Google store (Foto LaPresse)

La valle dei poteri forti

Ma in California Google & Co. vogliono costruire una stupidità artificiale. Parla Franklin Foer

Il giornalista liberal Franklin Foer non metterebbe piede negli studi di Fox News se non per promuovere il suo libro. Quando l’ha fatto, qualche giorno fa, prima della diretta la conduttrice lo ha incensato in tutti i modi, ha detto che in redazione non si parla d’altro che della sua ultima invettiva contro lo strapotere della Silicon Valley, tutti lo hanno letto, apprezzato e consigliato con entusiasmo a parenti e amici. L’incredulo Foer ha ricevuto un’intervista sdraiata dal network dei conservatori. Il paradosso è che la stessa cosa succede con il popolo di Bernie Sanders e dei progressisti più arrabbiati, che lodano l’ex direttore di The New Republic ritornato a far parlare di sé. Prodigi da eterogenesi dei fini. “A World Without Mind: The Existential Threat of Big Tech” si colloca nel punto di intersezione fra tutte le critiche che piovono sul mondo della tecnologia, un tempo considerato in forma bipartisan come la fucina del mondo nuovo. Da qualche tempo il vento è cambiato. Mark Zuckerberg e Larry Page non sono più visionari ispirati e inventori geniali, Facebook e Google sono stati esautorati dal ruolo di interpreti di un futuro di prosperità e pace. I motti benevoli che lastricavano la via della Silicon Valley sono stati rimpiazzati da difese d’ufficio dalle accuse di monopolio. I manifesti sull’umanità che vivrà felice e connessa quando si sarà alleata in modo simbiotico con le macchine ricordano ormai più Aldous Huxley che Barack Obama. Fra le poche passioni che democratici e repubblicani al Congresso condividono c’è quella di trovare modi per trascinare Facebook a testimoniare davanti a una commissione sul ruolo che ha avuto nella vendita di ads ad account farlocchi che rimandavano a una fabbrica di troll affiliata al Cremlino, ipotesi a cui il trasparentissimo Zuckerberg resiste con le unghie, ché cedere alla convocazione delle autorità una volta significa sottomettersi per sempre allo scrutinio della legge. Facebook vuole vedere senza essere visto. Dopo un intenso negoziato con il Congresso, il social ha deciso infine di dare ai rappresentanti del popolo americano i messaggi pubblicitari in questione e l’amministratore delegato ha annunciato nuove misure che l’azienda prenderà per migliorare la tracciabilità dei prodotti, limitare le interferenze di governi stranieri, dare una spinta alla democrazia. Ma niente testimonianze al Congresso.

 

Da giovane giornalista progressista a profeta che denuncia
la "minaccia esistenziale"
delle grandi corporation tecnologiche"

Foer ha visto da vicino l’inizio del crepuscolo degli idoli della Silicon Valley. Nel 2012 New Republic, glorioso magazine della sinistra intellettuale, è stato comprato da Chris Hughes, giovane cofondatore di Facebook con molti soldi che amava il brivido di andare in biblioteca a leggersi i vecchi numeri della rivista con le microfiche e la lavagna luminosa. Foer aveva lasciato la direzione qualche anno prima, a causa dell’instabilità editoriale cronica del giornale, ma è stato richiamato per rilanciare il magazine verso una nuova èra. Un’avventura entusiasmante finita nel peggiore dei modi quando Hughes si è reso conto che l’azienda non cresceva al ritmo di una startup e che i giornalisti non erano ingegneri informatici. Quando ha nominato amministratore delegato Guy Vidra, un suo ologramma che proveniva da Yahoo!, questo ha ribattezzato il giornale in cui scrivevano George Orwell e Virginia Woolf una “media company verticalmente integrata”. Al “verticalmente integrata” il direttore ha dato le dimissioni, e due terzi della redazione lo ha seguito. Ora Foer ci tiene a specificare che “A World Without Mind” non è una vendetta servita fredda contro il responsabile della “più grande operazione di vandalismo culturale della storia recente” (la definizione è di Leon Wieseltier), ma il rapporto con Hughes è stato l’episodio rivelatore, l’accidente storico che ha trasformato un giovane giornalista progressista ben disposto verso la Silicon Valley in un profeta che denuncia la “minaccia esistenziale” delle grandi corporation tecnologiche.

 

Il libro di Foer ha molte dimensioni. Non è soltanto un attacco al potere monopolistico, non è soltanto una riflessione filosofica, non è soltanto una ricognizione delle radici, implicite o manifeste, dell’ideologia della Silicon Valley, non è soltanto una dissertazione intorno alle leggi che regolano l’informazione. Ha in qualche modo distillato e organizzato i migliori argomenti formulati, con linguaggi e registri differenti, dai critici più equilibrati e riflessivi del dominio tecnologico, da Jonathan Franzen a Sherry Turkle e Dave Eggers. Sullo sfondo incombe inevitabilmente Donald Trump, che è insieme il più analogico e il più digitale dei leader di ogni tempo. Incombe anche, non fisicamente ma quasi, su questa intervista, avvenuta in un bistrot francese sulla 55esima strada, a due passi dall’inaccessibile fortezza della Trump Tower, nell’atmosfera surreale che regna nella parte est di Manhattan quando c’è l’assemblea generale dell’Onu.

 

La conversazione parte dalla sintesi di tutte le critiche mosse dall’autore: la Silicon Valley ha “distrutto la possibilità della contemplazione”, attività che, secondo Foer, ci rende umani. Non proprio un dettaglio. Si scopre così che la contemplazione è legata al concetto di privacy che la Silicon Valley vuole abolire: “Una persona estremamente importante per la mia riflessione è Louis Brandeis, il giudice della Corte suprema che ha praticamente coniato l’idea della privacy. Ho cominciato a un certo punto a domandarmi che cos’è davvero la privacy e perché è importante, e ho capito che non si tratta solo della nostra capacità di mantenere i segreti. Quando Brandeis ne ha scritto la intendeva innanzitutto come la possibilità di avere uno spazio per sé, per pensare. Se qualcuno inizia a guardarti, cambi le tue opinioni per adeguarti alla persona che ti sta guardando”. Brandeis arrivava a dire che “lo scopo finale dello stato è quello di rendere l’uomo libero di sviluppare le proprie facoltà”.

 

Sullo sfondo del libro incombe inevitabilmente Donald Trump, che è insieme il più analogico e il più digitale dei leader di ogni tempo

“Che cos’è che la cultura tecnologica sta davvero distruggendo? – dice Foer – I nostri segreti, quelli dei governi e delle aziende, certo, ma la posta è molto più alta: in gioco c’è il nostro essere persone che pensano liberamente e prendono decisioni. Se metti questa idea nell’ambito della partecipazione alla vita politica, è quello che distingue una democrazia libera da uno stato totalitario”. La dimensione contemplativa fa la differenza fra esprimere un voto cosciente, libero, e mettere una croce su una scheda elettorale: “Viviamo in una democrazia e in una democrazia devi prendere decisioni, quindi è necessario avere informazioni e disporre della possibilità di valutarle, capirle, digerirle. Altrimenti il voto perde di significato. Il mio libro ha Donald Trump sullo sfondo. Non sapevo che sarebbe stato eletto quando l’ho concepito e scritto, ma la sua ascesa, aiutata dagli stessi strumenti che pensavamo ci avrebbero liberato da quelli come lui, ha soltanto reso più esplicito un problema molto più antico di Trump”.

 

Ha studiato abbastanza i discorsi di Larry Page, il più visionario e fantascientifico dei pezzi grossi della tecnologia, e i suoi rapporti con gli apocalittici della “singularity” per sapere che non è un’esagerazione dire che “stiamo diventando dei cyborg”. “E’ in corso un rapido processo di unione fra l’uomo e le macchine, e non c’è bisogno di impiantare dei microchip sottopelle per realizzarlo. La questione è l’automatizzazione dei processi. La mia paura è che scivoliamo su un piano inclinato in cui un processo automatizzato porta a quello successivo. Si tratta dapprima di piccole scelte, ma poi le scelte che deleghiamo alla tecnologia saranno sempre più grandi e importanti. Piccoli sforzi mentali diventano automatici, e un giorno anche quelli più complessi lo diventeranno. Se procediamo su questa strada la peculiarità dell’umanità diventerà una qualità robotica e in qualche modo il nostro senso di noi stessi si estinguerà”.

 

La tesi di Foer non prevede il complottone dei savi di Palo Alto per dominare il mondo distraendo l’umanità con le foto su Snapchat. Non c’è una mente che dice “impediamo alle persone di riflette perché gli esseri umani contemplativi sono più difficili da controllare”. “Non è un piano di dominazione esplicito – spiega Foer – ma quel mondo è fatto di persone molto idealiste. Secondo loro la tecnologia ci libera, ci permette di essere persone libere che pensano liberamente. Facebook si pone come podio da cui ognuno può gridare la propria opinione. Si concepiscono come l’opposto del modo in cui li dipingo nel mio libro. Le loro creazioni sono per molti versi il contrario di ciò che promettono”. In molte aziende della Silicon Valley, il prodotto che l’azienda offre è la negazione della missione che enuncia.

 

“Cosa sta distruggendo la cultura tecnologica? In gioco c’è il nostro essere persone che pensano liberamente
e prendono decisioni”

Ora che la “net delusion” di cui parlava Evgeny Morozov anni fa – quando il resto del mondo attendeva con ansia la vittoria di Twitter sulle dittature – è la vulgata, si sta scandagliando la profondità della delusione: “La Silicon Valley era parte della visione del progresso umano. In America e in occidente quella visione del progresso è stata deturpata, dalla Brexit, da Trump e da molti altri fenomeni analoghi. Questo senso della crisi che pervade ogni ambito ha mutilato le nostre aspettative: il futuro glorioso che aspettavamo non sembra arrivare. Siamo in un momento di riesame delle premesse su cui avevamo basato la nostra lettura del mondo. L’elezione di Trump ha anche portato la gente a cambiare opinione sui media, che sono stati visti come complici di questa elezione. Zuckerberg ha fatto molti errori dopo le elezioni, rifiutandosi in sostanza di ammettere qualunque tipo di responsabilità per il sistema che ha creato. Questo ha generato sospetti. Ma c’è un’altra questione che ci guarda dritto negli occhi: il futuro del lavoro. Il tema del lavoro è fondamentale non solo per ragioni di mera produttività, ma perché porta direttamente alla domanda sullo scopo e la dignità della vita. Che tipo di società è quella in cui la stragrande maggioranza dei lavori sono automatizzati? Che tipo di uomini può generare? Nella vita moderna il lavoro è ciò che in gran parte ci definisce, ma come ci definiamo senza lavoro? Come impieghiamo le ventiquattr’ore che dobbiamo vivere? Questa prospettiva crea ansie e scetticismo. Io non odio la tecnologia in sé, sono solo spaventato da una tecnologia manipolatrice e subdola così come la intendono quelli che la controllano”. Foer non manca mai di ricordare ai lettori che quando ci affidiamo alla tecnologia non ci affidiamo a uno strumento neutro, ma mettiamo noi e i nostri dati nelle mani di aziende che controllano quegli strumenti. E qual è lo scopo finale dei padroni della rete? “Ognuno di questi leader ha una visione particolare. Page è il più idealista, il suo scopo è propiziare un nuovo stadio dell’evoluzione dove l’uomo diventa un essere superiore grazie all’alleanza con la tecnologia. Ma non minimizzerei il problema del profitto. Non va dimenticato anche che sono ingegneri, sono ossessionati dalla creazione di sistemi perfetti, dove la perfezione coincide con l’efficienza. L’ideale comune alle grandi compagnie tech è creare una frictionless life, una vita liberata dalle mansioni materiali. Questo è anche il motivo per cui ingannare la morte è la loro ossessione: si tratta di liberare l’uomo dalla sua più grande inefficienza”.

 

Continua però a sfuggire un supremo “perché” che giustifichi la corsa verso una vita senza attriti, manca una metafisica. Sul termine metafisica Foer fa un salto sulla sedia: “Il problema della computer science è esattamente che è nemica della metafisica. Si occupa dell’efficienza generata all’interno di un sistema dato, ma non può concepire un sistema superiore a se stesso. La sua metafisica è l’efficienza stessa. Uno dei nostri obiettivi dovrebbe essere liberare la computer science dagli scienziati dei computer. Ripeto: il problema non è l’avanzamento tecnologico in sé, il problema è che non possiamo vivere in un mondo dominato dagli ingegneri. Ho una figlia che è attratta dall’ingegneria e da tutto quello che è tecnologico, perché chi non lo è? è la religione dell’educazione americana. Una parte di me dice: ribellati e diventa una poetessa, perché il mondo ha bisogno di poesia! Ma ciò di cui avremmo veramente bisogno sono persone con un background o un’inclinazione umanistica che diventano ingegneri e si occupano di correggere la concezione dell’ingegneria prevalente in un senso, per dir così, più metafisico. Occorre introdurre l’idea di uno scopo umano nelle cose che si fanno che non sia riducibile all’efficienza del sistema stesso”.

 

C’è un punto del libro in cui Foer descrive una delle ossessioni della Silicon Valley: mappare il funzionamento del cervello. E’ il segreto dell’intelligenza artificiale, che in quanto tale replica un modello che per essere ricostruito deve prima essere compreso. L’ipotesi di fare con il cervello quello che gli scienziati hanno fatto con il genoma una generazione fa avvince tutta la comunità scientifica e non solo. Basta ricordare l’entusiasmo con cui Obama ha annunciato nel 2013 un colossale investimento pubblico per mappare il cervello e “sbloccare le soluzioni” a tante malattie che affliggono l’umanità. Scontrandosi con questa visione funzionalista e, al fondo, materialista, Foer scrive che il cervello è un “mistero”. Non scrive che il cervello è una cosa molto complicata che un giorno, quando avremo a disposizione strumenti abbastanza sofisticati, potremo afferrare. Dice che è un mistero. Ma cosa significa? “Si è affermata una concezione riduttiva dell’uomo, che in fondo viene interpretato come un computer. E’ un altro rovesciamento: in origine si doveva studiare l’uomo per capire come costruire macchine a esso ispirate, ora si studia l’uomo come se fosse una macchina. Questa riduzione ha anche a che fare con la nostra tendenza ad affidarci totalmente ai dati. Ci sono cose dell’uomo che però non possono essere spiegate con i dati. La coscienza e la volontà sono, o dovrebbero essere, imprevedibili, anche se studiamo con algoritmi sofisticati i nostri pattern di comportamento. Obama incarnava in modo incredibile l’ottimismo tecnologico della nostra epoca, e si vedeva chiaramente in diversi punti del suo programma. Si è orientato fortemente, ad esempio, verso l’economia comportamentista, il che è la base della costruzione di un sistema in cui lo stato suggerisce ai cittadini le scelte più razionali da fare.”

 

“Ingannare la morte
è la ossessione
delle grandi compagnie tech: si tratta di liberare l’uomo dalla sua
più grande inefficienza”

Nelle pagine si incontrano naturalmente i vari Jobs e Bezos, ma vengono convocati anche i Cartesio e i Leibniz, progenitori della cultura della Silicon Valley. L’intero plotone della filosofia moderna è chiamato da Foer a testimoniare, e si pone il mastodontico problema del rapporto fra la riverita modernità e le minacce esistenziali che Google e compagni impartiscono all’oggi. L’ideologia che Foer denuncia è lo svolgimento o il tradimento dello spirito della modernità? “Entrambe le cose – dice Foer – La modernità ci ha portato una concezione dell’individuo che credo vada preservata, lì è nata l’idea dell’autonomia, del self, dell’io come agente razionale e libero. Sono conquiste che giudico positive. Ma ha anche introdotto una forma di razionalità che culmina inevitabilmente in Google. Hanno creato una bellissima rivoluzione che però può perdere il controllo dal un momento all’altro e distruggere le sue migliori creature. La cosa più difficile per me nello scrivere il libro è stato iniziare vedere le cose al di fuori di un sistema binario, che è a sua volta un portato del linguaggio informatico. Come la tecnologia non è solo buona o cattiva, così la modernità non è solo buona o cattiva”.

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