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Pisapia a più teste

Marianna Rizzini

Sarà una creatura da laboratorio o un frontman l’uomo che vuole federare le sinistre a sinistra del Pd?

Intanto, le città: i dieci giorni che dovevano sconvolgere il centrosinistra finiscono e ricominciano forse all’infinito qui, oggi, nel primo giorno di luglio, a città invertite, con Matteo Renzi che riunisce i circoli dem nella Milano che fu di Giuliano Pisapia e con Giuliano Pisapia che riunisce i partecipanti alla guerra dei mondi extra-Pd nella Roma che non ha mai davvero voluto essere di Matteo Renzi. E i dieci giorni che dovevano sconvolgere il centrosinistra sono concetto già di per sé psicologicamente complicato, in un centrosinistra che ha visto tutte le combinazioni di rivoluzione, ribellione, implosione e ricostituzione possibili, con rassegnazione conseguente. Per dirla in romanesco e con Carlo Verdone, nella sinistra-sinistra ormai ci si domanda: “Ma che dovemo fa’ pa’ risurta’?”, che dobbiamo fare per raggiungere l’obiettivo? E se, nel caso dei ragazzotti coatti e rimorchioni di Verdone, l’obiettivo donne o soldi passava per la pettinatura – “se li semo tajati, i capelli, se li semo fatti ricresce, se li semo stirati, se li semo arricciati…”, nel caso del centrosinistra passa per tutte le possibili combinazione di flora e fauna (ulivi, asinelli, la vecchia quercia) e per tutti i colori (arancione dei sindaci invece di rosso, mezzo bianco e mezzo rosa). Ma vai a sapere se il riconoscimento almeno sondaggistico arriverà, e soprattutto se durerà. Né vuole necessariamente dire qualcosa del futuro il fatto che i dieci giorni di sconvolgimento siano cominciati dopo il primo, amaro turno delle amministrative, con Matteo Renzi possibilista e Giuliano Pisapia attendista, e siano finiti alla vigilia del doppio appuntamento di oggi con Matteo Renzi che dice “stop, corro da solo” e con Giuliano Pisapia che, dopo aver detto la frase della discordia (“Renzi faccia le primarie”), butta lì un “prenderemo i voti di chi ha lasciato il Pd”. In mezzo, tra Milano e Roma, scorre il Po, ma scorrono pure le parole non renziane dei padri e figli fondatori del Pd: Romano Prodi che “mette nello zaino” la tenda in cui viveva nei pressi del Pd (metafora sua), Dario Franceschini che mette in guardia il segretario dem con parole da canzone d’amore (“siamo nati per unire”) e tono non amorevole, e Walter Veltroni che si riaffaccia dalla seconda vita di sereno documentarista per invitare Renzi al “cambio di passo”, ché il Pd così non ha “identità” e assomiglia pure “alla Margherita”.

 

E insomma un enorme “mah” dondola sulle teste dei partecipanti ai due rassemblement del weekend, a Milano come a Roma. E dondola prima di tutto sulla testa di Giuliano Pisapia, ex sindaco arancione di Milano nonché, oggi, figurina sventolata nella piazza dei fantasmi ulivisti (Santi Apostoli, luogo prodiano per antonomasia) da tutti coloro i quali, a sinistra del Pd, vogliono metterci la faccia, ma sapendo di poterla ritirare o nascondere in qualsiasi momento, tanto si può sempre dire: sì, la sera andavamo a sentire Pisapia, e però siamo altro da Pisapia. Ma chi sia davvero Pisapia è difficile a dirsi: un grande avvocato, figlio di Gian Domenico, principe del Foro anche autore di un famoso compendio di procedura penale? Un esperto politico, ex parlamentare con Rifondazione comunista ed ex presidente della commissione Giustizia della Camera? Un “gentile borghese milanese”, come sempre viene definito fuori Milano, o una “personalità della società civile, uomo perbene”, come sempre viene definito a Milano? Un ex boy scout – ma diversamente scout dall’ex boy scout Matteo Renzi – o un ex quasi-militante della sinistra extraparlamentare anni Settanta (“ma la vera militanza politica lui non l’ha mai fatta, era già troppo diverso per studi e famiglia”, dice un amico che lo conosce da quando era ragazzo)? E se è vero che Pisapia, quando è diventato sindaco di Milano, nel 2011, lo è diventato dopo primarie in cui ha sconfitto Stefano Boeri, candidato del Pd, e avendo alle spalle mondi anche non dem e non partitici, è pure vero che è stato, nel processo Sme-Cir, avvocato dell’editore di Repubblica Carlo De Benedetti (con conseguente maxi risarcimento dovuto dal Cav. Silvio Berlusconi). E si sa che De Benedetti è universalmente considerato “tessera numero uno del Pd”, definizione che De Benedetti ha poi derubricato a boutade senza che nessuno mai la considerasse boutade fino in fondo. E a questo punto due sono gli elementi che si aggiungono al quadro. Uno: le frasi rivolte per tutto il 2016 da De Benedetti a Renzi, via intervista al Corriere della Sera (da “Renzi rischia di fare la fine di Piero Fassino… cambi l’Italicum” a “Renzi si deve dimettere se vince il No al referendum costituzionale). Due: il fatto che l’avvocato Pisapia abbia più volte detto, a fine mandato da sindaco, di voler lasciare la politica, e che invece si sia ripresentato in politica non esattamente dalla porta laterale. E i due elementi aggiuntivi, sulla soglia di piazza Santi Apostoli, mentre si attendono le note del sempiterno Rino Gaetano, motivatore postumo di sinistre in cerca di catarsi, portano con sé le grandi domande senza risposta (o con risposta multipla): quanto avrà potuto contare, sullo sfondo, l’eventuale, fantasticato, mai provato, dialogo ideale Pisapia-De Benedetti sul futuro politico di Pisapia medesimo? E Pisapia, fuori da Milano, riuscirà mai ad andare oltre il non fastoso 3-4 per cento che, in epoca Beppe Sala, a Milano i sondaggi gli attribuiscono? E l’eventuale “Insieme” (così viene battezzato oggi) del Campo progressista di Pisapia e degli Mpd di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Roberto Speranza, riuscirà mai a uscire dal porto nel vasto mare neo-proporzionalistico che si profila all’orizzonte, appena oltre il faro delle amministrative perse dal Pd (le Cassandre fanno notare, come possibile segnale di burrasca sulla strada delle sinistre alla riscossa, proprio “la contemporaneità dell’assemblea di circoli dem a Milano”, con Renzi che avverte la minoranza di Andrea Orlando, quella che oggi ha mezzo piede nella piazza di Pisapia, che “c’è un congresso da rispettare”).

 

Tuttavia Pisapia è atteso in piazza come elisir federatore che può, sulla carta, unire dalemiani, bersaniani, zingarettiani (Nicola Zingaretti si è messo in ascolto), civatiani e boldriniani (Laura Boldrini, presidente della Camera, è in ascolto già da un pezzo), Sinistra Italiana (con Stefano Fassina in prima fila) e sindaci (con Leoluca Orlando già metaforicamente sul palco), ambientalisti ed ex paladini della Costituzione (nel senso di comitati del No, anche se Pisapia al referendum del 4 dicembre scorso ha detto Sì). Il possibile uomo della riscossa per gli “scaduti”, così è visto Pisapia, per dirla con il titolo del libro in cui Lidia Ravera, due anni fa, disegnò un mondo distopico in cui la generazione dei sessantenni non vuole farsi rottamare dai quarantenni. Pisapia è simbolo di vittoria preventiva, se non futura, essendo stato già portatore di bandiera arancione trionfante in quel di Milano, ma nella primavera del 2011 in cui tutto doveva ancora succedere (lettere Bce al governo Berlusconi, arrivo dei tecnici di Mario Monti, elezioni politiche con il 25 per cento a Beppe Grillo e impossibilità per Bersani di fare scouting, ascesa di Matteo Renzi nel Pd, governo Renzi e fine del governo Renzi con sottofondo di débâcle referendaria). E oggi è un altro giorno e un altro mondo, ma il pomeriggio in Santi Apostoli vuole anche un po’ dimenticarselo.

 

Trasversale, dicono: Pisapia è personalità che raccoglie consenso trasversale. Ma fra trasversalità e non univocità di linea politica spesso il confine è talmente sottile da non essere visibile a occhio nudo: motivo per cui i sostenitori di oggi possono benissimo essere i detrattori di ieri. Gli indizi c’erano, a cominciare dai fischi a Pisapia levatisi dalla platea del Teatro Brancaccio, qualche settimana fa, durante la kermesse di area “Libertà e Giustizia” officiata da Tomaso Montanari e Anna Falcone, già paladini del No al referendum costituzionale (quello a cui, appunto, Pisapia ha detto Sì) e autori di un appello-manifesto per una sinistra unita che non vuol dire, però “centrosinistra”. Ma oggi, anche se a Pisapia il concetto di “rifare il centrosinistra” non pare così indigesto (anzi), Montanari e Falcone non disdegnano la sua piazza (anzi, sono visti come una delle tante anime della platea ideale di Santi Apostoli).

 

Trasversale: ma come si farà, poi, a conciliare il garantismo di Pisapia, punto di riferimento delle battaglie per il giusto processo negli anni in cui era in Parlamento e sosteneva il giusto processo anche di fronte a imputati di poli politici avversari, con quelli che, a sinistra, vedono in Pisapia un possibile riparo per le sinistre giustizialiste non grilline? E come si farà a tenere alta la bandiera del radicalismo inglese di Jeremy Corbyn, idolo per una parte della piazza arancione, con i moderati alla Bruno Tabacci? Ma questo è nulla: Pisapia, ci si domanda tra i soldati arancioni, sarà o non sarà il frontman, nella futura battaglia per le politiche? Ed ecco che si spalanca l’altra voragine: Pisapia è stato un sindaco abbastanza amato, pochi ne parlano male a Milano, ma chi l’ha visto all’opera a Milano ricorda che “la trattativa a livello nazionale su posti in lista e simili non è esattamente il suo pane” (figurarsi ora che, dal suo “Campo progressista”, dovrà trattare con D’Alema e Bersani le condizioni dello stare “insieme”, come da nome della nuova creatura). E c’è chi ricorda la sua titubanza pre congresso Pd): “Impossibile farlo esporre per la mozione Orlando, anche se poi la comunità di visione tra area Orlando e area Pisapia è evidente in piazza”. Altro dubbio: avrà ambizione politica duratura, il Pisapia che più volte è parso tentato dal ritorno alla vita di avvocato, mestiere in cui eccelle e mestiere peraltro più redditizio (i veterani di Montecitorio ricordano che Pisapia “veniva sempre annoverato tra i parlamentari più ricchi”, e non c’era nulla di male, ovviamente, tantopiù che ancora non si era scatenato, sul web, il persistente coro di indignati insensati contro chi guadagna tanto, anche se guadagna con il suo lavoro. Fatto sta che Pisapia ha un lavoro).

 

Ed è dal pozzo dei dubbi sul “chi è davvero Pisapia?”, tra tutti quei “sostenitori e servitori interessati”, come scriveva Salvatore Merlo su questo giornale qualche giorno fa, che vengono a galla gli aneddoti e i particolari capaci, raccontano a Milano, di illuminare in parte la figura dell’uomo che vuole non rottamare, ma “far ruotare” (e nel verbo sta già il possibile intoppo: chi deve ruotare e come? D’Alema e Bersani? Civati e Fassina? Montanari e Laura Boldrini?). Particolare numero uno: la moglie. Pisapia ha una moglie giornalista, Cinzia Sasso, che quando il marito è diventato sindaco ha scelto di licenziarsi da giornalista (di Repubblica, quotidiano dove aveva lavorato per ventisei anni), per evitare conflitti d’interesse e, come ha raccontato lei stessa nel libro “Moglie” (ed. Utet, prefazione di Natalia Aspesi), si è ritrovata da un lato smarrita dall’altro felice e impegnatissima nel ruolo di “consorte” (“consorte e consigliera”, dicono a Milano sia gli amici sia i meno amici, seppure con diversa sfumatura). E per quanto la moglie cerchi, nella scrittura, di apparire moglie punto e basta, con agenda sovrapponibile a quella del marito e consapevolezza di aver rinunciato a una parte di sé – il lavoro amato – per trovarne un’altra altrettanto importante che prepara valigie impossibili per il viaggio del sindaco in Kazakistan ed è presente ogni sera all’ora della preparazione del Negroni (rito di fine giornata), la coppia Pisapia, a Milano, “è considerata anche politicamente inscindibile, come fossero, in piccolo, degli Obama o dei Clinton”, dice un frequentatore di mondi lombardi che ha visto Pisapia “fare il sindaco dal basso in modo anche pignolo– al punto da richiamare al telefono i cittadini che gli scrivevano via mail i loro cahiers de doléances”, ma anche di “disfarsi d’un colpo e preventivamente della camicia politica la domenica in cui, sul finire del mandato, in Lacoste come ogni buon borghese milanese nel giorno di riposo, ha annunciato che non si sarebbe ricandidato”. Ed è inevitabile, oggi – nella Milano che ha votato per Pisapia e che va, come nella canzone di Jovanotti, da Che Guevara a Madre Teresa (cioè dai centri sociali a Don Colmegna) – domandarsi se la moglie abbia consigliato o non consigliato la discesa politica nel “Campo progressista”.

 

Particolare numero due: l’ascesa a sindaco. Ogni volta che si chiede a un milanese di raccontare l’ascesa a sindaco di Pisapia, il milanese racconterà, sì, che Pisapia aveva vinto le primarie “sbaragliando il Pd e il candidato Stefano Boeri” (architetto affermato tanto quanto Pisapia è avvocato affermato) e che Pisapia “aveva avuto la vittoria in mano il giorno in cui dallo staff della Moratti tirarono fuori la storia del furto d’auto” (era successo che Moratti, durante il confronto su Sky Tg24, aveva detto che Pisapia era stato “responsabile del furto di un furgone che sarebbe stato usato per il sequestro e il pestaggio di un giovane” e che poi era “stato amnistiato”. Solo che l’accusa si era rivelata falsa (Pisapia era stato assolto nel 1985). Motivo per cui il futuro sindaco se n’era andato senza stringere la mano all’avversaria.

 

Terzo particolare: l’Expo. Pisapia è stato il sindaco dell’Expo, ma prima di essere sindaco non era stato tra i fan sfegatati dell’Expo (né, essendo stato eletto nel 2011, aveva avviato lui i lavori dell’Expo, tenuti a battesimo sotto la sindacatura Moratti).

 

Quarto particolare: le battaglie civili (carceri e diritti, al punto che quando era sindaco diceva che uno dei compiti più gravosi era dover firmare le carte per i Tso, trattamenti sanitari obbligatori, proprio per via dell’effetto collaterale di “limitazione alla libertà della persona”).

 

Quinto particolare: l’ambiente. Pisapia, studente al liceo Berchet e villeggiante, da ragazzo, a Santa Margherita Ligure, cugino di Vittorio Agnoletto (già portavoce del Genova Social Forum nel 2001), è cresciuto all’intersezione tra la Milano borghese cattolica, la Milano movimentista anni Settanta e la Milano benestante, gauchiste e radical chic, senza diventare mai volto esclusivo dell’una o dell’altra. Dagli scout frequentati da ragazzino, ha detto di aver appreso, oltre all’arte di non bruciare le pentole in tenda durante le scarpinate in montagna, “l’attenzione ai deboli”. Non ha mai amato i viaggi in resort di lusso (lui e la moglie Cinzia preferiscono il peregrinare in macchina con fermate decise lì per lì). E’ stato sostenuto da Piero Bassetti, imprenditore, politico e pilastro della Milano cattolico-sociale (anche detto dai milanesi “il Cuccia buono”), ma Bassetti, che gli sconsigliava l’impegno politico sul piano nazionale, aveva previsto una sua ricandidatura a sindaco che poi non è arrivata.

 

Che da questi particolari si possa giudicare il giocatore è presto per saperlo. (Intanto, in piazza Santi Apostoli, dove vorrebbero un “nuovo Corbyn” o “nuovo Bernie Sanders”, sperano tanto Pisapia non sia un nuovo Frankenstein da laboratorio).

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.