Il global siamo noi

Alberto Brambilla

Non c’è più un uomo senza smartphone. Da dieci anni è lo strumento che ci mette in contatto col mondo. Una sinfonia di modernità

A metà del secolo scorso pochi capirono l’importanza che i container navali avrebbero avuto per l’economia globale. Nel 1956 un imprenditore dei trasporti su camion, Malcolm McLean, ebbe la geniale idea di caricare l’intero contenitore delle merci su una nave, anziché le merci prese singolarmente. Fu l’inizio di una rivoluzione che permise di trasportare più beni su navi sempre più giganti, di fluidificare gli scambi commerciali, di aumentare i traffici nei porti maggiori come Amburgo, New York o Singapore. Oggi il 90 per cento dei commerci transcontinentali avviene su navi cargo. Sono le “scatole” che hanno reso “piccolo il mondo e grande l’economia mondiale”. Un’epopea documentata in “The Box” (Princeton University Press, 2006) di Marc Levinson, ex responsabile finanza ed economia all’Economist, un saggio applaudito anche dal fondatore di Microsoft, Bill Gates.

 

“Quando parliamo di innovazioni è difficile sapere quali andranno male e quali cambieranno il mondo – disse Gates – Non puoi mai sapere da dove arriverà il prossimo container”.

 

Eppure una “scatola” che fa piccolo e grande il mondo è già a disposizione dell’umanità da tempo, di solito è in tasca. Lo smartphone, quell’oggetto con cui milioni di persone telefona, invia messaggi, esplora internet, fotografa, ama, dileggia, compra e vende, guadagna, o condivide una porzione di riservatezza con una moltitudine di suoi simili lontani, è una sintetica sinfonia della globalizzazione.

 

È forse difficile rendersi conto di maneggiare un concentrato di risorse naturali estratte in varie parti del pianeta quando sono racchiuse in un apparecchio elettronico dal design seducente come l’iconico iPhone. Lanciato solo dieci anni fa, il 29 giugno 2007 a Cupertino in California, è il modello per una rivoluzione industriale. Oggi ci sono più dispositivi mobili nel mondo di quanti sono i suoi abitanti: oltre 8,1 miliardi (uno in più ogni secondo che passa) contro 7,2 miliardi di individui stimati. In un decennio sono triplicati gli utenti di internet. Come ha osservato Leif Wenar, docente di filosofia e legge al King’s College di Londra, allievo di Robert Nozick, “spesso i nostri desideri sono così potenti che dimentichiamo i vortici di molecole che rendono possibile soddisfarli” (“Il re nero”, Luiss University Press, 2016). In tutte le macchine elettroniche, inclusi smartphone, tablet, e laptop, ci sono alluminio e silicio, litio per le batterie, stagno nelle saldature, tungsteno per la vibrazione, metalli rari come ittrio e lantanio negli schermi e nella fotocamera, rame e oro (oltre a idrocarburi raffinati e lavorati). Sono metalli superconduttori la cui catena produttiva inizia nelle miniere africane, europee, americane, asiatiche e si può concludere con una ricerca su Google, un selfie su Instagram, un post su Facebook e Twitter o l’acquisto di un libro su Amazon – tutti colossi del capitalismo digitale incubati nella mitologica Silicon Valley.

 

Negli ultimi anni le piattaforme di condivisione sono state tra l’altro funzionali alla diffusione senza limiti geografici di moti protestatari in opposizione all’establishment politico o a potentati capitalistici: sono ritenute il foro preferito per ambire a esercitare una vigilanza di molti su pochi, della massa sull’élite, il “giornalismo collettivo”. Perciò sono percepite come “democratiche”. L’aura buonista che ammanta l’industria digitale, “sociale” e “sostenibile, l’ha finora sottratta dal maltrattamento riservato in secoli recenti a settori caratteristici del progresso umano e responsabili della maggiore interdipendenza tra blocchi economici; in altri termini della globalizzazione.

 

A cavallo del millennio, e ancora oggi, gli idrocarburi sono oggetto di critiche planetarie perché “gli stati autocratici” ne traggono profitto o perché sono imputati del cambiamento climatico. Per non parlare delle case farmaceutiche, oggetto di una paranoia collettiva contro i vaccini, presidio di contrasto alla recrudescenza di infezioni patologiche debellate da decenni. Nel Diciottesimo secolo lo zucchero coltivato su larga scala ai Caraibi, pilastro dell’impero britannico e manna dell’élite inglese, fu oggetto del primo boicottaggio etico in stile no global perché a raccoglierlo erano gli schiavi comprati in Africa. “Se acquistiamo il prodotto siamo complici – scriveva l’attivista William Fox in un pamphlet del 1791 contro i mercanti, i padroni di schiavi e i negrieri – Per ogni chilo di zucchero che usiamo, è come se consumassimo mezz’etto di carne umana”.

 

Arduo rintracciare un simile j’accuse nell’èra digitale. Tuttavia c’è un lato controverso. D’altronde quasi tutto quello che c’è sopra la terra proviene dal sottosuolo. Quel che si direbbe un affare sporco. Il commercio di minerali quando è sregolato fornisce guadagni a organizzazioni terroristiche e apparati paramilitari, in particolare in centro Africa, nel nord est della Repubblica democratica del Congo dove ci sono molte miniere. Il Congo proviene da due guerre civili laceranti ed è uno dei paesi con il più basso pil pro-capite al mondo.

Dai paesi confinanti, come il Rwanda, penetrano miliziani per approvvigionarsi di minerali utili all’industria elettronica da vendere sul mercato nero. L’Amministrazione americana dell’ex presidente democratico Barack Obama in una disposizione del Dodd-Frank Act, una massa di vincoli che ha snervato il sistema finanziario, invocava una regolamentazione della filiera per i maggiori produttori di hardware. Il provvedimento è stato oggetto di critiche per il rischio di danneggiare sia i mezzi di sostentamento dei minatori congolesi sia la competitività economica delle aziende tecnologiche americane. Secondo il sito Cipher Brief, il suo successore repubblicano, Donald Trump, volendo riformare l’atto, avrebbe un atteggiamento più blando, con l’esito di accordare un processo di autoriforma da parte del governo congolese.

 

Per questo qualcuno rinuncerebbe al pc o all’iPhone, come l’attivista Fox fece con lo zucchero?

 

In Afghanistan il movimento di guerriglieri talebani e il governo di Kabul si disputano le abbondanti risorse minerali di un territorio in guerra da così tanto tempo che chi è nato nel 2001, con l’inizio dell’operazione militare americana “Libertà duratura”, tra due anni sarà in età di leva e potrà partecipare alla missione (incompiuta). Un resoconto del 1932 sul giornale ufficiale locale Anis prevedeva che le risorse minerali afghane, oro, petrolio, ferro, rame avrebbero ricoperto una “importanza crescente nel mondo di oggi domani” e nelle “future rivoluzioni economiche”.

 

Sette anni fa gli Stati Uniti avevano scoperto che c’è l’equivalente di 1.000-3.000 miliardi di dollari in risorse minerali vergini, pietre preziose comprese. Per il presidente Hamid Karzai si arriverebbe a 30 mila miliardi. Un memo interno del Pentagono parlava dell’Afghanistan come l’“Arabia Saudita del litio”, un metallo strategico essenziale per batterie perché garantisce migliori performance di durata, usato anche nelle automobili Tesla di Elon Musk. Il governo afgano sta cercando di avere l’attenzione di Trump offendo lo sfruttamento dei giacimenti di Mes Aynak, nella parte occidentale del paese, gli stessi che i talebani offrirono alla Cina senza però averne titolo.

 

La posizione di Trump non è nota sul punto. Ma basta il coinvolgimento degli Stati Uniti per capire quanto il declino della centralità americana propagandato dal presidente sia lontano dalla realtà. La narrazione per cui la globalizzazione “uccide” gli americani dimenticati dai mercati feroci ha permesso al maverick newyorchese di arrivare alla Casa Bianca. Ma sono le principali compagnie quotate a Wall Street a gestire le grandi infrastrutture strategiche di questa fase della globalizzazione, i cavi sottomarini.

 

Se nel Novecento le ferrovie hanno funzionato da “alimentatore dei commerci oceanici”, nella definizione di uno dei padri della geopolitica, Halford John Mackinder, i cablaggi sottomarini sono la rete che alimenta l’economia della informazione, fino alle “scatole” degli smartphone. L’epopea dei cavi è ben sintetizzata nel rapporto della Banca centrale europea “Cavi, squali, server” dell’anno scorso. Nel 1842 Samuel Morse interrò il suo primo cavo nel porto di New York per mostrare la possibilità di trasmettere segnali telegrafici a distanza. Ma fu negli anni Sessanta che le compagnie telefoniche americane e inglesi, a partecipazione pubblica, iniziarono a posare cavi per grandi distanze. Negli anni Ottanta i cavi di rame furono sostituiti con quelli più veloci in fibra ottica, in seguito protetti e schermati per evitare che gli impulsi elettrici attirassero gli squali.

 

Oggi le grandi compagnie come Google, Amazon, Facebook e Microsoft sono diventate esperte nella posa di cavi sottomarini e spesso si alleano per realizzare opere molto costose: richiedono la costruzione di cavi stratificati lunghi decine di migliaia di chilometri poi sfilati da enormi navi posacavi in viaggio per mesi sugli oceani. Per esempio Facebook e Microsoft si sono alleate per collegare la Virginia alla Spagna con un cavo transatlantico. Google e Facebook stanno lavorando a un cavo tra Los Angeles e Hong Kong. Google guida un consorzio che connetterà Singapore all’Australia e ha collegato il Giappone all’Oregon – quest’ultimo è il cavo con la maggiore capacità di trasmissione esistente, di 60 terabits al secondo pari a circa 1.600 dvd che possono essere trasmessi attraverso l’oceano Pacifico ogni secondo. La stessa velocità a cui viaggiano i dati, gli ordini di acquisto e le informazioni sulle preferenze dei consumatori.

 

Negli anni Cinquanta gli ingegneri americani Norman Joseph Woodland e Bernard Silver brevettarono il codice a barre, l’identità di una merce, che ha permesso di velocizzare i consumi e sviluppare la tracciabilità dei prodotti (oltre a evitare penose attese ai supermercati). Oggi l’esigenza delle aziende di largo consumo è quella di conoscere il codice a barre dei consumatori: le loro preferenze in modo dettagliato e a livello locale. O meglio “iperlocale” come si dice alla Ibm. “Siamo in una nuova fase della globalizzazione, in un tempo in cui è sia globale sia locale”, dice al Foglio Karl Haller che di Ibm è Retail and Consumer Products Center of Competence Leader. “Da una prospettiva di business l’intera industria del consumo è una industria globale, vediamo grandi idee che si sviluppano in tutto il mondo. La più importante innovazione è basata sull’interpretazione dei bigdata. Oggi più che in passato i consumatori amano capire da dove provengono le cose, scelgono il prodotto che incontra i loro standard.  

Anche noi abbiamo volontà di capire le necessità dei consumatori a livello locale, anzi ‘hyper-local’, che vuol dire essere vicini al quartiere – non al paese o a una città”. Con la piattaforma MetroPulse collegata al sistema di intelligenza artificiale Watson, in onore del fondatore Thomas, la Ibm fornisce informazioni a 6.000 clienti di ogni settore industriale sul comportamento dei consumatori. “Ci sono molti dati che tutti noi condividiamo attraverso gli smartphone. Abbiamo la Weather company (stazioni meteo), in media una persona controlla il meteo cinque volte al giorno e con la geolocalizzazione è possibile sapere che c’è un dispositivo in un dato posto in un esatto momento.

 

Questo, combinato con le informazioni che arrivano da società telefoniche, fonti governative, pubbliche, private e social network, permette, sempre nel rispetto delle norme sulla privacy, di capire il movimento delle persone e che cosa si dice sui social in un momento molto preciso a un livello geografico ben definito”, dice Haller. Le informazioni possono servire a una azienda di largo consumo per determinare una strategia di business in anticipo, per capire se gli affari andranno bene o male in un dato giorno, o se ci sono delle criticità oppure delle opportunità.

 

“Possono reagire alle esigenze del consumatore e alle circostanze. Decidere ad esempio di concentrare la forza lavoro in un punto vendita nei pressi di uno stadio dove è in corso una partita di calcio con 15 mila persone. Oppure ridurla e spostarla altrove se un negozio è tagliato fuori da dei lavori in corso stradali. O ancora decidere di rifornire con determinati prodotti un negozio dove c’è un evento scolastico, per cui alcune merci saranno più richieste”, dice Haller.

   

Dalle profondità della terra a quelle dei mari, dalle infinite possibilità di acquisto alle più particolari esigenze di consumo, lo strumento della globalizzazione è insomma l’umanità che dal risveglio fino a quando chiude gli occhi sfiora un touch screen.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.