d’Europa” come lo definiscono le guide turistiche, esponendo gli invitati al “benefico vapore acqueo” di una colossale cascata fedelmente ricostruita sotto gli stucchi. Il tema della natura ultimamente tira molto, come si sa, e nella lotta per la supremazia fra Milano e Parigi, non del tutto ingenuamente rinfocolata dal New York Times, la battaglia si è spostata con una certa frequenza su campi reali, cioè su tappeti erbosi e boschetti ricostruiti nelle piazze e sulle passerelle per evocare bioeticità e rispetto per l’ambiente talvolta perseguiti sul serio. Dunque, se Milano ha messo in scena il suo Green Carpet Award al Teatro alla Scala, Parigi non ha voluto essere da meno, e quando un raggio di sole, filtrando dalla volta a vetri dell’immenso soffitto del Grand Palais, ha toccato la cascata dando vita a un arcobaleno, gli astanti hanno sentito, nel profondo del cuore, che il favore del cielo era caduto sulla collezione. Il finale operistico, d’altronde, è sempre di più l’effetto cercato in queste sfilate di cui nessuno ha davvero bisogno e che costano milioni di euro, ma che sono diventate un momento sempre più indispensabile nella narrazione di un sistema che si regge sul rinnovamento costante del desiderio del superfluo o la seduzione del quesito di logica, come nelle collezioni di Rei Kawakubo. Ancorché magnifici perché votati alla seduzione dell’immaginario, tempi e modi delle sfilate restano infatti distonici e asincroni tanto per i clienti finali che per i compratori. Come ebbe a dire all’epoca Pierre Cardin, e come potrebbe dire anche domattina chiunque lavori nel business, “a settembre e a febbraio-marzo, quando vanno in scena le sfilate, il cliente finale non è ancora interessato alla moda che potrebbe voler indossare sei mesi dopo, e i buyer, che in buona parte hanno già acquistato, preferiscono comunque fare gli ordini nella quiete degli showroom”.

 

Un momento indispensabile nella narrazione di un sistema che si regge sul rinnovamento costante del desiderio del superfluo

Due giorni fa, ho incrociato in via Montenapoleone Federico Giglio, uno di questi buyer che comprano per i milioni di euro necessari a riempire le loro boutique, nel caso specifico a Palermo, e i loro e-commerce che invece toccano tutto il mondo e che, sempre nel caso in oggetto, si affacciano di prevalenza sul Mediterraneo. Aveva appena terminato gli ordini a Milano e stava partendo per Parigi, senza aver visto una sola sfilata nella capitale francese. Ha sorriso divertito: “Non ho tempo per lo spettacolo del mondo”. Lo spettacolo va in fatti in scena in logica ludica e testimonial e, per chi voglia guardarlo e per chi debba darne conto, ma soprattutto pour le plaisir des yeux, per il piacere degli occhi, come avrebbe detto il maresciallo di Richelieu quando, nel 1730, comprò un vasto terreno dalle parti della porte de Clichy per farne la sua “folie” (da foliae in latino, cioè luogo ombroso e verdeggiante, ma anche follia vera e propria visto che vi organizzava delle cene in costume adamitico con i cortigiani di Versailles). Il palazzetto, o casino come si diceva prima che il senso si apparentasse a quello di casa chiusa, venne trasformato successivamente nel parco d’attrazioni di Tivoli e, a poco a poco, popolato di teatri e music hall, fra cui appunto il Casino de Paris, e siamo già a Mistinguett, a Maurice Chevalier di “Valentine”, alle piume e alle mise en tete in cristalli firmate dai grandi costumisti del Novecento che, da Parigi, sarebbero poi finiti a lavorare nella Rai di Ettore Bernabei e a far sedimentare anche in Italia un immaginario di cristalli, cartapesta e paillettes trasversale, e pronto a tracimare in nuove forme teatrali. La passerella o, come la sentite ancora declamare dai cronisti nei primi documentari modaioli dell’Istituto Luce, la “promenade”, arriva un po’ dall’apparato processionale religioso e militare, come ebbe a raccontare Federico Fellini in “Roma”, ma molto dal varietà.

 

“Quando arrivai io, negli anni Cinquanta, non c’era nemmeno la pedana”, racconta infatti il più celebre fotografo di sfilate, Chris Moore, nelle note che accompagnano il suo libro autobiografico di prossima uscita, “Catwalking”, espressione assimilata alla moda più o meno in quegli anni, in origine coniata per descrivere il camminamento degli operai sulle impalcature. Per essere onesti, sfilate con i criteri attuali si tengono da circa un secolo, l’Istituto Luce fa ancora un a volta fede e gli archivi del Palais Galliéra di Parigi pure con le sue pedane, le sue modelle che volteggiano, certo più sorridenti e di buon umore di quelle attuali a cui viene imposto il broncio. L’impressione che negli ultimi quarant’anni sia tutto cambiato non è però del tutto malriposta. Ottantatreenne, dunque coetaneo di Lagerfeld, londinese, Moore entrò nella moda come assistente di studio a Vogue negli anni in cui vi pubblicavano ancora Cecil Beaton e Clifford Coffin. In oltre mezzo secolo ha fotografato i saloni di Yves Saint Laurent, l’ascesa delle muse di Versace che due settimane fa Donatella ha voluto richiamare in passerella, anzi sul podio, nelle più rutilante e sensuale sfilata celebrativa dell’ultimo ventennio, fino alle stravaganze di John Galliano e Alexander McQueen e, ancora ieri, dello stesso Lagerfeld. Mingherlino, velocissimo, l’abbiamo visto infilarsi negli spazi claustrofobici riservati ai fotografi fino a poco tempo fa; detesta noi manovali della penna che già parecchio tempo fa abbiamo fatto sloggiare lui e la sua genìa da bordo passerella, dove un tempo si accovacciavano tutti, oscurando la visuale e cadendoti spesso addosso se sedevi in prima fila. Ora, non troppo pacificato ma comunque conscio di aver raggiunto lo status di tesoro internazionale, Moore si è regalato un libro che tutti vorremmo avere per le mani già oggi, senza dover attendere il 7 novembre quando inizierà a essere distribuito. A FT ha raccontato di adorare i giapponesi della scuola di Issey Miyake e Rei Kawakubo (“bloody brilliant”), e di essersi annoiato a morte solo con le sfilate di Givenchy “ma negli anni di monsieur Hubert”, e in questo non possiamo che trovarci d’accordo, soprattutto dopo la prima prova del direttore creativo scelto in sostituzione dello stilista che per un decennio ne ha indirizzato il successo, Riccardo Tisci. Più ancora della collezione di Clare Waight Keller, andata in scena la settimana scorsa, non ha infatti lasciato traccia la campagna virale lanciata da Givenchy per promuovere l’offerta di qualche biglietto di ingresso alla sfilata. Pochissimi hanno infatti “seguito il gatto” nero (cat-catwalk, arditissimo parallelismo davvero) che era stato fotografato per promuovere l’iniziativa. Sempre al punto della moda come spettacolo, innanzitutto come spettacolo, infatti, si torna.

 

"Il cliente finale non è ancora interessato alla moda che indosserà sei mesi dopo, e i buyer preferiscono la quiete degli showroom"

Forse Moore esagera quando racconta che prima dei Sessanta, cioè e metaforicamente prima della sua irruzione sulla scena, le sfilate fossero ritrovi per signore a cui veniva servito il tè. Non ci sono però dubbi che il pubblico che vi assisteva fosse completamente diverso da quello di oggi. E che vi lavorassero migliaia di persone in meno. Il clic, l’accelerazione, avviene in effetti fine degli anni Settanta quando, con lo sviluppo della moda da affare di atelier per qualche migliaio di ricche e di ricchissimi a business multisettoriale, le presentazioni delle collezioni si trasformano nel momento topico della comunicazione delle novità, sostituendo le presentazioni bimestrali organizzate intra muros per una manciata di intimi, senza pedana, senza musica e con la sola première a enunciare il nome di ogni modello perché le invitate possano segnarlo sul carnet. La moda diviene patrimonio di tutti, dunque ha bisogno di tutti per farsi conoscere: ben vengano allora i fotografi, e ben vengano gli articoli illustrati con fotografie dell’evento, dunque di cronaca, rispetto ai disegni usati a tempo debito fino a quel momento. I giornali scoprono che quelle belle fotografie, quelle bellissime donne, possono essere usate quasi gratis, cioè senza pagare il fee della modella stessa. E’ cronaca. Se le sfilate della haute couture mantengono ancora una parvenza del modello di presentazione originario, in quelle del pret-à-porter i compratori e i giornalisti diventano il pubblico privilegiato, mentre le clienti vengono relegate nell’angolo (i direttori delle boutique si dolgono sempre di non avere sufficienti biglietti a disposizione per le clienti che spendono anche cinquantamila euro all’anno).

 

Prima degli anni 60 "le sfilate erano ritrovi per signore a cui veniva servito il tè". Vi lavoravano migliaia di persone in meno, però

Nel contempo, la moda spettacolarizzata diventa opportunità di impiego per centinaia di lavoranti del teatro prossimi a perdere il lavoro o a non trovarne più: scenografi, macchinisti, decoratori, registi di scena. Il fatto che negli anni Settanta l’ascesa della moda-spettacolo coincida, almeno in Italia, con quello del definitivo declino della rivista e dello spettacolo teatrale “per il piacere degli occhi”, che si protrarrà per un altro paio di lustri solo in televisione, sembra suggerire l’idea che lo spettacolo popolare fatto di luci, suoni, belle ragazze, nato nei tempi più antichi e sviluppato nelle forme più diverse, trovi sempre il modo di rinnovarsi. I tableaux vivant di John Galliano, così simili ai quadri “Luigi XV” della rivista anni Quaranta, sono rimasti indimenticabili, e non ci sono dubbi che anche questa sfilata di Chanel entrerà negli annali della moda mentre forse quella, meravigliosa, di Miu Miu, fatta di rigore e di una visione moderna e condivisibile della donna a cui Miuccia Prada riserva un rispetto di certo non comune nel settore, resterà solo nel cuore di chi l’ha seguita.

 

Luci, suoni, arcobaleni: le machineries del teatro barocco. E opportunità d'impiego per scenografi, decoratori, registi

“Quella volta che al Gran Palais montarono la cascata provenzale, come si chiama, bisognerà proprio andarci una volta o l’altra?”. Luci, suoni, arcobaleni: le machineries del teatro barocco riportate in scena in versione tecnologica. All’ultima kermesse milanese Sergio Salerni, il più famoso regista di sfilate e set modaioli, ne ha organizzate quindici, spostando un esercito di persone, srotolando chilometri di prato e salendo personalmente sopra gru alte dieci metri. Nessuno, però, è mai riuscito a cogliere l’essenza del tema, e a dimostrarlo, meglio di Thierry Mugler. Il 22 marzo del 1984, per celebrare il decennale della propria attività, presentò la collezione allo Zénith di fronte a un pubblico pagante di seimila persone. Attore, produttore, direttore di scena, fotografo di se stesso, ancor prima che stilista, replicò nel 1995 al Cirque d’hiver (in scena Claudia Schiffer e Jerry Hall, che poi sarebbe diventata testimonial del suo profumo più famoso, Angel, avvolte in volpi bianche). Per pareggiarne il costo a sette zeri (si era ancora in regime di lire e di franchi), l’evento venne coperto broadcast live su Paris Première, un po’ come succede questo weekend con Intimissimi on Ice. Canta, ça va sans dire, Andrea Bocelli, pattinano belle ragazze vestite su suggerimento di stile di Chiara Ferragni (in realtà, vi lavora una famosissima sartoria teatrale romana, con costumista di professione e sarte al seguito). Forse non sarà moda, forse i tessuti non saranno unici e irriproducibili come quelli descritti da Lagerfeld, ma dal ghiaccio dell’Arena di Verona alla cascata del Grand Palais ammetterete che il passo è davvero breve.

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