“A Napoli se parla cu ’e mmane” di Gianluca Isaia, pubblicato da Electa, raccoglie il lessico gestuale napoletano, interpretato dallo stesso Isaia e dal suo doppio, il cartoon Corallino

Dal libro di Gianluca Isaia

Fabiana Giacomotti

Il linguaggio del corpo non è sempre immediato. Un grande sarto napoletano scrive un catalogo dei gesti che sostituiscono le parole

"Ho sempre cercato una donna che volesse farsi fotografare con i tacchi sulla sabbia”, diceva pochi giorni fa Michel Haddi all’apertura della mostra che gli è stata dedicata al Barberino Designer Outlet di McArthur Glen nell’ambito degli eventi di Pitti Uomo 92, indicando un’immagine degli ultimi anni Novanta dove Jennifer Lopez appare pericolosamente instabile sulla spiaggia di Malibu, i muscoli delle gambe e del suo poderoso derrière, il primo della riscossa estetica latinoamericana, contratti nello sforzo di non perdere l’equilibrio. La femmina instabile sugli stiletti occupa un posto di rilievo nell’immaginario erotico maschile esattamente come l’uomo seduto a gambe divaricate dà sui nervi alle donne, che credo sia il motivo ultimo del recente divieto introdotto sui mezzi pubblici spagnoli contro la pratica del cosiddetto manspreading che, ne converrà anche la presidente della Camera Boldrini, non abbisogna di declinazione femminile essendo espressione e gesto fortemente sessuati per non dire esclusivi.

 

Comunque la si voglia mettere, e ci ha provato con malizia divertita anche il Foglio qualche giorno fa, l’uomo seduto a gambe larghe invia segnali di occupazione e spaziale e sessuale che noi signore non troviamo né educati né tantomeno eccitanti (spesso, anzi, grotteschi) e se è vero che il linguaggio del corpo è mezzo di espressione equiparabile a quello verbale, quel che dice un uomo seduto a gambe divaricate ci interessa quasi mai ascoltarlo. Avrete presente la soldataglia stravaccata in manspreading sotto la “Resurrezione” di Piero della Francesca: per fortuna dorme, ma anche se fosse sveglia non tenderemmo l’orecchio per ascoltarne i discorsi. Certe volte il linguaggio del corpo basta, come diceva Freddy Mercury e come noi italiani sappiamo benissimo, al punto che perfino la Fondazione Veronesi ha usato di recente il famoso gesto scaramantico della “toccatina” maschile per una campagna di prevenzione del tumore ai testicoli (“Ti tocchi le palle? Fai bene”). Il sito di Cnn dice che usiamo addirittura duecentocinquanta espressioni idiomatiche gestuali, un primato. Non avevo mai fatto il conto dell’estensione mimica che va dal gesto dell’ombrello, il classico vaffan, al corrispettivo cinetico di “ma va a mori’ ammazzato” cioè mano e braccia slanciati verso l’alto, ma so per certo che il linguaggio del corpo è meno evidente e universale di quanto sembri perché due mesi fa mi sono accapigliata con un tassista israeliano che mi scuoteva davanti al naso le dita chiuse a pigna (“‘azz vuoi” per noi che viviamo a nord del Canale di Sicilia) fino a quando un passante caritatevole e multilingue fonetico, cioè in grado di articolare suoni di senso compiuto in una lingua di ceppo indoeuropeo ampiamente condivisa, insomma in inglese, mi ha spiegato che non intendeva recarmi offesa, bensì segnalarmi di aspettare un attimo per poter accomodare meglio il sedile al suo fianco dove, soffrendo io il mal d’auto come un cucciolo di cocker, avevo mostrato di volermi sedere.

 

L'uomo seduto a gambe larghe invia segnali di occupazione e spaziale e sessuale che le signore non trovano né educati né eccitanti

E’ opinione comune che il linguaggio del corpo sia più semplice e immediato rispetto a quello fonetico, che il gesto abbia la supremazia sul suono: bè, si tratta di un’opinione sbagliata, come sa chiunque si sia spostato anche di soli cento chilometri dal giardino di casa. A Napoli il gesto di portarsi le dita chiuse davanti alla bocca indica che si ha fame e che si gradirebbe recarsi a mangiare qualcosa, magari in compagnia della persona alla quale il gesto è rivolto oppure, se ci si infila proprio le dita in bocca, che si è dei “turze”, dei citrulli; a Milano per lo stesso gesto vale solo il secondo significato, di boccalone, in dialetto “ciula”. Il gesto è suono nella stessa logica per la quale la forma è sostanza, vedi l’eccezionale sfilata fiorentina di Federico Curradi con gli uomini scalzi per i corridoi del Museo Bardini, le scarpe legate a una corda fra le mani o sulle spalle come pellegrini e la collega più lamentosa del gruppo subito a piangere sulla scomparsa del maschio testosteronico e rapace (decisamente, ci va mai bene niente). Il suono vestito da gesto ha valenza immediata. Ma, oltre a poter essere frainteso, deve avere valore universale per poter essere compreso, far cioè parte di una cultura o di modi condivisi. Avete mai provato a seguire una partita di baseball o di cricket? Sapete interpretare tutti i segni che base e lanciatore si scambiano? Da ragazzini non avete mai codificato un linguaggio dei segni con il vostro gruppo di amici per sentirvi una banda di cospiratori tanto segreti e astuti? E quanti western avete visto in cui il sospetto baro viene coperto di pece e piume per essersi toccato la punta del naso o grattato la sommità del capo? Il linguaggio del corpo può avere mille sfumature, esattamente come quello parlato. Pare che il nostro rientri fra gli elementi che ci caratterizzano come il popolo più sensuale e tattile del mondo insieme con il gusto della buona tavola, una sorta di addentellato della Dolce Vita. Per questo, il web pullula di video, grafici e disegni mirati a spiegare la natura dei nostri gesti e il loro significato. A leggerlo come farebbe un neofita, sembra un linguaggio davvero molto complesso: ne ho scaricati un paio e sono rimasta basita. Seguire i video-and-sketch tutorial sul nostro body language è talmente difficile che dopo un minuto mi sono domandata se, non fossi nata in Italia e non avessi il gesto delle corna inscritto nel mio dna, sarei mai riuscita a seguire l’indicazione “piegare del tutto verso il palmo della mano il dito medio e l’anulare estendendo indice e mignolo verso l’alto piegando nel contempo anche il pollice verso il palmo”. Una roba da ragionier Fracchia, senza naturalmente contare le verbose spiegazioni sui tanti significati che lo stesso gesto può esprimere: dileggio della fedeltà della sposa del tipo a cui le corna vengono mostrate, scaramanzia (segue citazione del presidente Giovanni Leone in visita a Napoli flagellata dal colera negli anni Settanta), sberleffo puro e semplice, (segue foto di Silvio Berlusconi al vertice Ue di Caceres nel 2002).

 

Il sito survivingitaly.com, stilato da un’americanotta che compare accanto ai post, sostiene che “gli italiani strillano, accompagnando le parole a gesti convulsi”; un aggettivo improprio che, pur volendo concedere all’autrice il beneficio dell’incertezza lessicale, dimostra ancora una volta come il linguaggio dei gesti si presti all’equivoco e quanto sia invece utile e divertente saperlo gestire. Gianluca Isaia, che quest’anno festeggia i sessant’anni di storia dell’azienda di famiglia, per esempio ne ha appena fatto un delizioso album di disegni, foto e segni per Electa. Si intitola “A Napoli se parla cu ‘e mmane”, come cantava anche Mina in un bella raccolta dedicata alla città (“cu ‘emmane cu ‘emmane : nun ce stà ‘nu mumento cchiù triste/quanno ‘o core p’a via se ne va”) e raccoglie il lessico gestuale minimo indispensabile per capirla, interpretato dallo stesso Gianluca e dal suo doppio, Corallino, buffo cartoon uscito dalla matita di un bravo artista recentemente scomparso, Sergio Presenti, bianco e nero e rosso come il corallo del logo a cui deve il proprio nome. Ci sono molti modi per raccontare una città e una delle sue imprese più famose: c’è quello noioso, spersonalizzante e gelido, che è mostrare le mani dei sarti all’opera, un classico delle maison di moda in vena di autocelebrazione dove, di solito, le didascalie evocano i “gesti antichi e sempre nuovi”.

 

Due obiettivi benefici: una scuola di alta formazione per sarti e il recupero delle attività di San Leucio, luogo dei setifici storici dei Borbone

Questo di Isaia, che invece dei luoghi comuni usa le espressioni comuni a principi e lazzari, è un invito a tutti a usare le proprie mani per comunicare, e pazienza se ci si dovesse sbagliare perché, come scrive Vincenzo Salemme nella prefazione, alla fine è l’equilibrio dei rapporti che conta. “Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”, che sembra menefreghismo, ma è giusto l’opposto: mai lasciare sospesi, mai lasciare non detti. “Un vero napoletano sa che siamo di passaggio e che a prendersi troppo sul serio ci si riempie la bocca e ci si svuota il cervello”. Le parole, dopotutto e per tornare a quanto si scriveva prima, spesso non bastano o bastano troppo, come osservava Giuseppe Sottile alla presentazione milanese del volume, qualche giorno fa, citando il baccaglio palermitano, il gergo usato dalla malavita e dai pupari palermitani per trasmettere contenuti eversivi, un intricato universo semantico fatto tanto di parole quanto di gesti: segreto, iniziatico, segno di identità e di riconoscimento. D’altronde, se alla University of Oakland, in California, la gestualità italiana è diventata materia di studio e, come osservava il direttore di Panorama Giorgio Mulé nella stessa occasione, il lessico mimato rappresenta un veicolo di comunicazione più potente e diretto della parola, una guida quale il libriccino di Isaia, che apre ai segni verbali, cioè ai segreti, di una città ricca e complessa come Napoli, rappresenta un tesoretto in misura decisamente maggiore rispetto al solito volumone di foto con le forbici in primo piano sul tavolo della sartoria trafitto di spilli e la guida ai migliori ristoranti della città nell’ultimo sfoglio. “Ci siamo fatti capire dai greci, dai latini,dagli spagnoli, dai francesi”, scrive sempre Salemme nell’introduzione, e vogliamo credergli a prescindere, per simpatia, e pur sapendo che invece sono proprio i francesi, che questi gesti non capivano mai fino in fondo, ad ver lasciato qualcosa nella lingua napoletana, a partire da “’o mustacciell”, la moustache, il baffetto, il cui arricciamento, come sorride Isaia, “a Napoli vale più di una certificazione di qualità Iso 9000, più di cinque palline TripAdvisor e di tre stelle Michelin”.

 

 Il suono vestito da gesto deve avere valore universale per poter essere compreso, far parte cioè di una cultura o di modi condivisi

Cunto de li cunti per gesti, questo divertissement sofisticato e irriverente, da prendere sul serio come tutte le cose fatte con ironia, ha anche un risvolto benefico. Il ricavato della vendita del volume andrà infatti a sostenere in parte una fondazione intitolata alla famiglia e finalizzata per il momento a due obiettivi. “Il primo”, racconta Gianluca Isaia” sarà l’apertura di una scuola di alta formazione per sarti a Casalnuovo, dove la nostra azienda si è sviluppata e dove esiste la più importante tradizione sartoriale partenopea”. Il secondo, attorno al quale si sta muovendo con maggiore circospezione, conscio della posta anche storica in gioco, sarà invece il recupero delle attività di San Leucio, il borgo alle porte di Caserta e della sua meravigliosa reggia che per oltre un secolo, a partire dal 1773, diede corpo e lustro al sogno industriale tessile del re Ferdinando IV di Borbone. Le sete di San Leucio sventolano nella bandiera sopra Buckingham palace, la Casa Bianca, il Vaticano, il Quirinale, ma è soprattutto la strategia imprenditoriale e l’impostazione umanitaria e comunitaria del progetto a lasciare stupiti i tanti, tantissimi che conoscono il re Borbone solo attraverso i resoconti ufficiali, le cronache della Rivoluzione di Napoli e “La Sanfelice” di Dumas. La colonia di setaioli di San Leucio, che godeva di speciali benefici, non ultima la casa concessa in usufrutto e l’istruzione garantita gratuitamente ai figli secondo un modello che il nord degli opifici lanieri avrebbe sviluppato ben più tardi, a metà dell’Ottocento, è una storia che merita ancora di essere raccontata. Gianluca Isaia, che ha avvicinato il sindaco di San Leucio qualche mese fa, dopo un primo evento milanese in parrucche e polpe destinato a riportare almeno il nome dei setifici all’attenzione del pubblico internazionale della moda, lesto a dimenticare e quasi certamente non uso ai modi borbonici, sta lavorando in particolare al recupero delle sete per cravatte, con l’intenzione di farne una collezione speciale.

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