Kirsten Dunst, Laura e Kate Mulleavy alla prima di "Woodshock"

Bella la moda ma non al cinema

Fabiana Giacomotti

Tutti gli stilisti sognano di presentarsi con un film a Venezia. Sonno beato in sala con “Woodshock”

Conoscendo molto bene l’accrocchio di parole vuote di cui gli uffici stampa della moda infarciscono i comunicati stampa delle nuove collezioni, quelle ricevute sul film “Woodshock” delle sorelle Kate e Laura Mulleavy, sigla creativa di Rodarte presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, avrebbero dovuto insospettirmi: “Una desolazione ipnotica dell’isolamento, della paranoia e del dolore che esiste nel mondo interiore dai tratti onirici della protagonista”. Nessuno conosce un mondo interiore che sia fatto di tratti reali, Carl Gustav Jung ci spese attorno una vita e non ne venne a capo, però è anche noto che la moda non cerca, né vende, armonie fra segno e parola, bensì oggetti spacciati per rappresentazioni emotive. Questo, cioè immagini e suoni in luogo di parole e storie, infila di solito in forma eccentrica, cioè non consequenziale, in tutte le sue comunicazioni extra-sartoriali, come pubblicità e musica. E questo sta facendo da qualche tempo anche al cinema dopo un secolo speso a vestire star isteriche, depresse o sovrappeso nel secondario reparto costumi o a farsi pubblicità diffondendo le riprese delle sfilate o delle proprie feste a tg compiacenti e magazine video a caccia di sponsor. Grande cinema e grandi investimenti nel ruolo principale del regista, sulla falsariga di Tom Ford che è diventato una vera ossessione, Fucking fabulous, come il nome del profumo che ha lanciato a New York poche ore fa e che ha già mandato ai pazzi per l’invidia tutta la categoria, perché è dai tempi dei surrealisti di Elsa Schiaparelli e del suo Shocking che non usciva una fragranza dal nome così irriverente e azzeccato, garanzia di successo. Da quando Tom Ford presentò il suo primo lungometraggio al Lido nel 2009, “A single man” ispirato all’omonimo romanzo di Christopher Isherwood e premiato con un Leone d’oro al protagonista Colin Firth, tutti gli stilisti accarezzano il sogno di presentarsi con un loro lungometraggio alla Mostra del Cinema di Venezia che, essendo la rassegna più antica del mondo organizzata in una delle città più belle del mondo, è anche la più quotata fra la gente della moda (Cannes serve per fare affari anche nel coté fashion, Venezia per darsi lustro). Tutti ambiscono a salire sul palco per vedersi consegnare il Gran Premio della Giuria come accadde a lui lo scorso anno per “Nocturnal animals” e ad essere nominato agli Oscar, sempre come lui. Per questo investono milioni di dollari e per questo, e per farla breve, sabato scorso mi sono diretta in sala Giardino, l’edificio un po’ discosto dal palazzo del Cinema e dal Casinò dove il direttore della Mostra, Alberto Barbera, fa proiettare quel genere di lungometraggi e di documentari che mostrare in Sala Volpi equivarrebbe a una provocazione per i palati fini che seguono la mostra dalle otto del mattino alle undici di sera, per assistere alla prima proiezione di “Woodshock”. Non me ne sono andata fin quasi alla fine per non disturbare le due creature alla mia destra e alla mia sinistra, addormentate secche dal minuto dieci. La collega del Foglio massima esperta di cinema e, dunque, anche dei modi più efficaci per mettersi in salvo al primo sbadiglio, si era strategicamente piazzata in un angolo e dunque si è risparmiata le inquadrature di Kirsten Dunst, amica intima delle due stiliste e produttrice esecutiva del film, mentre appanna il vetro dello specchio del bagno con il fiato, mentre pulisce l’appannatura del vetro del salotto con il dito, mentre soffia aria sul ripiano della cucina in compensato e mentre fiata ancora sulle cartine della cannabis mista veleno con cui cerca di suicidarsi dopo aver fatto suicidare mamma e altri disperati di cui uno per errore, il tutto in mutande e reggiseno ogni volta diversi e, va da sé, parecchio graziosi.

 

Nella musica ossessiva e ossessivamente ripetuta di una sfilata, i dialoghi vi trovano pari dignità, cioè zero: a occhio e croce quattro paginette su un paio d’ore di girato, con i due co-protagonisti maschili Joe Cole e Pilou Asbaek, bellocci e molto in ascesa, lasciati soli a gestire il computo spicciolo della morte venduta nei vasetti di vetro di design con etichetta compilata a mano, un po’ monsieur Homais un po’ invito elegante. Dialoghi e sinossi, e in questo c’è dell’incredibile, sono praticamente equivalenti: quanto hai dormito, vieni subito a lavorare in negozio, gli hai dato le erbe sbagliate ed è morto cazzo, te la senti di rifarlo, perché hai piantato i paletti nel prato, che cosa hai fatto Theresa. Theresa, Theresa. Ecco, non dovrei aver dimenticato niente, avete certamente capito l’intreccio che anche nei film emozionali come questo, tutti flash in colori acidi, scarti di pellicola e velature, dovrebbe avere un minimo di rilevanza, altrimenti tanto vale piazzarsi davanti alle luci stroboscopiche di una qualche discoteca vecchia maniera fino a farsi bruciare gli occhi senza dover vedere la Dunst che levita nei boschi della California. Comunque, se voleste verificare quanto scritto senza perdere tempo al cinema, il film esce fra una settimana, potete guardare il trailer sul web. Dura un minuto e, al contrario del resto, è assolutamente perfetto. Possiede i tempi, il montaggio e la struttura del fashion film che, in effetti, è e che se le due sorelle Mulleavy non avessero voluto trasformare a tutti i costi in un lungometraggio, avrebbe anche potuto non essere male. Sessanta secondi sono infatti più che sufficiente per riconoscervi i tributi che le due sorelle Mulleavy hanno piazzato su un’estensione di due orette, dal cinema sperimentale anni Sessanta al Nicolas Roeg di “A Venezia un dicembre rosso shocking”, pezzo forte della cinematografia anni Settanta con Donald Sutherland, fino ai due film di riferimento della stessa Dunst, “Il Giardino delle vergini suicide” di Sofia Coppola e “Melancholia” di Lars Von Trier, che è anche l’ispirazione più evidente e immediata, visto che i manifesti dei due film sono praticamente sovrapponibili o, come si direbbe nella moda senza ricordarsi di citare anche Baudelaire, connessi da segrete corrispondenze.

  

Quelle iene di Variety hanno liquidato il film come “the misery chic of the marijuana boutique”, perfido e azzeccatissimo calembour in rima. Si sono, anzi, spinti oltre, domandandosi come mai siano dopotutto così pochi i designer che diventano registi, visto che la loro “arte della libera immaginazione, con l’elemento umano aggiunto nel ruolo di attivatore” pare così cara alle audience paganti: un temerario richiamo alla pochezza delle sceneggiature in circolazione ma anche alla ragione ultima dell’infinità riproducibilità della cinematografia targata moda.

  

Dici fashion film e sai già a che cosa vai incontro: sguardi fissi o persi nel vuoto, atmosfere rarefatte o, per contro, artatamente sporche; generici mondi interiori, cioè assoluta noncuranza per un racconto minimamente verosimile o una trama interessante, e una ricchissima congerie di oggetti e di corpi inquadrati nella più efficace luce possibile. “Il fashion film è una riflessione sulla bellezza”, dice, in un tutorial rintracciabile nella sezione dedicata sul canale web Vimeo, uno dei registi che lavorano per I-D, da decenni magazine di riferimento del mondo cool di cui sopra: modelle che si atteggiano, truccatori che truccano a ritmo continuo, direttore della fotografia sovreccitato, vestiti e accessori sparsi ovunque, un sentimento diffuso di superiorità: la quintessenza della moda in quello che lo sconosciuto ma certamente celebratissimo regista definisce “un corso intensivo al nostro stile”, e che non è nulla di diverso da quanto potrebbe dire una delle infinite ragazze carine che, sempre sul web, insegnano a farsi la manicure applicandovi brillantini e fiori, sebbene eviti di farlo per non perdere accessi e fan. Insomma, il fashion film è in genere pubblicità che non osa pronunciare il proprio nome, ma che anzi vuol darsi patenti di nobiltà e di cultura senza possederne davvero nessuna. In tutto questo, come ovvio, Tom Ford c’entra nulla: fashion film maker non è mai stato e ha sempre saputo calibrare mezzi e scopi espressivi allo scopo: per raccontare l’evoluzione di Gucci da pecionata araba a marchio dell’internazionale del cool, nei primi anni Duemila si affidò addirittura al singolo scatto fotografico, nemmeno un’intera campagna, di un ragazzo inginocchiato davanti a una modella con il pube rasato a forma di G, ritenendolo più che sufficiente per scatenare una rivoluzione e come in effetti avvenne. Da regista, oggi lo si può accusare al massimo di una forte attenzione all’estetica, certo non di contrabbandare l’ossessione per la bellezza con una storia credibile o una ricerca interessante.

   

Eppure, da genere coevo ai primi film muti e che si è sviluppato in sottotraccia a questi, un po’ come il porno al quale molto assomiglia nella componente voyeuristica – cercate negli archivi della Cinémathèque di Parigi o della Library of Congress di New York e ne troverete di datati 1909 e tutti di gran firma – il fashion film si è trasformato in pochi anni in un genere di colossale successo, che una moltitudine di studenti di moda ritiene di poter approcciare con facilità, nella scellerata convinzione che la loro durata, in genere tre, cinque minuti, equivalga alla loro facilità di esecuzione. Grazie all’esigenza delle aziende di attirare nuove audience attraverso il web, o all’interesse di ordine mecenatesco di gruppi come Prada per la riflessione sui film di genere, vedi la rassegna Miu Miu Tales, il fashion film è dunque assurto al genere di categoria.

  

In Italia viene celebrato addirittura da due festival, sdoppiati come da prassi fra Roma e Milano, e di cui quest’ultimo è giunto alla quarta edizione. Verrà inaugurato a giorni al cinema Anteo. Vi accorreranno gli stessi volti giovani e pazzi di moda che ho visto dormire placidi e profondi alla proiezione di Woodshock: perlopiù millennial ed esponenti della “generazione z” abituati alle comunicazioni rapide degli smartphone e alla semantica elementare e sintetica dei gruppi Whatsapp. La durata dei tre, cinque minuti è, in genere, il massimo che possano tollerare. Buona parte di questo pubblico, della moda e dei fashion film amano principalmente l’allure, cioè l’idea che siano stati realizzati da registi “up and coming”, cioè emergenti, che possano citare per sentirsi parte di un mondo elegante, raffinato e colto senza dover pagare il fio della visione effettiva dei film di Antonioni, di Roeg o di Lars von Trier a cui questi film ufficialmente si ispirerebbero e che in ogni caso tutti citano a più non posso. Poi ci sono i cinefili, meravigliosamente numerosi anche in queste fasce di età, come è facile constatare alle file intirizzite e stropicciate per la prima proiezione del mattino alla mostra, che invece vanno a vedere le esercitazioni delle sorelle Mulleavy e i fashion film ovunque si trovino innanzitutto per dare sfogo alla propria ossessione per il cinema e quindi per dovere, putacaso si perdessero il capolavoro del momento di cui tutti parleranno.

  

Di solito, mentre alla fine delle proiezioni i primi tacciono, un po’ per ignoranza, un po’ per non confessare di essersi annoiati da morire e di preferire un Vanzina, che si recheranno a vedere vestiti in modo anonimo, i secondi sono i più disposti a trovare giustificazioni, a stabilire collegamenti, a lenire e magnificare come entomologi: mi ha fatto quasi tenerezza il giovanissimo collega che ha identificato un richiamo a una vecchia campagna americana contro l’uso di droga nella scena in cui Kirsten Dunst getta un intero vassoio di uova nel lavandino (“that’s what drugs do on your brain”): è bello constatare la volontà di tanti di trovare sempre qualcosa di buono, di salvare quanto è possibile, di non alzarsi e andarsene senza aver visto anche l’ultimo secondo di pellicola, contenesse magari i semi dell’immortalità. Ed è assolutamente fantastico che venga fatto da ventenni. E’ un atteggiamento che dà speranza, anche se non necessariamente per il cinema.

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