Abbandonare la nave

Un ordine riecheggia nel palazzo, e anche la base si sgretola. A Trump restano solo la famiglia e i generali

Dall’inizio della sua avventura politica, l’incostante Donald Trump è rimasto fedele a una strategia elementare per superare i momenti di maggiore difficoltà. Quando è accerchiato o sotto pressione organizza sempre un grande comizio per ricaricare il suo popolo e mostrarsi più forte delle avversità. Questa settimana lo ha fatto a Phoenix, in Arizona, la città in cui aveva lanciato il suo primo evento elettorale, e per 77 minuti ha arringato una folla di oltre 15 mila persone che per entusiasmo e coinvolgimento emotivo ha oscurato le schiere di contromanifestanti assiepate fuori. La logica dell’espediente non è difficile da afferrare. L’Amministrazione perde pezzi uno via l’altro, è il regno dei litigi e dei licenziamenti, delle faide e delle vendette, un luogo talmente sgangherato che l’ex direttore della comunicazione, il disgraziato Anthony Scaramucci, può permettersi di twittare l’immagine modificata della t-shirt classica del turista: “Sono stato direttore della comunicazione per dieci giorni e tutto quello che mi hanno dato è questa maglietta di merda”. Mostrare in diretta la fedeltà del popolo mentre il palazzo si disgrega è il modo con cui Trump riafferma la propria legittimità contro tutto e contro tutti. Questa volta però anche l’estremo tentativo cosmetico di nascondere le cicatrici del governo con il belletto della base entusiasta si è rivelato nella sua inconsistenza. E’ stato addirittura il sondaggista di Trump, Tony Fabrizio, a rendere noto che anche la base, presentata generalmente come un monolite inscalfibile, sta subendo un processo di erosione. Fabrizio ha pubblicato uno stringato resoconto dell’oscillazione della popolarità del presidente e del Congresso fra i repubblicani negli ultimi due mesi, con l’idea di dimostrare che i rappresentanti in Campidoglio godono di fama ben peggiore della Casa Bianca nell’elettorato di destra: “Per tutta la gente della Beltway che si frega le mani sul presidente e la base del partito repubblicano. Sono i conservatori al Congresso che stanno perdendo la base”, ha twittato Fabrizio. I dati che ha allegato non sono però molto confortanti per il presidente che, secondo il sondaggista ufficiale, ha perso fra luglio e agosto il 12 per cento dei consensi nel popolo della destra e gode della “totale disapprovazione” di un quarto dell’elettorato più fedele. Che i rappresentanti del Congresso siano perfino più disprezzati dell’inquilino della Casa Bianca non cambia la sostanza politica del problema. I numeri di Trump dicono che il suo popolo si sta assottigliando, la fetta di pretoriani e intransigenti che nessuno scandalo sembrava poter allontanare dall’orbita presidenziale si sta riducendo. Anche la vecchia tecnica di opporre rigorosamente il popolo all’élite, dicendo che l’approvazione del primo cresce all’aumentare del disprezzo della seconda, si rivela come un’equazione fallace nella sghemba matematica di Trump. Fra gli ultrà trumpiani serpeggia lo stesso ordine perentorio che riecheggia nel palazzo: abbandonare la nave.

 

Mostrare in diretta
la fedeltà del popolo mentre il palazzo
si disgrega è il modo con cui Trump riafferma la propria legittimità contro tutti

L’Amministrazione è ormai un quotidiano alternarsi di purghe e di fughe volontarie. A inaugurare l’estate del disfacimento sono stati il capo di gabinetto, Reince Priebus, e il portavoce, Sean Spicer, personaggi strettamente legati all’establishment repubblicano che erano stati tirati dentro l’Amministrazione per fare da cinghie di trasmissione fra i due mondi. Ufficialmente si sono dimessi in polemica con la decisione, presa al solito d’impulso e senza una pianificazione strategica, di nominare Scaramucci come capo della comunicazione. Scugnizzo della finanza con abbondante cattivo gusto e un fiuto eccellente per le cattive frequentazioni, Scaramucci è un animale che trova nel circo di Trump il suo habitat naturale, ma quando si è visto finalmente gratificato per i consigli e il sostegno dell’ultimo anno non aveva considerato l’istinto cannibale del capo. Credeva di essere stato scaltro a ottenere la rassicurazione pubblica che avrebbe risposto direttamente al presidente, aggirando i poteri del chief of staff, e invece Trump lo ha usato per sbarazzarsi dei due e poi lo ha fatto fuori. Anzi, ha lasciato che si facesse fuori da solo lanciando a Ryan Lizza del New Yorker una serie di invettive di inaudita volgarità. Il generale John Kelly, il nuovo capo di gabinetto, gli ha indicato la porta non appena insediato, certamente con l’approvazione presidenziale.

 

C’è chi ha interpretato questo tortuoso valzer come una epurazione dei residui del palazzo repubblicano ispirata dagli ideologi più reazionari e oscuri. Nonostante tutto l’untuoso servilismo verso Trump che Priebus ha apertamente mostrato, è pur sempre stato il capo del partito che il presidente ha promesso di disintegrare, e Spicer è stato a lungo la voce ufficiale del Grand Old Party. La tesi di una purga d’establishment è crollata quando Trump si è liberato anche di Steve Bannon, l’oscuro e cervellotico Rasputin che secondo la vulgata muoveva i fili del governo e combatteva una segreta crociata da romanzo di Dan Brown, con un sistema di presunte alleanze e influenze che vanno dal cardinal Burke a Julius Evola. Con il ruolo ambiguo di “capo della strategia” gli aveva dato massima libertà di intervenire su qualunque dossier, e fra le polemiche lo aveva autorizzato a sedere nei piani più alti del consiglio per la sicurezza nazionale. L’opposizione sui due fronti dei generali, capitanati dal consigliere McMaster, e del team dei “globalisti” goldmansachsiani che fanno capo a Gary Cohn, hanno nel tempo perimetrato l’influenza del dinamitardo consigliere, che comunque rimaneva agli occhi di tutti un immortale. Anche perché Bannon, dettaglio non secondario, era stato messo a capo della campagna elettorale e poi elevato a uberconsigliere dalla famiglia Mercer, una genia di miliardari poco mondani e molto intraprendenti che nello spettro ideologico si posiziona a destra dei fratelli Koch e delle altre stirpi conservatrici tradizionali. I Mercer sono stati i veri finanziatori di una campagna che il candidato non ha voluto assolutamente sponsorizzare, nonostante millantasse che ogni centesimo veniva dalle sue tasche e nulla era stato attinto dai vecchi pozzi del potere. I Mercer hanno versato immense quantità di denaro e messo a disposizione le risorse informatiche di Cambridge Analytica, una delle aziende controllate dalla famiglia, che si è dimostrata fondamentale per agguantare la vittoria. Bannon era il loro uomo nella Trump Tower e poi alla Casa Bianca, ma anche il fronte nazionalista dei Mercer infine è stato estromesso dal governo. Poco prima dell’ufficializzazione della cacciata, Bannon ha avuto un incontro con Robert Mercer per mettere a punto la strategia da seguire una volta usciti dal cerchio di Trump. In una parola: contrattacco totale.

 

Fuori dalla Casa Bianca, Bannon mette a punto con Robert Mercer
la strategia da seguire. In una parola: contrattacco totale

Breitbart ha iniziato la rivolta con titoli a caratteri cubitali contro la decisione del presidente di mandare altre truppe in Afghanistan, tradimento delle promesse di una postura isolazionista. “Difende il voltafaccia in un discorso tetro”, ha scritto il giornale online. Il direttore dell’edizione inglese, Raheem Kassam, ha esplicitato l’obiettivo dell’attacco: “Il discorso del presidente Trump sull’Afghanistan di oggi è alieno alla sua base elettorale, anche se non era difficile capire quale influenza lo ha spinto verso il lato neoconservatore. La voce di McMaster si poteva udire chiaramente”. McMaster è l’idolo polemico più noto del fronte nazionalista, ma non è certo l’unico. I bannoniani vedono nemici ovunque, fin nella cerchia famigliare che tutto sorveglia e decide. Alex Marlow, direttore di Breitbart, ha riversato tutto l’odio verso Ivanka e Jared Kushner nei termini più crudi a un hacker che via email gli ha scritto spacciandosi proprio per Bannon. Marlow ha promesso solennemente al suo capitano che lui e altri redattori di Breitbart avrebbero fatto per suo conto il “lavoro sporco”, arrivando a millantare dettagli che potrebbero far cacciare la figlia e il genero del presidente dalla Casa Bianca “entro la fine dell’anno”. L’hacker, un “anarchico pigro” che va sotto il nome di Sinon Reborn ha passato lo scambio di email alla Cnn, che ha rivelato i piani di posizionamento politico del network dopo la liberazione dal giogo dei “globalisti” dell’Amministrazione. I rappresentanti del partito vengono esiliati, l’ala populista è estromessa, gli “uomini dimenticati” che son la spina dorsale dell’elettorato di Trump si sono ricordati che non tutto si può tollerare.

 

Rappresentanti
del partito esiliati,
l'ala populista estromessa,
gli "uomini dimenticati" si sono ricordati
che non tutto 
è tollerabile 

Nel frattempo c’è stata la grande fuga dei Ceo dall’orbita di Trump e lo scioglimento improvviso dei consigli economici informali creati del presidente. La gestione ambigua e spericolata dell’atto di terrorismo di matrice neo-nazista di Charlottesville ha reso per molti l’affiliazione al presidente troppo tossica per essere sostenibile. Non condannare in modo univoco, chiaro, riconoscendone il movente, un suprematista bianco che si getta con l’auto a tutta velocità contro i manifestanti anti Trump, distribuire la colpa facendola ricadere sulle violenze commesse da “molte parti”, come se la natura dell’evento non fosse autoevidente, ha messo molti in una posizione intenibile. La realtà però è che in tanti erano già molto vicini al parapetto, e aspettavano soltanto un segnale per lanciarsi dal malconcio panfilo del presidente. Julius Krein, direttore della rivista American Affairs, ha ammesso pubblicamente di aver sbagliato nel sostenere Trump. Nessuno come lui si era impegnato per dare una forma ideologica coerente all’incoerenza di un presidente che poteva essere l’interprete inconsapevole di una nuova (ma in realtà vecchissima) idea conservatrice. Al lancio della rivista, in primavera, con l’imprenditore libertario Peter Thiel e la liberal Marie-Anne Slaughter a tirare di fioretto e sotto gli occhi della rossa Rebekah Mercer, gli ospiti di Krein erano riusciti a tenere un dibattito sulle idee conservatrici per più di un’ora senza citare Trump. Impresa notevole che la diceva lunga sull’atteggiamento ambivalente di questa nicchia di pensatori: siamo intellettuali alleati, affiliati del trumpismo, non samurai pronti a fare seppuku per il presidente. Quando a Charlottesville il presidente ha raggiunto il punto di non ritorno, si sono smarcati.

 

Dopo Charlottesville,
il leader del Senato
ha confidato
che non sa quanto l'amministrazione sarà in grado di andare avanti così

Lo stesso ha fatto anche il leader del Senato, Mitch McConnell, che con Trump ha un rapporto teso da sempre, ma con un grande lavoro di mediazione politica e molti occhi chiusi sugli eccessi presidenziali ha instaurato una proficua relazione di convenienza. Stesso discorso vale anche per Paul Ryan, lo speaker della Camera, ma al Senato la maggioranza repubblicana è minima, dunque la posizione di McConnell è cruciale negli equilibri fra Casa Bianca e Congresso. Dopo Charlottesville il dissenso è uscito allo scoperto, e il senatore ha confidato in privato che non sa quanto l’Amministrazione sarà in grado di andare avanti in questo modo. Sono parole simili a quelle che ha detto pubblicamente l’ex direttore dell’intelligence, James Clapper. Dopo che la Casa Bianca ha emesso un comunicato per smorzare il litigio con McConnell e dopo che a Phoenix Trump ha detto che non farà più tweetstorm, ecco che è arrivata puntuale la tweetstorm contro McConnell. L’accusa principale è non aver fatto passare la riforma sanitaria con cui i repubblicani avrebbero potuto sbarazzarsi per sempre dell’Obamacare, ma non solo: “Ho chiesto a Mitch e Paul di inserire il disegno di legge sul tetto del debito in quello sui veterani che è appena passato per una facile approvazione. Non lo hanno fatto e adesso è complicato convincere i democratici ad approvare il tetto del debito. Poteva essere facile e invece adesso è un casino!”, ha scritto Trump. Il divorzio con McConnell ha dato un informale via libera a tutti i senatori che vorrebbero smarcarsi dal presidente ma con diligenza hanno finora seguito gli ordini di scuderia. La rocciosa base trumpiana si sgretola, i rappresentanti dell’establishment sono stati messi alla berlina, la alt-right nazionalista è sostanzialmente estromessa e medita vendetta, i repubblicani al Congresso sono in guerra aperta con la Casa Bianca, i pochi intellettuali agganciati a Trump disertano e i businessman rinunciano. Resistono all’abbandono della nave soltanto i famigliari e i generali. Per ora.

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