Leland Stanford Jr

Start-up Stanford

Michele Masneri

Come dalla morte di un figlio tanto atteso nacque la più prestigiosa università della costa ovest. E da lì tanti Nobel e Silicon Valley

Senza la malasanità italiana la Silicon Valley non esisterebbe. Fu infatti un’epidemia di tifo malcurato a Napoli e poi a Firenze a creare l’università di Stanford e i suoi derivati. Il morbo come tutti sanno colpì il giovane Leland Stanford nel 1884, mentre compiva come tutti i gentiluomini dabbene il suo grand tour europeo. Erede di una grande fortuna costruita dal padre, Leland Stanford Senior, senatore degli Stati Uniti, governatore della California, baron robber in purezza: poi inconsolabile per la morte di quel figlio unico, figlio tanto atteso, cui destinare le fortune di casa. Fortuna ferroviaria, la prima locomotiva della Pacific Union si intitolava “Governor Stanford”, poiché il governatore aveva fondato la Southern Pacific Railroad (ma poi, a cascata, nei consigli di amministrazione di Wells Fargo, industrie, compagnie di battelli a vapore). Tutto questo toccava al figlio, compresa la vasta fattoria dove il padre allevava cavalli e vacche, diciassette chilometri quadrati in una zona famosa per le albicocche.

 

Ed è ancora chiamata “The Farm” questa augusta università che sforna talenti e start-up come nessun’altra (sessantaquattro premi Nobel, incubazioni tecnologiche infinite). Primipari attempati, gli Stanford: 44 anni lui, 40 la moglie Jane; poiché avevano perso il loro, avrebbero allora allevato in questi tremila ettari “tutti i figli della California”. La “farm” doveva essere inizialmente solo facoltà di Agraria. Poi si estese ad altre materie, aprendo alle donne, soprattutto alla interazione tra vari studi, con laboratori e dipartimenti diversi uno attaccato all’altro, una novità per l’epoca. Sonnecchiando però fino agli anni Quaranta, quando grazie alla Seconda guerra mondiale diventa l’università tecnologica per eccellenza: il professor Frederick Terman, genere “Attimo fuggente” ma balistico, incoraggia gli studenti a brevettare e vendere le proprie invenzioni. Mette su un team di 800 studiosi per capire come funzionano i radar tedeschi. Soprattutto inventa il modello universitario-militare-startupparo che è il segreto di Silicon Valley; i suoi allievi William Hewlett e David Packard mettono su una piccola compagnia chiamata Hp (il garage oggi è monumento nazionale o almeno comunale, bisogna attraversare il vialone con le palme, prendere un Uber e arrivare fino a una sequela di villette basse con giardini perfettamente curati ed ecco la targa: “qui nacque Silicon Valley”).

 

Senza quella febbre tifoide, oggi la fattoria produrrebbe ancora albicocche, sarebbe stata magari espropriata, lottizzata, deprezzata, invece d’essere inestimabile come valori morali e immobiliari. E il computer l’avrebbero magari inventato sull’altra costa, con cui si è sempre rivaleggiato. Invece basta uscire dal vialone tipo Champs Elysées però con palme che porta direttamente in paese, a Palo Alto, alle strade dei venture capital di Sand Hill, alla grande Brianza californiana tra accademia e fabbrichette. Qui intorno è tutto un fiorire di colossi (Google, Hp, Apple, Facebook), di futuri colossi (Tesla), ma anche “nomi importantissimi ma che nessuno conosce nel settore aerospaziale”, ci dice un illustre concittadino, il professor Marco Pavone, neanche quarantenne, docente qui di Astronautica, da Catania: dirige il laboratorio di Sistemi autonomi, è stato premiato da Barack Obama come uno dei 100 scienziati più promettenti d’America. Nel suo edificio di laboratori, cartelli “basta col regime fascista di Trump e Pence!”, anche se Stanford non è mai stata gruppettara come Berkeley, l’altro grande ateneo della California del nord. Il professore ha fatto il suo dottorato all’altrettanto prestigioso Mit, sull’altra costa. Però, spiega, “Stanford ha due vantaggi. Primo, qui c’è meno competizione. Non c’è l’idea che ognuno deve diventare un luminare nel suo campo, c’è più spirito di collaborazione. Non che gli studenti non siano ambiziosi, chiaro: ma l’obiettivo loro è fondare la nuova Google, e sanno che questo non si fa da soli. Secondo, è un’università e non un istituto di tecnologia; ci si può quindi confrontare così tra studenti di materie diverse e affrontare problemi sotto diversi aspetti: scienze politiche, economia, legge, filosofia, questo è importante soprattutto in un momento in cui l’ingegneria sta diventando sempre più centrale nella società”. Auto senza conducente, droni, tutto qui si assembla, ma a Stanford c’è anche l’umanesimo. Pavone gestisce quindici collaboratori nel suo studio in cui si aggirano robot sperimentali (c’è anche una rete tipo campo da calcio perché i droni non volino via), e fa parte del Cars, il gruppo di ricerca di Stanford che collabora con le case produttrici studiando gli sviluppi dell’auto del futuro. 

 

Fu un'epidemia di tifo malcurato a Napoli e a Firenze a colpire il figlio del governatore della California Leland Stanford nel 1884

“Stanford è anche una delle università più ricche”, dice. “L’‘endowement’, cioè il capitale o tesoretto, è di 22,4 miliardi di dollari”. Quando nacque, però, ci si trovò subito di fronte a problemi di bilancio; l’immensa ricchezza degli Stanford, calcolata in 1 miliardo attuale, non bastò, era il famoso passo più lungo della gamba di fronte a un’opera anche urbanisticamente colossale. Quando il fondatore muore (1893) l’impresa barcolla, va avanti la moglie con piglio da rezdora, completa il grandioso masterplan affidato al primario studio di archistar bostoniane Shepley, Rutan, and Coolidge, esperti di stazioni, biblioteche, uffici dei telefoni, con una monumentalità laterizia-celebrativa ispirata naturalmente ai rivali di Harvard. Il risultato però è un villaggio tra il messicano e il Coppedé, con un romanico californiano che svetta con le palme e le Prius che sfrecciano. Arrivando da Palo Alto da questi campi elisi del microchip ecco una rotonda e poi la ciclopica entrata con arco a tutto sesto.  Ecco la Memorial Court con questi portici molto bassi e enorme arco neogotico un po’ Neuschwanstein; mentre in un angolo un gruppo bronzeo di Rodin: e nelle vastissime aiuole rotonde svettano palme altissime.

  

In fondo, l’enorme chiesona eretta dai religiosissimi coniugi Stanford, cattolici romani, come culmine della memorialistica filiale: chiesona però un po’ romanica e un po’ bizantina tipo Santa Maria in Trastevere con facciata d’oro e figurine a girali d’acanto. Sopra, un’ultima cena molto pop, e al vertice un Gesù assai biondo, surfista, con le braccia aperte e dietro palme e montagne che pare Palm Springs. Giù, la prima di tante lapidi, questa dedicata al giovine Stanford perito in Italia; dentro, invece, tanti omaggi lapidei dalla moglie al marito (1824- 1893) dietro la stessa colonna in caratteri dorati, alla vecchia suocera Elizabeth Stanford (1791-1873). Tra le finestre con scene del Vangelo opera della vetreria veneziana Salviati, sull’altare, un coro di mosaico dorato termale. La cappella è pronta nel 1903, dunque grandi inaugurazioni, ma dopo soli tre anni viene giù tutto col famoso terremoto. Studenti morti, anche. La vedova Stanford non si perde d’animo e rifà però tutto coi vetri veneziani e il resto; il risultato è ancora più novecentesco e Disney; pianta a croce greca e due navatine laterali con sopra dei loggioni già da cinema-varietà. Un pianoforte a coda col suo panno sopra. Scranni con microfoni incorporati. Alle pareti scolpite nella pietra iscrizioni di buon senso di casa Stanford (“la religione è una cosa molto importante nella vita di un ragazzo” con una font tipo Garamond). Nell’atrio il calendario annuncia fittissimi programmi di messe in “rito cattolico romano”. Una targa d’ottone nell’atrio ricorda i benefattori dell’ultimo terremoto, quello del 1989. Signore e signora Hewlett e Packard ovviamente in testa. Dentro, solo cinesi a farsi delle foto, e una sola famiglia di americani in canottiera, con un volpino nel passeggino.

 

Marco Pavone, catanese di 40 anni, docente di Astronautica, ha fatto il dottorato al Mit, "ma qui c'è più spirito di collaborazione"

Fuori,lasciato questo surreale sagrato nel deserto agostano, le vie hanno tutte nomi latinos (Escondido, Duenas): sembra un labirinto di Fontanellato ideato da un seguace del Nome della Rosa. Le pietre e gli archetti nascondono centraline elettriche, depositi attrezzi, anche dei bellissimi bagni pubblici d’epoca fine Ottocento, con le piastrelline bianche e fughe nere e box di legno. Di fronte a tutta questa meraviglia, i soliti rimpianti: ah, perché non essere nati a Palo Alto, invece che a Brescia.

 

Però “entrare a Stanford è molto difficile, il numero di ammessi è intorno al 4 per cento del totale” dice il professore. Devi essere miliardario? “No, quello no, anzi. E’ una delle più eque d’America. Quasi tutti gli studenti non pagano, le ammissioni vengono fatte indipendentemente dal reddito, se la famiglia guadagna fino a 125 mila dollari hai sia la retta che l’alloggio gratis”. “Stanford ha anche molti programmi per integrare studenti disagiati” dice il professore. E nella patria del caro-immobiliare l’università prevede non solo l’alloggio gratuito (peraltro in queste bellissime palazzine di stile messicano-versiliano all’ombra delle palme). Per i docenti c’è anche la possibilità di una casa in Silicon Valley nelle enormi proprietà dell’accademia. “Ci sono mutui agevolati, soprattutto c’è questo sistema per cui il terreno del campus rimane di proprietà dell’ateneo, ma tu puoi comprare la casa con un lease di novantanove anni, come in Inghilterra” dice il professore. “In questo modo i prezzi vengono calmierati e si può vivere qui anche se non si è miliardari”.  

 

E’ noto infatti che la terra e le case hanno prezzi micidiali qui intorno (7,5 milioni di dollari all’ettaro, tipo Brunello di Montalcino). Così, tenere i professori a chilometro zero è difficile.  “L’Università sta avendo problemi ultimamente a conservare i propri docenti, perché le aziende offrono stipendi molto più alti. E spesso comunque se scegli l’azienda non cambi veramente lavoro, vai a dirigere un gruppo di ricerca, seppur in una start-up o in una grande compagnia; è comunque ricerca, anche se più applicata. In certi settori come intelligenza artificiale, robotica, ci sono ancora pochi esperti e dunque sono profili molto competitivi: le aziende ti possono offrire anche un milione di dollari l’anno, e parliamo di uno studente di dottorato”, dice Pavone.

 

La "farm" all'inizio doveva essere solo facoltà di Agraria. Poi si estese ad altre materie, aprendo alle donne e alla interazione tra vari studi

L’università è stata comunque ben frequentata fin dall’inizio: lo studente numero uno si chiama Herbert Hoover ed è l’eroe più celebrato di Stanford. Trentunesimo presidente degli Stati Uniti, gli è dedicato un memorial, oltre a una torre campanaria di 87 metri pinnata come un cofano Cadillac, che svetta sul campus (se non ci fosse la micidiale nebbia siliconvallica, gode della miglior vista della regione), al pianterreno tutti dei cimeli hooveriani, comprese le pagelle. Naturalmente, una storia stupenda. Famiglia povera, dall’Iowa viene sulla costa ovest a fine Ottocento per la corsa all’oro, e si iscrive al primo giorno del primo anno di vita di quella università sconosciuta e però vicina a tutte le miniere, il 1° ottobre 1891. Nel 1895 è il primo laureato della scuola; tutti buoni voti tranne inglese, in cui continuerà per sempre a andare male. Scriverà poi diversi manuali tra cui un “Principles of mining”, farà i soldi, diventerà presidente, verrà commemorato. Ma soprattutto da amministratore dell’Università negli anni Venti rimetterà a posto per sempre i bilanci rendendola indipendente. I soldi sono evidenti ovunque, dalle golf car che sfrecciano al sistema di pullmini gratuiti elettrici (si chiamano “Marguerite”), con lo stemma verde della università, un grande pino, e portano ovunque, ai giardinieri che tosano e innaffiano senza tregua. 

 

Nel mausoleo di Hoover oggi tra turisti stralunati una mostra celebra l’America nella Grande guerra. I soldatini della Silicon Valley si sono battuti tanto anche per noi: l’ateneo perse 77 studenti in Europa; molti dei quali piloti, perché l’aviazione era una disciplina appena nata, e considerata molto cool: col risultato che non solo Stanford e Berkeley, ma anche i rivali di Harvard e le migliori università d’America perdono la loro meglio gioventù. Le associazioni di signore di San Francisco spingono soprattutto i figli della California a combattere per la Francia. Ma Stanford, già all’avanguardia nel settore automobilistico, oltre a tutti i giovani tristi che qui si vedono in foto e diari di guerra, manda in Europa anche cinque ambulanze speciali: costruire sul telaio della Ford T.

 

C’è anche tutta la comunicazione di massa coi poster: è il 1917, finora gli americani non s’erano mai sognati d’intervenire, soprattutto non esistevano Internet né tv, ecco allora i cartelloni come arma di informazione di massa, in attesa dei Facebook e twitter e fake news sempre qui a filiera corta. Nasce lo zio Sam con il celebre “I want you for U.S. Army” prodotto nel 1917 e disegnato da James Montgomery Flagg con la sua stessa faccia (cinque milioni di esemplari). La posteristica di guerra non tralascia niente: “Da quale parte della finestra stai?” dice uno slogan con un signore dandy riluttante nel suo salotto e dietro i soldati in strada; Boy Scout d’America (“ti aiuteremo a vincere la guerra, papà”), donne (“every girl pulling for victory!”, una ragazza vestita alla marinara che rema verso il largo) e addirittura “Gee! Vorrei tanto essere uomo per entrare in Marina!” (e chissà cosa direbbero oggi le signore antisessiste della Valle, capitanate da Susan Fowler, ex ingegnera a Uber, che ha fatto dimettere il suo fondatore: naturalmente, anche lei ha studiato qui a Stanford).

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