Stefania Sandrelli con due fotografi al seguito nei primi anni Sessanta. Una delle immagini in mostra al Centro italiano per la fotografia di Torino, fino al 7 gennaio

Scatto con fuga

Maurizio Stefanini

Cosa non si faceva per una foto nella Roma dei divi e della Dolce vita “Arrivano i paparazzi!”: dagli schiaffi al digitale, una mostra a Torino

Con pizza, spaghetti, mafia e le parole della musica, è il vocabolo italiano più diffuso al mondo. Lo lanciarono un regista romagnolo e uno sceneggiatore abruzzese in un film che era ambientato a Roma. Quella Roma del boom che oggi è iconicamente associata proprio a quel titolo. Il cognome del personaggio era stato preso dalla Calabria. In compenso, parlava veneto: un veneto anche singolarmente aggressivo, tenuto conto della tradizionale immagine di bonomia associata a questa parlata. “Mi no te dago niente”: a un vip fotografato, che dopo averlo fatto bloccare fuori da un ristorante esige da lui il rullino. “Brava, la pianza la pianza”: alla signora dei bambini che dicono di aver visto la Madonna, che le lacrime fanno più colore. A Torino, allestita da Camera - Centro italiano per la fotografia, si può vedere in questi giorni, e fino al 7 gennaio 2018, “Arrivano i Paparazzi! Fotografi e divi dalla Dolce vita a oggi”.

  

La Roma del Boom in cui fu ambientato il film diretto da Federico Fellini e scritto da Ennio Flaiano è appunto, da quel 1960 e per i secoli a venire, la “Roma della Dolce vita”. E un fotografo specialista in immagini “rubate” come il veneto, interpretato da Walter Santesso, che accompagna il protagonista Marcello è per i secoli altrettanto a venire un “paparazzo”. Anche se in inglese si dice “paparazzi” al singolare, e “paparazzis” al plurale. Inglese era peraltro proprio lo scrittore Giorgio Gessing, nel cui libro “Sulle rive dello Jonio” Flaiano scovò il nome dell’albergatore Coriolano Paparazzo, presso il quale il viaggiatore aveva soggiornato nel 1897. “Ora dovremmo mettere a questo fotografo un nome esemplare perché il nome giusto aiuta molto e indica che il personaggio vivrà”, gli aveva spiegato Fellini, ricordando i due anni impiegati da Flaubert per decidere che Madame Bovary doveva chiamarsi Emma. Così, per lo meno, racconta Flaiano, e il libro di Gessing corrisponde. Ma a Fellini forse piaceva confondere le acque, così una volta fece raccontare a Giulietta Masina che si era trattato di una crasi tra pappataci e ragazzi: ragazzi zanzare, nel senso di fastidiosi.

 

E un’altra pista disseminata è stata quella delle valve delle vongole nell’abruzzese natale di Flaiano: paparazze, il cui apri e chiudi ricorderebbe l’obiettivo delle macchine fotografiche. In inglese sono comunque almeno una dozzina gli “omaggi” che la musica pop ha dedicato al “paparazzi”: dal “Sun King” che i Beatles inserirono nell’album “Abbey Road” del 1969 alla “Paparazzi” dell’album di esordio di Lady Gaga. “Omaggi” tra virgolette, perché poi sono per gran parte vendette di star perseguitate. “Scatta, flascia / Ruba un cammello per un giorno / Fai titolare la storia a caratteri di scatola / il paparazzo stanotte non tornerà a casa”, è ad esempio la descrizione di un fotografo appostato che “Paparazzi” dei Jethro Tull fa nel 1984. “Ho bisogno di privacy, ho bisogno della mia privacy / paparazzi, lasciatemi stare”, implorava nel 2001 Michael Jackson in “Privacy”. “Sono Miss Sogno degli Americani da quando avevo 17 anni / non importa se sono presente sulla scena/ o se me ne vado furtivamente nelle Filippin e/ i giornali continuano ad avere le foto del mio sedere/ volete un pezzo di me?”, “sono la Signora ‘volete un pezzo di me?’ / cercando di togliermi dalle palle / beh essendo conforme con i paparazzi / chi è che mi sta mettendo da parte? / sperano che finirò con l’autodistruzione / e che mi accomodi in tribunale / adesso siete sicuri che volete un pezzo di me?”, si lamentava Britney Spears nel 2007 in “Piece of me”. Mentre Lady Gaga nel 2008 cantava: “Sono la tua più grande fan / ti seguirò finché non mi amerai, / papa-paparazzi / tesoro, non c’è nessun’altra superstar / che sappia che io sarò / una papa-paparazza / ti prometto che sarò gentile / ma non mi fermerò finché il ragazzo non sarà mio / tesoro sei famoso / e ti seguirò finché non mi amerai, / papa-paparazzi”.

  

“A Paparà, qui ce scappano gli sganassoni”, avvertiva d’altronde un collega durante una scena del film di Fellini. “Morte ai paparazzis” fu il grido che echeggiò giusto vent’anni fa ai funerali di Lady Diana: romantica ma nevrotica principessa, uccisa peraltro più da un autista ubriacone che dall’insistenza dei fotografi. E le recenti disavventure giudiziarie di Fabrizio Corona potrebbero rappresentare l’ideale epitaffio su una figura professionale anch’essa martoriata dalla più generale crisi della carta stampata: anche se lo stesso Corona ha sempre insistito che lui personalmente di foto giornalistiche in vita sua non ne avrebbe mai scattata nemmeno una. Ma anche molte delle centocinquanta immagini con cui Camera cerca di raccontare questa “epopea della fotografia rubata” sono piuttosto, come dire, “fisiche”. Del 1958 è ad esempio una frequenza in tre immagini di Tazio Secchiaroli in cui si vede Anthony Steele – allora marito di Anita Ekberg – che interrompe il gesto di chiudere alla moglie la portiera posteriore dell’auto, per scagliarsi contro i fotografi con scatto appunto da ex-ufficiale dei paracadutisti di Sua Maestà: come era stato durante la guerra contro i giapponesi. Pure del 1958 è la ancora più famosa immagine di Walter Chiari che si lancia proprio contro Tazio Secchiaroli: stavolta l’autore dello scatto è invece Elio Sorci. Di Ezio Vitale è una terza immagine del 1958, che immortala ancora un ghignante Tazio Secchiaroli armato di macchina fotografica, in agguato dietro a una 1100.

  

“Sai cos’è un paparazzo? Un animale con la Kodak!”, spiegava una popolare freddura. Nato a Roma nel 1925 e morto pure a Roma nel 1998, Tazio Secchiaroli non fu, tecnicamente, l’inventore del modello. Il prototipo fu invece piuttosto Adolfo Porry-Pastorel: nato a Vittorio trent’anni prima che con la battaglia finale della Grande guerra il comune trevigiano prendesse definitivamente lo squillante appellativo di Vittorio Veneto; nonno francese; nonna inglese; lanciato dal famoso direttore del Messaggero Ottorino Raimondi; fondatore nel 1908 di quella agenzia Vedo (Visioni editoriali diffuse ovunque) che lo portò a anticipare i fasti della Dolce vita in piena Belle époque; in seguito immortalatore di Benito Mussolini, dalle grandi parate alla Battaglia del grano e all’intimità della propria casa; morto infine proprio nello stesso 1960 del film di Fellini. Perfino con il duce riusciva a non fare mai foto ufficiali, ma a “rubare” dietro le quinte le situazioni più spontanee e imprevedibili. In compenso, negli ultimi otto anni di vita fu il posato sindaco di un piccolo comune vicino a Palestrina. Tazio Secchiaroli era invece il figlio di un muratore marchigiano che lo aveva lasciato orfano a soli 14 anni. Costretto fin da piccolo ad aiutare la famiglia con lavoretti da garzone e fattorino, quando uno zio gli regalò una macchinetta scoprì che poteva guadagnare di più come fotografo ambulante. Di scatto in scatto, alla fine fu presentato alla Vedo e a Porry Postorel. E ne diventò l’allievo, l’amico e l’erede. Il Paparazzo di Fellini e Flaiano, in pratica, è Secchiaroli, forse con l’accento veneto di Porry Postorel.

  

“Sono fotografie che hanno segnato per sempre la percezione popolare dei personaggi pubblici, attori, cantanti, politici”, spiegano i curatori di “Arrivano i Paparazzi!”. “Donne soprattutto. ‘Rubate’ dei momenti privati, quando, smessa la maschera del ruolo, ridiventano persone (quasi) qualsiasi”. Nella mostra non poteva infatti mancare quella celebre immagine sempre del fatidico 1958 e sempre di Secchiaroli, in cui venne immortalato lo spogliarello di Aïché Nana al Rugantino: anch’esso poi ispiratore di una famosa e discussa scena della “Dolce vita”. Certo: rivisti oggi – in questa nostra epoca di lap dance in perizoma e tanga – quei mutandoni neri fanno ormai più tenerezza che scandalo. Buone cose di pessimo gusto: come le crinoline di Gozzano, e come le immancabili e impeccabili giacche e cravatte dei protagonisti di questa e altre immagini. D’altronde, tra loro e il nostro regno dell’eterno casual ci separano ormai più anni di quanti non ne separassero loro dalle trincee della Grande guerra. Eppure, un qualche eterno ritorno alla Friedrich Nietzsche deve esserci davvero: o basta solo il comune dna armeno per spiegare la giunonica affinità di forme tra Aïché Nana e Kim Kardashian?

 

Talmente protagonista da essere allo stesso tempo fotografo e fotografato, fondatore nel 1955 della celebre Roma Press Photo, Tazio Secchiaroli oltre ai vip ritrasse anche le manifestazioni, la povertà, i pellegrini dell’Anno Santo. I suoi scatti di Piero Piccioni e Ugo Montagna ripresi insieme furono addirittura usate come prova durante il processo Montesi. Primo fotoreporter del cinema nell’epoca in cui Cinecittà fronteggiava Hollywood quasi da pari a pari, non c’era comunque solo lui. “Arrivano i Paparazzi!” ci ricorda ad esempio anche il nome del reatino Marcello Geppetti, classe 1933. Sua l’immagine del 1959 di Don Gussoni che cerca di strappare la fotocamera al fotografo Giacomo Alexis. Sacerdote italiano piuttosto noto che era stato negli Usa e sarebbe poi andato a fare il missionario in Messico, Gussoni era stato sorpreso con un enorme cappottone sull’abito talare all’uscita di un locale notturno in cui aveva fatto bisboccia con dieci ballerine in un colpo solo. Quasi a anticipare la famosa canzone di Lucio Battisti: peraltro, reatino anche lui. Di Geppetti anche una foto del 1960 dove Anita Ekberg da Venere della Fontana di Trevi si trasmuta in una Diana che minaccia i paparazzi con arco e frecce, e un’immagine del 1961 con Alain Delon che balla con Romy Schneider.

  

Poi ci sono Lucien Benedetti e Marina Meucci contro un fotografo – preso letteralmente a schiaffi. Altri fotografi in attesa in Via Sistina, o che assaltano l’auto di Soraya. Sofia Loren che si copre la faccia mentre scende all’aeroporto di Ciampino di ritorno dagli Stati Uniti. Una Brigitte Bardot in minigonna che esce dall’Hotel Forum: anche lei con sullo sfondo altri fotografi quasi più protagonisti di lei. Pure con un paio di fotografi al seguito è una Stefania Sandrelli dei primi anni Sessanta, mentre in uno dei due scatti fatti a New York da Ron Gallella a Jacqueline Kennedy Onassis il 7 ottobre 1971 il noto paparazzo che cammina con la faccia coperta dalla macchina fotografica è importante quanto la vedova presidenziale. Come spiegano i curatori Walter Guadagnini e Francesco Zanot, se la Roma della Dolce vita ha dato il via, col tempo “compaiono sulla scena altri personaggi, le situazioni si fanno più scabrose, il gusto della sorpresa e dell’assalto che caratterizzava i paparazzi si trasforma in uno sguardo da lontano, più voyeuristico”.

  

“Esemplare è, a questo proposito, la vicenda di Jackie Kennedy (poi Onassis), autentica icona della stampa di costume e scandalistica. Negli anni Sessanta il suo volto è immortalato in alcuni scatti di Ron Galella mentre passeggia tranquillamente e inavvertita per le vie della città, ma nel decennio successivo diventa preda di una serie di servizi che la mostrano senza veli, in situazioni private, creando così un caso internazionale”. Anche se ora sappiamo che lo scandalo lo aveva commissionato proprio il secondo marito: apposta per levarsela di torno in un momento in cui il loro rapporto era ormai declinante e l’esosità di lei invece in pieno zenith. Settimio Garritano era il fotografo che l’aveva ritratta nuda mentre prendeva il sole in vacanza, in una sequenza poi finita nelle riviste per soli uomini.

  

Da un decennio all’altro, nel 2003 è David Bowie che abbracciato a Kate Moss cerca di coprire con la mano l’obiettivo di Ellen von Unwerth: una grande fotografa donna, protagonista del mondo della moda. Ma, spiegano sempre i curatori, “il cambiamento radicale nella comunicazione avvenuto con l’avvento del digitale muta ancora una volta il panorama di questo ‘genere’; allo stesso tempo si modificano anche i soggetti sul palcoscenico della realtà, poiché non sono più tanto gli attori a catalizzare l’attenzione dei fotografi, ma le figure del potere, politico e non solo”. Sul finale, le immagini in cui l’inglese ha ricostruito scatti apparentemente rubati a personaggi celebri, ma in realtà evidentemente inventati. Alcuni a ricostruire scene che probabilmente ci sono state davvero, come una Marilyn Monroe che si spoglia davanti a John Kennedy. Altri invece del tutto surreali, come la stessa Marilyn Monroe che va a fare shopping assieme a Lady Diana. Ormai, anche i paparazzi sono entrati nell’era del virtuale.

Di più su questi argomenti: