Una maschera di Theresa May (foto LaPresse)

Brexit contro Brexit

Paola Peduzzi

Ma quanto sono insofferenti questi inglesi. Non è che l’unico modo per uscire dall’Europa è restarci?

La Brexit è insofferenza assoluta, non si può parlare di nulla senza innervosirsi e sentire una gran voglia di andarsene, sbattere la porta, ne riparliamo quando avrete qualcosa di sensato da dire. Si litiga su tutto, sui pesci, sulla pancetta che costa tanto, sulla Guinness che si blocca alle barriere doganali e si svuotano i pub: ogni dettaglio diventa un motivo buono per scannarsi. Tutti contro tutti, non c’è nemmeno più soltanto la frattura tra gli inglesi e gli europei. Nel divorzio più celebre dell’ultimo anno, si è passati dalla fase “andrà bene, abbiate fiducia” a quella del conteggio delle sedie della sala da pranzo, sei a me e sei a te, e no, non te le lascio tutte, si dividono anche le posate e gli strofinacci. Più si entra nel dettaglio e più si scoprono inconciliabilità insuperabili, per non parlare della quantità di consulenze di cui c’è bisogno per provare a districarsi tra i ghirigori della partnership europea.

    

C’è un nuovo business, una nuova figura professionale richiestissima, pare che nel Partito conservatore al governo ci siano head hunters agguerriti che non vogliono farsi scappare i migliori. “Quello-che-sa-tutto-di-Brexit” è l’esperto del momento, e molti si stanno attrezzando per ricadere in questa categoria, studiando le rotte dei merluzzi che sfuggono, maledetti, alle reti dei pescatori britannici e specializzandosi al contempo sull’energia nucleare, ché se non ci si accorda neppure su quello, bisogna spegnere tutte le centrali del paese. Aspettando il grande esodo, s’intende, perché questo è il destino apocalittico del Regno Unito: non soltanto rimanere isolato, ma anche rimanere vuoto.

   

In questo accavallarsi di prospettive tecnicamente inaccessibili e politicamente impraticabili, il premier Theresa May sta dando il peggio di sé. Non è del tutto colpa sua, perché il suo Partito conservatore, che ha vissuto anni di trionfalismo esagerato e di grandi operazioni di make up, è tornato in un attimo quel che era: arcigno, vendicativo, “nasty”. La colpa del premier è stata semmai quella di aver buttato via un anno di Brexit, arrivando alla vigilia del secondo round di negoziati con l’Europa – iniziano la prossima settimana – senza una prospettiva considerata credibile dai puntigliosi interlocutori europei.

 

E poi certo, la May ha sbagliato il calcolo elettorale, e questi sono errori che spesso non si possono emendare. Voleva stravincere e ha perso la maggioranza in Parlamento, ritrovandosi a gestire, senza un mandato forte, l’insofferenza permanente di un paese che non sa più cosa vuole. Parlando al Sun per celebrare – “con il Prosecco caldo”, hanno ironizzato alcuni commentatori – il primo anno a Downing Street, la May ha detto di non voler lasciare il suo posto, ha chiesto ai suoi colleghi, ai suoi rivali e agli elettori di lasciarla lavorare “per i prossimi pochi anni” per gestire il negoziato sulla Brexit. Ha fatto intendere che non vorrà più ricandidarsi come leader dei Tory alla prossima tornata elettorale: datemi il tempo per fare la Brexit e poi mi tolgo di mezzo. Non è detto che vada così, lei cambia idea ogni momento e soprattutto cambiano le condizioni attorno a lei, ma buona parte del partito scalpita imbizzarrito: vuole la sua testa entro l’autunno.

 

C’è una nuova generazione di conservatori che si sta preparando, i giornali inglesi la raccontano con dovizia e malizia, ma c’è chi crede che questo non sia il tempo degli esperimenti. È come se il Regno Unito fosse entrato in una fase di guerra – i divorzi spesso sono questo: una guerra – e, come ha scritto Iain Martin sul Times, “abbiamo bisogno di una nomina equivalente a un commander in chief, che sappia stabilire la strategia e avere il controllo della direzione che il paese vuole prendere”. Molti condividono questo approccio, ma la politica talvolta non è fatta di ideali e strategie, ci sono leader che cercano un posto al sole, vendette da consumare, tradimenti da risarcire, così attorno alla May c’è soltanto un gran baccano, che però, come ricordano perfidi gli europei, non riesce a coprire il ticchettio del conto alla rovescia sulla Brexit.

  

Tanta confusione non è quasi immaginabile, certamente non è gestibile. Il Regno Unito si ritrova con un leader talmente bistrattato che non si riesce più a trovare un’immagine della May in cui abbia un’espressione dignitosa (ha sempre qualche smorfia) e allo stesso tempo si dispera all’idea di dover andare ancora una volta a esprimere una qualche preferenza in un’urna. Tra i tanti tormenti britannici c’è anche quello dello stress democratico, descritto in un articolo del Prospect Magazine di qualche tempo fa. Tre voti in meno di tre anni – nel 2015, vinsero a sorpresa i Tory; il referendum sulla Brexit nel 2016; le elezioni anticipate l’8 giugno scorso; se si conta anche il referendum scozzese del 2014, i voti sono addirittura quattro – e ancora non si capisce che cosa vogliono gli inglesi.

 

O forse si capisce benissimo, vogliono pentirsi senza farsi troppo notare, vogliono mostrare la loro insofferenza senza pagarne un prezzo troppo elevato, perché stanno arrivando soltanto conti, da qualche mese, lunghi conti con cifre esorbitanti che gli europei considerano “quello che è dovuto” e che gli inglesi vivono come un affronto inaccettabile. Il risultato di questo stress democratico è chiaro: ci si tiene il premier che si ha, anche se non è amato, non è sostenuto, non è ammirato né dagli elettori né dal suo stesso partito. Il Times vuole vendere alcune tazze ai propri lettori con la scritta: “State scherzando, non un’altra volta!, firmato Brenda da Bristol”, che è la sintesi dell’insofferenza, non chiedeteci più niente, non fateci andare ancora a un altro voto, lasciateci in pace. Ma in pace a fare che cosa? E soprattutto: non era una guerra questa?

   

Tutto è insofferenza, e allora anche quel rimpianto che un anno fa riempiva le piazze londinesi di giovani e di bandiere europee, non lasciateci soli, diventa un’altra cosa: una cosa seria. Tornare indietro oggi si può. Nicholas Watt, responsabile della redazione politica di Newsnight, talk della Bbc, ha dichiarato: “Inizio a sentire da molte parti che la Brexit alla fine non ci sarà”. Lo ha detto sottovoce, come se fosse ancora una cosa indicibile, ma non lo è. Non più. Tom Newton-Dunn del Sun ha scritto: “Sono colpito da quanto sono diventati pessimisti i brexiteers. Un ardente sostenitore del ‘leave’ mi ha mandato un messaggio oggi: ‘Abbiamo rovinato tutto’”. Matt Kelly, agguerritissimo direttore della rivista New European, ha raccontato di aver ricevuto un’email da un politico di lungo corso che gli scriveva: “È come se avessimo davanti la terra promessa”, dove per terra promessa si intende la possibilità di non fare più la Brexit, “l’uscita dall’Unione europea non è più inevitabile. Ma dal momento che non abbiamo a disposizione un Mosè che possa aprire le acque, c’è ancora il pericolo di essere travolti come l’esercito del Faraone”.

 

L’assenza di un Mosè rende tutto più complicato, mentre ancora i politologi si interrogano: il voto a favore del Labour di Jeremy Corbyn, 40 per cento e più di preferenze, era contro la May o contro la Brexit? Perché lo sanno tutti che un’alternativa alla Brexit in versione Corbyn di fatto non esiste: l’approccio cosiddetto “soft” è inaccettabile agli occhi degli europei tanto quanto quello “hard”, perché appare più conciliante ma sulle linee rosse non cambia di molto. Da sempre la scelta è dentro o fuori l’Unione europea, tutto quel che ci sta in mezzo è lavorio diplomatico e tecnico di procedure e documenti, ma la scelta sulla natura dell’accordo è fin troppo chiara.

 

Il paradosso così si complica ulteriormente: il Labour si propone di fare battaglia politica ai paper e alle leggi che presenta il governo – a cominciare dal “Repeal Bill” presentato giovedì dalla May in Parlamento, la normativa che restituisce alla sovranità britannica la gestione delle regolamentazioni che era stata nei decenni ceduta all’Ue – con l’obiettivo esplicito di rendere la vita impossibile all’esecutivo al punto da costringerlo a un nuovo voto. Un voto che gli inglesi però non vogliono, e che a ben vedere nemmeno il Labour dovrebbe perseguire troppo, a meno che non si sia convinto che l’unico modo per fare la Brexit è non farla. Ma questo non pare tra le priorità di Corbyn, il quale si è fatto convincere dai suoi esagitati consiglieri di Momentum e da una serie di sondaggi favorevoli che questo è il momento di agguantare il potere, costi quel che costi, poi un piano sulla Brexit si troverà.

   

Rincorrendo leadership insperate, un anno è stato buttato via. Questo è forse l’aspetto più deprimente del divorzio in corso, una quantità di carte, linee guida, propositi, normative e ancora non si capisce a che cosa si va davvero incontro una volta che il Regno Unito firma il divorzio con l’Ue. E se si pensava che i toni apocalittici fossero parte del passato, così come quel rimpianto originario che poi è stato assorbito da un senso di rassegnazione inevitabile, ci si è sbagliati per l’ennesima volta. Entri da Aldi o da Lidl, i due supermercati discount più cool del Regno, con il rapporto qualità prezzo sulle aragoste più conveniente del paese, e senti solo lamentele.

 

I prezzi degli alimentari sono aumentati, almeno dell’1,5 per cento tra maggio e giugno, un picco rispetto a un trend comunque in crescita. L’anno scorso la Tesco si era rifiutata di alzare il prezzo della Marmite, nonostante l’azienda produttrice Unilever chiedesse un aumento del dieci per cento: scoppiò il “marmitegate”, apocalittici contro realisti, un format talmente usurato che ne faremmo volentieri a meno, e vinse la Tesco. Poi però il prezzo è stato alzato. Le confezioni del cioccolato Toblerone sono diventate più piccole – ci hanno tolto dei triangolini, si lamentano i bambini – ma il prezzo è rimasto lo stesso (la stessa cosa è accaduta con il Peperami), e se vedete dappertutto immagini di banane e non capite perché, il mistero è presto svelato: un chilo di banane costava 68 pence e ora ne costa 75.

 

Lo stesso è accaduto con i polli, con alcuni tipi di cereali, con certi alcolici e anche con alcune salse dal sapore improbabile che fanno impazzire i britannici. Mentre scoppiava un altro caso di apocalissi annunciata – non si mangerà più la pizza a Londra! – la Kpgm ha pubblicato un ministudio che dimostra di quanto si alzerà il prezzo del leggendario “breakfast” inglese. Se si fa eccezione per i prodotti locali – pane, latte, uova – ogni altro ingrediente subirà un incremento di prezzo: olio d’oliva, burro, salsicce, pancetta, succo d’arancia, marmellata, caffè, funghi e fagioli. Un aumento del 13 per cento, dice la stima, che certo non appare molto moderata, ma evidentemente un problema c’è. Anche se nella faida degli apocalittici sono già caduti in molti, che parevano pure forti (ricordate David Cameron?), anche se l’allarme sulla mancanza di fragole al torneo di Wimbledon era esagerato, e le fragole c’erano e sono andate a ruba.

  

Un anno è passato e siamo ancora qui, tutti più deboli, tutti più spaventati. Tornare indietro si può, strillano molti, anche se in realtà dovrebbero dire “si dovrebbe”, perché tra le due questioni c’è un mondo in mezzo, un mondo inesplorato tanto quanto quello della Brexit. Però molti dei sostenitori del passo indietro (scusate ci siamo sbagliati: anzi, forse non ci scusiamo nemmeno) iniziano ad avere qualche perplessità sull’utilizzo di un altro referendum per sancire il no alla Brexit. Fino a qualche mese fa il punto era questo, anche sostenuto da parte del Labour: facciamo un altro referendum sull’esito del negoziato prima che venga formalizzato dall’Ue. Giudichiamo cioè se il negoziato è stato all’altezza delle aspettative. Ma lo stress democratico è alto, così come la sensazione che chiedere troppo alla gente come la pensa risulti alla fine pericoloso, abbiamo dei rappresentati in Parlamento, facciamo pressione su di loro, in fondo li abbiamo mandati lì noi. Questa è una delle nuove mode assieme alla consapevolezza che nulla è più inevitabile, e si capisce perché l’insofferenza è alle stelle, si capisce perché i merluzzi scappano proprio adesso che non ci sono più le famigerate quote volute dall’Europa: non fidarsi di se stessi, questo è il problema del popolo inglese.

Di più su questi argomenti:
  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi