L'altro mondo di Versace

Fabiana Giacomotti

Vent’anni fa, la morte dello stilista. L’unico che permetteva a una donna di sentirsi semplicemente “figa”

L’uomo che rese il sesso glamour e per di più indossabile ogni giorno morì in un oggi di vent’anni fa, più o meno nelle stesse ore in cui state leggendo queste righe, freddato sulle scale della sua villa in Florida da un ex modello, tossicodipendente pluriomicida, per cause mai del tutto chiarite. L’assassino venne ritrovato suicida su una houseboat poco distante dal luogo del delitto una settimana dopo. Come per l’attacco alle Torri gemelle, chiunque di noi ricorda dove si trovava nel momento in cui l’Ansa trasmise la notizia; molti ricordano anche il lancio d’agenzia, preceduto dai tre asterischi della brevità d’eccezione: “Miami, ore 9.03: morto lo stilista Gianni Versace”. Parole che suonavano prive di senso. La sua famiglia, a Roma per l’edizione annuale del programma “Donna sotto le stelle”, una baracconata di cinque ore, centinaia di vestiti e musicisti vari sparsi per la scalinata di piazza di Spagna che in quegli anni andava per la maggiore e che molti curiosamente rimpiangono, pensò a una bufala. Nell’anno precedente se ne erano susseguite molte, dopo che quel fratello così esuberante e sensibile, consapevole com’era delle esigenze di tutti, quelle delle donne, che amava davvero, e quelle dei suoi cari, era stato colpito da un piccolo tumore all’orecchio, dal quale era guarito ancora più bendisposto verso il mondo di quanto fosse già e come emergeva chiaramente dalla sua moda. Da tempo, ormai, i giornali e anche le enciclopedie esaltavano immancabilmente il “tocco audace ma di altissimo livello tecnico” della sua moda, che in linguaggio decrittato indicava uno stile da mangiauomini col cervello, cioè in grado di fermare l’orlo della gonna un centimetro prima di cadere nel trash. Ne era prova Liz Hurley, che grazie a un solo abito, nero, lungo e trattenuto da una doppia fila di spille sui fianchi, era uscita dal cono d’ombra di Hugh Grant, all’epoca uno degli attori più ricercati del mondo, e si era costruita una carriera.

   

Rese il sesso glamour e per di più indossabile ogni giorno. Fu ucciso nella sua villa in Florida da un ex modello per cause mai chiarite

Mentre gli altri stilisti dell’epoca ti costringevano più o meno tutti a interpretare una parte, fosse quella della manager tutta d’un pezzo, dell’intellettuale repressa o della gattona svaporata, Gianni Versace ti permetteva di sentirti semplicemente figa: scusate la mancanza di sfumature lessicali, ma talvolta bisogna andare dritti al punto e “figa” è il sostantivo perfetto. Nei suoi abiti da sera potevi affrontare una notte intera compreso il caffè-cornetto della mattina dopo senza sentirti un relitto. Nelle sue giacche, tagliate come nessuno, eri pronta a conquistare quel che ti garbava, dall’uomo della tua vita a una posizione di rilievo. Era una moda che richiedeva del carattere, senza dubbio, ma nella quale non ti sentivi esposta nel corpo e al giudizio altrui; semmai, al contrario, protetta ed esaltata. Insomma, Gianni Versace non poteva morire. Invece il take dell’Ansa era vero, e meno di mezz’ora dopo l’annuncio, le televisioni di tutto il mondo già trasmettevano l’immagine del corpo dello stilista sulla barella, il braccio composto sul corpo e il volto parzialmente occultato da un’inutile maschera ad ossigeno: l’autopsia certificò che era morto in meno di dieci secondi e tutti pensammo, come sempre in questi casi per scacciare l’orrore, che era meglio così, che forse non aveva sofferto.

   

Al funerale organizzato una settimana dopo nel Duomo di Milano con il seating selettivo di una sfilata, che fu l’unica nota distonica in una cerimonia partecipata da duemila persone di cui molte sinceramente addolorate, Elton John e Sting cantarono insieme “The Lord is my shepherd”. Nelle immagini di repertorio si vede Naomi Campbell mano nella mano con Lady Diana, che sarebbe morta di lì a quaranta giorni. Ferruccio de Bortoli, appena nominato direttore del Corriere della Sera e non ancora diventato il volto della milanesità brizzolata ed elegante che è oggi, venne recuperato dalla pr imbarazzata in mezzo alla folla degli anonimi e invitato ad accomodarsi nelle prime file. Vent’anni dopo, la splendida villa déco di Miami, Casa Casuarina, costruita negli anni Trenta dal tesoriere della Standard Oil, Alden Freeman, è diventata un hotel prenotabile su booking.com per seicento euro a notte, anche meno se siete clienti assidui del sito; i commenti dei viaggiatori sono fissi sull’ubiquo “amazing”, banalmente il minimo per una residenza che venne rinnovata per la cifra imponente di 33 milioni di dollari benché il servizio non debba essere dei migliori, visto che veleggia sul 7,4. La sua seconda residenza di vacanza, Villa Fontanelle, sul lago di Como, arredata con opere neoclassiche di grande valore, è finita nelle mani di uno dei tanti magnati russi innamorati dei laghi italiani che tentano di scavalcare soprintendenze e vincoli paesaggistici a suon di regalie ai comuni. E’ rimasto il palazzetto milanese di via del Gesù, intoccabile asset e luogo dei ricordi, dove ancora si tiene la sfilata della collezione uomo, preferibilmente in estate per via del meraviglioso giardino che rivaleggia con quello del confinante hotel Four Seasons.

  

La società oggi: l'utile del 2015, la perdita di 7,4 milioni del 2016. La maison tiene alla qualità

La Gianni Versace spa ha aggiornato il logo e ha cambiato un anno fa l’amministratore delegato, sostituendo Gian Giacomo Ferraris, che aveva favorito l’ingresso al venti per cento del fondo Blackstone nel capitale, con un ex manager di Alexander McQueen, Jonathan Akeroyd, e ha chiuso il bilancio 2016 con una perdita di 7,4 milioni di euro. La cifra, di per sé non drammatica, rappresenta però una differenza di oltre venti milioni rispetto all’utile registrato nell’anno precedente, quando anche l’incremento del fatturato era stato a doppia cifra e l’ebitda veleggiava su un onestissimo 12,5 per cento, che ora si è dimezzato. Sulla carta pesano i costi operativi, aumentati di 60,7 milioni di euro fino a sfiorare quota 630, di cui quasi la metà, cioè 28,2 milioni, derivati da prodotti e materiali, e 14 milioni a costi di personale collegati all’apertura di trentotto nuovi negozi. In parole povere, la maison tiene alla qualità dei tessuti e dei pellami che usa (l’abilità nella lavorazione della pelle è stato il tratto caratteristico della produzione di Versace fin dal debutto, nel 1978, così come la maglia di metallo) e alla professionalità delle persone che impiega; vive però al di sopra dei propri mezzi, al punto che l’incidenza dei costi operativi sui ricavi ha raggiunto il 94,2 per cento. Non sembra neanche intenzionata a fare economie visto che, nonostante una perdita di 24 milioni, all’ultima assemblea ha deciso di distribuire 6 milioni di dividendi fra i quattro soci: oltre al fondo americano e ai due fratelli di Gianni, Donatella e Santo, l’ormai trentenne Allegra, la nipote prediletta e che un tempo era la bimba più vezzeggiata di Milano. Dalle sue festicciole le invitate rientravano a casa mogie nelle loro gonnelline a pieghe e le rigide scarpette inglesi dopo essere state ricevute da lei vestita di raso dallo zio, che la lasciò erede della sua quota di maggioranza relativa, il cinquanta per cento, nonché vittima di una profonda crisi da cui è uscita dichiaratamente pochi anni fa, riguadagnando peso e puntando, si dice perché a differenza della madre che posta quasi quotidianamente brillanti post su Instagram appare pochissimo, a una carriera di attrice. L’altro figlio di Donatella, Daniel, suona e compone, e ogni tanto su per la collina di Stresa, dove è stata affittata tempo fa una delle tante grandi ville appartenute in anni passati a un ramo della famiglia Mondadori, si distingue una batteria suonata con perizia. Il commercialista Santo, co-titolare della legge Reguzzoni-Versace a favore del made in Italy ed ex presidente della Camera della Moda, nell’ultimo decennio ha transitato fra diversi gruppi parlamentari finendo per avvicinarsi a Corrado Passera; giocatore di pallacanestro in gioventù, nella Reggio Calabria d’origine della famiglia è un eroe per il sostegno fattivo che garantisce al Viola Basket, di cui è azionista.

   

E poi c’è naturalmente il core business, la moda Versace che dagli anni della gestione Ferraris, cioè la prima successiva a quella trentennale di Santo, si è ampliata molto agli accessori. Tranne la couture, la linea Atelier che non viene più presentata pubblicamente da due anni e per i tanti costretti alla sola osservazione è un peccato perché l’ultima fu davvero strepitosa, le sfilate donna si susseguono al solito ritmo di due all’anno, interpretate esclusivamente dalle più belle ragazze del globo che non sono più Karen Mulder o Christy Turlington o Carla Bruni, tutte ormai impegnate in altro e perlopiù in varie declinazioni del concetto di première dame, ma sono comunque bellissime e invariabilmente pettinate come Donatella, con i capelli lunghi, lisci e spartiti sulla fronte, anche a costo di infilare loro una parrucca. Da anni si dice che l’azienda stia cercando un direttore creativo ma, non avendolo trovato mai in una selva da dove sbucano abbastanza spesso veri e propri geni, è ovvio che almeno Donatella non stia cercandolo. Per qualche tempo si è tenuta accanto Christopher Kane e poi Anthony Vaccarello, ora direttore creativo di Saint Laurent; fino a due mesi fa sembrava che il designato fosse Riccardo Tisci, l’ex stilista di Givenchy, che per la campagna autunno-inverno 2015 l’aveva voluta protagonista. Tisci sta ormai molto in Italia, gira città e visita musei, ma di una carica nei saloni del palazzo operativo di via Borgospesso non si sente più parlare.

  

Le attuali collezioni Versace sono tutte, secondo una formula espressiva praticatissima nel settore, “molto Versace”, che significa molto in linea con quanto avrebbe fatto il fondatore se fosse ancora vivo, un’espressione del tutto priva di senso perché, come è accaduto per altri stilisti scomparsi prematuramente compreso Christian Dior di cui quest’anno si festeggiano i settant’anni dalla fondazione e che guidò la propria azienda per un solo decennio, un tempo contenuto rispetto alla sua storia complessiva, nulla si può sapere, solo immaginare, di come avrebbe interpretato Gianni Versace la realtà oggi. Tanti giornalisti ed esperti di moda non smettono di pensare a quale moda disegnerebbe oggi lo stilista se percorresse ancora i pavimenti di marmo tirato a lucido di via del Gesù, se le sue donne sarebbero ancora un’evoluzione delle dee guerriere dell’olimpo greco che aveva conosciuto bambino nelle sale del museo archeologico di Reggio Calabria o se, tramontata l’epoca delle cene eleganti e dei corpi usati come strumenti di lavoro, quelle dee avrebbero assunto i tratti di vestali e poi di canonichesse, come è stato nell’evoluzione della storia e anche, perché la storia si ripete e si declina solo adattata un ciclo dopo l’altro, perfino nelle tendenze della moda di oggi.

   

Quel che è certo è che dopo la sua morte, centinaia di migliaia di donne guardarono altrove e trovarono sostegno al loro modo di essere e di vestire nelle proposte di Roberto Cavalli, uno stilista che lavorava senza eccessivo successo da anni precedenti a quelli di Versace, e ora in parte di Fausto Puglisi. Tranne forse Armani, dal quale lo divideva tutto tranne una stima reciproca abilmente ammantata di rivalità da entrambi, quasi ogni stilista, italiano e internazionale, ha tratto vantaggio dalla lezione di Gianni Versace: i Dolce&Gabbana con i loro tailleur avvitati; Roberto Cavalli con gli abiti da sera, Puglisi con i colori e certi tagli netti, aggressivi e donanti; perfino Elie Saab con certe lavorazioni a ricamo sui fianchi. Tanti, come Puglisi, l’hanno riconosciuto. Tanti no.

  

Stanca delle interviste autocelebrative rilasciate in questi giorni di celebrazioni per il ventennale della scomparsa di Versace, cerco qualche valutazione accademica sui primi anni del suo lavoro. Le trovo in uno storico compendio dello stilismo mondiale pubblicato da Thames&Hudson, in un volume del 1983 di una grande storica della moda, Grazietta Butazzi, e in uno dei primi compendi sulla moda italiana, “Il genio antipatico. Creatività e tecnologia della moda 1951-1983” , scritto da Pia Soli, a sua volta morta meno di due mesi fa in questo anno spietato con i grandi nomi delle passerelle. Da quei libri, il secondo soprattutto, emerge in pieno lo spirito dei primi anni Ottanta, quella insopprimibile voglia di fare, di vivere e di spendere lasciandosi alle spalle le lotte del decennio precedente, ma con qualche ritegno e parecchio timore. Il Sessantotto incombeva ancora con i suoi eskimo mal lavati e la moda risultava ancora più odiosa di quanto le accada oggi. La moda, per essere tollerata, doveva dunque autodenunciare i propri scopi borghesi e reazionari: era, appunto, un genio antipatico. Non produceva più cose per pochissimi, come ai tempi della couture, ma dettava uno stile a cui ci si doveva assoggettare se si voleva far parte di quello che per la pubblicità di allora era “un certo mondo”.

  

Fra quelle pagine, il tratto lineare e potente di Versace emerge nettissimo, perfettamente distinguibile. Ha da poco terminato la collaborazione con Complice, quella per Genny è dimenticata. C’è solo lui, con due modelli bellissimi. Non sembra neanche moda, ma più che un certo mondo, un altro mondo.

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