Operatori a Wall Street. Gli analisti invitano a guardare all’indice Standard & Poor’s, che registra 500 grandi imprese: l’84 per cento di loro ha messo in conto utili consistenti nell’ultimo trimes

La bolla che sbolle

Stefano Cingolani

L’economia mondiale cresce, le compagnie high tech corrono, le Borse anche. La grande crisi è lontana, della prossima non si vede l’ombra

Dieci anni dopo la sua morte annunciata, il capitalismo sembra proprio in ottima salute. In Nord America, per la verità, la svolta risale al 2010 e molti si chiedono se i biblici sette anni di vacche grasse (o quanto meno grassottelle) non stiano arrivando alla fine. Il Fondo monetario stima che l’economia mondiale crescerà del 3,5 per cento quest’anno, una media formata da un più 4,6 per cento per i paesi in via di sviluppo e più due punti percentuali per i paesi sviluppati. L’Europa, che ha un ritardo di almeno due anni, ha ripreso lena e si sta allineando agli Stati Uniti in leggero rallentamento (il prodotto lordo cresce del 2,1 per cento). Persino le lumache come l’Italia accelerano grazie alla nuova primavera della manifattura: più 5,3 per cento la produzione industriale a giugno rispetto a un anno prima, più 2,2 per cento nel semestre, cifre da mini boom. La Cina sembra incollata a un ritmo leggermente inferiore alla quota politica del 7 per cento indicata come ottimale dalle autorità di Pechino. Chissà se le statistiche sono accurate (e nel caso cinese restano seri dubbi), tuttavia di una crisi all’orizzonte non si vede l’ombra. Non solo, la finanza ha riacceso il turbo nel motore, tanto che le Borse corrono ancor più veloci della produzione e dei consumi.

 

Un'increspatura negli ultimi giorni: i venti di guerra spingono gli investitori a realizzare i guadagni accumulati in un periodo d'oro

L’indice Dow Jones viaggia oltre i 22 mila punti, un livello considerato stratosferico. Dieci anni fa aveva raggiunto il massimo storico sfondando i 14 mila. Non tutte le Borse hanno messo a segno gli stessi risultati. L’indice europeo, lo Stoxx 600, ha avuto una ripresa a scoppio ritardato, in parallelo con l’economia reale, ma negli ultimi cinque anni ha fatto registrare un salto del 43 per cento. Anche Milano ha rialzato la testa e dal 2012 Piazza Affari ha recuperato il 13 per cento. Come sempre è l’America a dettar legge. C’è chi attribuisce a Donald Trump anche la colpa di aver liberato dalla gabbia la “finanza selvaggia”, ma il Dow Jones era a quota 20 mila a gennaio, prima che il nuovo presidente si insediasse alla Casa Bianca. Semmai, sono i venti di guerra con la Corea del Nord, le follie di Kim Jong-un e le bellicose dichiarazioni trumpiane, che spingono gli investitori a realizzare i guadagni accumulati in un periodo d’oro. Negli ultimi giorni, infatti, sono cominciate le vendite prima a Wall Street, poi in Asia e in Europa.

 

Molti sostengono che a differenza da un tempo, manca una locomotiva dello sviluppo. In realtà, il treno è guidato dalla mela di Steve Jobs che, secondo le stime potrebbe arrivare a una quotazione pari a mille miliardi di dollari di qui ai prossimi anni: ha già superato gli 800 milioni, spinta dai risultati migliori del previsto per gli iPhone. Non è una corsa solitaria perché l’azienda di Cupertino trascina in alto tutti gli altri 29 titoli che rappresentano le maggiori grandi multinazionali in ogni settore da Boeing a McDonald’s, da Goldman Sachs a Caterpillar.

 

Secondo una scuola di pensiero, proprio i tecnologici, in particolare i social media, possono diventare l’anello debole dell’intera catena, come accadde dieci anni fa con i mutui subprime. Allora le banche e i brokers vendevano l’uno all’altro cattivo debito, oggi i social media scambiano connessioni di bassa qualità, collegamenti che non sono in grado di offrire relazioni durevoli e significative e il bluff prima o poi verrà scoperto. Se è così, la bolla esiste e si sgonfierà, in modo progressivo e senza traumi come qualsiasi persona di buon senso che tiene ai propri risparmi si augura, oppure ancora una volta in modo drammatico come vaticinano ormai da molti mesi George Soros e Daniel Roubini. Nella storia della finanza si alternano sempre euforia e panico e quando tutto sembra andare per il meglio arriva il patatrac.

 

Ma quale bolla! Il partito di Panglosse, quello del migliore dei mondi possibili, nega che i titoli tecnologici non abbiano sostanza industriale. Al contrario, l’economia americana continua la sua metamorfosi. Gli analisti invitano a guardare non solo al Dow Jones, ma all’indice Standard & Poor’s che registra ben 500 grandi imprese. Ebbene, l’84 per cento di loro ha messo in conto utili consistenti nell’ultimo trimestre, in media di un dollaro in più su dieci investiti un anno fa. Il ritorno al profitto è favorito in generale dal dollaro debole, perché stiamo parlando di multinazionali che, alla faccia del neo protezionismo, continuano a fatturare all’estero gran parte del loro giro d’affari. Ciò vale anche per le compagnie high tech, ma il fattore valutario non basta a spiegare la loro incredibile corsa. C’è una tabella pubblicata dal Financial Times che la dice lunga: dal 2007 a oggi il valore dei titoli dei grandi gruppi automobilistici, compresi quelli tedeschi, si è ridotto, le Big Five, le Cinque sorelle dell’èra digitale (Apple, Amazon, Google, Facebook e Microsoft) hanno continuato a crescere e ormai dettano legge sulla Borsa. Hai voglia a mettere dazi, tasse e tariffe sulle importazioni, la vecchia industria manifatturiera non sarà più la regina del made in Usa. E proprio questi dieci anni, segnati dalla lunga recessione, dalla feroce selezione e dal nuovo boom, hanno accelerato in modo impressionante il cambiamento.

 

"L'intelligenza artificiale è il settore più caldo in questo momento". L'auto con guida autonoma, la prossima Big Thing

Secondo il rapporto del McKinsey Global Institute (Mgi) dedicato alla globalizzazione digitale (“Digital globalization: The new era of global flows”, 2016), la crescita impressionante del flusso di dati e informazione che era solo nella culla quando scoppiò la grande crisi finanziaria, “genera ora più valore economico che il commercio mondiale di beni e servizi”. L’ampiezza delle bande di frequenza è aumentata di 45 volte e si prevede cresca di altre nove volte nei prossimi cinque anni. Già oggi virtualmente ogni tipo di transazione al di qua e al di là dei confini ha una componente digitale. “Il mondo è più connesso che mai, ma la natura di questa connessione è cambiata in modo fondamentale ed è destinata a correre più velocemente di quanto ci si aspetti”, scrive Il Mgi.

 

Ma la vera grande novità è che ha fatto passi da gigante l’integrazione tra la vecchia e la nuova economia, tra manifattura e informatica, tra servizi e internet, il mondo digitale sta plasmando sé stesso e l’intera società. Amazon, la regina del commercio online ha deciso di spendere 13,7 miliardi di dollari per acquistare la catena di grandi magazzini biologici Whole Foods Market, che vende prodotti tutti naturali, senza alcun additivo di qualsiasi tipo e natura. Vengono chiamati i supermercati per i Millennial, ma sono comunque negozi con spazi fisici, fanno concorrenza a Walmart che, a sua volta, sta potenziando al massimo gli acquisti via internet e le consegne a domicilio, droni compresi, proprio come la stessa Amazon. “E’ un altro esempio di un fenomeno più ampio: le grandi compagnie tecnologiche americane stanno allargando I loro tentacoli e si spingono in mestieri diversi, spesso complementari, per sostenere la crescita, mano a mano che vengono a saturazione i loro mercati tradizionali”, ha scritto Christopher Mims sul Wall Street Journal. Come conseguenza, “il potere e la ricchezza saranno sempre più nelle mani di poche imprese e dovremo decidere se ci piace o no comprare tutti i beni e servizi dei quali abbiamo bisogno dai membri di un oligopolio”. Jeff Bezos, dunque, non è il solo a praticare questo nuovo espansionismo. Apple, già passata dai computer ai telefoni, adesso lavora sull’auto che si guida da sola, su programmi tv originali e si spinge nel territorio dei pagamenti prima presidiato dalle banche. Facebook sta creando droni, show televisivi, hardware per la realtà virtuale. Google con Alphabet ha costruito Android il sistema operativo che compete con iOs di Apple. E così via.

 

La trasformazione è anche una necessità per imprese come Google e Facebook il cui fatturato è composto per il 90 per cento dalla pubblicità. E’ un business model fragile che non può durare per sempre, quindi più rapidamente si convertono in qualcosa di diverso meglio è per loro e per il sistema nel suo complesso, secondo Umair Haque, direttore di Havas Media Labs, considerato uno dei più influenti esperti al mondo di gestione aziendale. Ciò vale anche da Bitcoin, la moneta virtuale che ha avuto un espansione troppo grande per essere vera, diventando un oggetto di pura speculazione. Una bolla arriva quando i prezzi di mercato perdono il contatto con la realtà sottostante, solo che per i social media non si a bene quale sia questo sottostante, la loro realtà è virtuale per definizione. Di qui la fragilità di questa corsa forsennata, e anche per questo le Cinque Sorelle s’affrettano a diventare qualcos’altro, gettando nuove basi nella realtà materiale senza abbandonare del tutto il loro universo immateriale.

 

Dalle vette del suo successo, Apple sta disperatamente cercando la nuova “grande cosa”, l’idea, il prodotto, l’applicazione in grado di cambiare il paradigma come è avvenuto con i computer Mac e con la sequenza iPod-iPhone-iPad. Il big boss Tim Cook ha annunciato che il prossimo passo si chiama Ar (Augmented reality), un’applicazione che rende l’immagine la più realistica possibile e può essere utilizzata su vasta scala. Verrà lanciata il mese prossimo insieme al nuovo sistema operativo iOS. Vedremo. Secondo Google bisogna puntare sulle tecnologie digitali applicate al Dna. Altri sperimentano la misteriosa iperconvergenza, ma forse lo sviluppo tecnologico più promettente sarà l’auto che si guida da sola alla quale stanno lavorando in tanti, con una gara forsennata per chi arriva primo. Secondo Steve Wozniak, co-fondatore di Apple, sarà Tesla a realizzare la prossima Big Thing. “L’intelligenza artificiale è il settore più caldo in questo momento, le automobili con guida autonoma sono in cima alla lista delle cose che possono davvero avere un impatto enorme sulla nostra vita entro i prossimi cinque anni o giù di lì”, ha vaticinato in una intervista all’agenzia Bloomberg. Ovviamente non c’è solo Tesla a lavorare su questo progetto, ma “credo che sia nella direzione migliore in questo momento. Hanno concentrato gli sforzi in cose molto rischiose: se dovessi scommettere su qualcuno, scommetterei su Elon Musk”.

 

 Cala il valore dei titoli dei grandi gruppi automobilistici. In Borsa dettano legge ormai le Big Five dell'èra digitale

Il visionario Musk che costruisce auto elettriche eleganti e costose, razzi e veicoli spaziali mentre progetta lo sbarco dell’uomo su Marte, continua a perdere milioni di dollari, ma viene comunque premiato dalla Borsa che scommette su di lui e sulle sue speranze. Anche questa può essere chiamata bolla? O è la natura più autentica del capitalismo che spinge chi ha i soldi a rischiare? La nuova fusione tra digitale e manifatturiero, del resto, non è una scommessa, ma un fatto. Musk, che è pessimista sull’intelligenza artificiale e sui robot mangia-lavoro, tanto da sostenere l’idea di un reddito universale che in Italia tanto piace ai pentastellati, investe un pozzo di quattrini proprio sulle macchine automatiche. Gli imprenditori capitalisti sono fatti così, soprattutto quelli americani che sono i più puri dell’intera genìa.

 

La nuova fabbrica, il nuovo supermercato, la nuova banca, tutto sempre più digitalizzato. Stampanti per produrre qualsiasi cosa, la spesa trasportata da macchine, niente più sportelli dove depositare e ritirare i quattrini, una moneta virtuale o poliziotti-robot che perlustrano armati la periferia di Londra al posto dei vecchi Bobby (come mostra un videoclip di Apple). Insomma, chi cerca i nuovi driver dell’economia ha un bel mazzo dal quale scegliere. Non c’è dubbio che un altro ciclo è cominciato, il ciclo della quarta rivoluzione industriale, con le sue contraddizioni, i suoi lati oscuri, i suoi pericoli, le sue bolle. Le grande banche americane, che sono state risanate prima e meglio di quelle europee, stanno sostenendo questa trasformazione, non è vero che si limitano a scambiarsi tra loro pezzi di carta. La finanza è meno selvaggia di quel che si dica perché sta mettendo valanghe di quattrini proprio in questa grande transizione. Andrà a buon fine? Ci sarà un’altra crisi? La bolla si gonfierà ancora per poi scoppiare? Chi lo sa. E’ molto probabile che questo scenario negativo si realizzi, lo dice la storia. L’economia procede per cicli, discese ardite e risalite, come nella canzone di Lucio Battisti. In più s’aggiungono le incognite politiche: Kim Jong-un può fare molto piu’ danno di Goldman Sachs.

 

Questo scenario va d’accordo con l’ipotesi di una stagnazione secolare avanzata da Larry Summers? Esiste un nesso tra l’effetto dell’economia digitale sulla economia tradizionale (manifattura e servizi) e una crescita (della produttività e del prodotto lordo) inferiore alle attese? C’è chi lo cerca nella dimensione macroeoconomica, chi nella demografia (la forza lavoro invecchia e produce meno), chi nella sociologia (nonostante la crescente frattura tra ricchi e poveri, i paesi occidentali restano ricchi e appagati, manca loro la molla che ha generato il miracolo economico), chi nella microeconomia, nel modo in cui funzionano le imprese, nel loro nuovo paradigma manageriale. Secondo una recente indagine della Bain & Company (“L’impresa del futuro”) è finita l’epoca dei supermanager la cui missione era dare sempre più utili agli azionisti nel più breve tempo possibile. Oggi contano le strategia di lungo periodo, l’interfaccia con l’ecosistema, la condivisione degli obiettivi con tutti i soggetti aziendali. Ciò non riduce la ricchezza, semmai rallenta il ritmo dell’accumulazione, punta a un benessere diverso e proiettato più sul lungo periodo. Il banchiere italo-svizzero Antonio Foglia punta il dito sulle autorità politiche e sul sistema bancario. A suo avviso, non abbiamo ancora tratto la lezione della crisi, nata nelle banche che sono il settore più regolamentato dell’intera finanza. E oggi, dopo tutti gli inasprimenti della regolamentazione, le banche continuano ad avere troppo poco capitale rispetto ai loro attivi. E’ vero che finanziano la nuova rivoluzione industriale, ma lo fanno al di là delle loro possibilità e, quindi, dei limiti di sicurezza. Può darsi che ci sia del vero un po’ in tutte le spiegazioni, nessuno è in grado di immaginare una nuova teoria generale, come sottolineano, con un invito alla modestia, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi; tutti del resto siamo vittime delle false idee del passato. E se anche la teoria della bolla che sbolle fosse una di queste idee?

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