George Goodwin Kilburne, "Donna che scrive una lettera" (particolare), 1920-24 (collezione privata)

Non dimenticar quelle parole

Fabiana Giacomotti

Da sciamannate a smutandate. Perché, senza sentirsi matusa, vale la pena di ritrovare la lingua perduta

Le parole hanno una loro caducità del tutto simile a quella della moda, dunque arriva sempre il momento in cui ti senti un capo vintage per il solo fatto di aprire bocca. Usi naturalmente, cioè senza la precisa volontà di stupire, espressioni che la generazione successiva alla tua non solo non conosce, che sarebbe il meno perché dopotutto neanche io definivo “sagittabondo” l’attuale “rubacuori” come faceva mio padre, ma di cui non trovi più riscontro nella vita di tutti i giorni. Prendi l’espressione “gettonare”: come sia riuscita ad imporsi anche fra i deejay di ultima generazione è un mistero, se si considera che nessuno di loro sa come fosse fatto un gettone del telefono e il suo uso, vennero tutti ritirati con l’ingresso dell’euro nel 2001, e che delle pochissime “cabine intelligenti” ufficialmente installate dal 2012 e provviste di collegamento Internet si è mai sentito parlare in termini diversi da quelli che si riservano al luogo di occultamento del Golem a Praga.

 

Vestirsi di parole passate di moda, divenute prive
di significato al di fuori del nostro ambiente, porta in sé
una sfumatura
di tristezza

Noi baby boomer scopriamo ogni giorno di parlare una archeo-lingua a tendenza involutiva, cioè priva di possibili ammodernamenti o sostituzioni semantiche perché espressione di società, stili e modi di vivere in via di estinzione, e non scrivo “desueti” per non dover includere anche questo aggettivo nella lista, che buona parte dei miei studenti, ho scoperto, non pratica. Per esempio, ha ancora un senso definire qualcuno o qualcuna “sciamannato”, aggettivo ubiquo dei Settanta femministi, arruffati e zoccolanti, quando la maggior parte delle ventenni arriva in università e in ufficio ciabattando nelle flip flap di gomma e Lidia Ravera è diventata una madre della patria? No, e il neologismo “smutandata” non si applica evidentemente allo stesso genere di donne: in trent’anni è scomparsa la connotazione sociopolitica della sciatteria, e si è inserita quella sessuale, da cui la spiegazione altrimenti bizzarra data da un’attricetta a una sua foto scattata tempo fa sul red carpet di Venezia: “Non sono una smutandata, non faccio l’amore da due anni”. Parli con le amiche e ti senti parte di quelle enclave linguistiche in cui lessico e pronuncia si cristallizzano per mancanza di linfa vitale dalla madre patria e per nostalgia, come la Nuova Zelanda prima dell’avvento della televisione o Little Italy fino all’altro ieri. “Sono sul treno per Milano, due ragazzi vicino a me dicono di una certa tipa nata nel 1991 che per loro è vecchia. Mi sento una matusa”, scriveva ieri su Facebook una mia coetanea, direttore comunicazione di una grande azienda di accessori per la moda, seguita da uno sciame di punti interrogativi di commento che le davano inequivocabilmente ragione. Io stessa quella parola non la sentivo usare dai tempi del “coniglietto Tippy” che è “diventato hippy”, Zecchino d’oro 1969, e credo che già Nino Taranto ne avesse data una versione pummarola e paglietta definitiva qualche anno prima con “’O matusa”. Ritrovarla su un social nel 2017 e senza neanche quel tocco di civetteria che giustifica e rende frizzante perfino l’uso della congiunzione “ovvero”, mi ha provocato un misto di tenerezza e di compatimento.

 

Usare termini desueti diventa indicatore
della progressiva distanza dal mondo
del potere, quello che produce e che frequenta i posti giusti

Le parole vestono i pensieri, danno loro una forma e spesso anche un contenuto perfino a nostro dispetto (quante volte ci sembra di non esserci “espressi bene”, cioè senza usare i termini che avremmo voluto?): vestirsi di parole passate di moda, divenute prive di significato al di fuori del nostro ambiente e del nostro piccolo mondo, porta in sé una sfumatura di tristezza, un odore di stantio; cipria rappresa su due gote smunte, come nella famosa ultima inquadratura di “Grey’s Gardens”, il documentario sulle cugine molto sciamannate e molto pazze di Jackie Kennedy. Che cos’è la “posteria” e soprattutto, ce ne sono ancora? Una delle ultimissime rimaste aperte, in una strada secondaria alle spalle di via Washington, a Milano, dopo aver resistito strenuamente con la sua elegante insegna dipinta in corsivo bianco e grigio su vetro nero, secondo l’uso degli anni Cinquanta, si è rassegnata a sostituirla con la placca luminosa di “salumeria”, definizione più limitante di certo, ma come si può competere con il Carrefour a pochi metri di distanza inalberando un’insegna ignota ai più, forse a tutti se non fosse stata scelta di recente da una sala eventi del centro città e un ristorante stellato dalle parti di Varese che per motivi loro e di certo civettuoli hanno scelto di chiamarsi come lo spaccio di alimentari frequentato dall’Adalgisa gaddiana. E poi, “loro” quali? La battaglia della quotidianità fra i pronomi personali soggetto ne ha lasciati almeno due sul campo: chi è “egli”? E’ “lui”? “Quello lì”? Assomiglia a “esso” o a “desso”? O forse è un “tu”, ma un tu lontano, rigido e severo? Se l’è cavata Ella, trasformandosi però in nome di persona sull’onda di certi brutti serial americani dai quali un’intera generazione di padri e madri ha tratto uno spunto irresistibile per rovinare in via preventiva e definitiva la vita sociale dei propri figli.

 

Qualche decina
di migliaia
di appassionati filologi dilettanti
che compulsano libri
di storia della lingua
e glossari rétro

“Vieni questo weekend? C’è il giardino in grande spolvero”, scrivo via WhatsApp a mia figlia, che mi risponde ironica rimproverando la mia ossessione per la pulizia; evidentemente l’ho trasferita anche alle ortensie, povere loro. Esterrefatta, dopotutto ci separano solo ventuno anni, faccio a spanne il conto di tutte le espressioni idiomatiche, dei modi di dire non solo nella mia ma anche in altre lingue che pratico quotidianamente ma che ho appreso in epoche, periodi, soggiorni diversi e passati, immaginando quanta di quella roba accatastata nella memoria sia diventata inservibile, come le scarpe con la punta a becco d’anatra che mi piacevano tanto nella seconda metà degli anni Novanta e che ora, quando ne ritrovo un paio riposto in un angolo della soffitta, mi accorgo quanto assomiglino alle “pellegrine” dei ritratti di John Milton. Fra scarpe e lessico c’è però una differenza, e non da poco: delle prime io, come tutte, mi accorgo subito quando sia giunta la loro ora; il “don’t give a damn” che mi apparenta a Rhett Butler nella scena madre in cui abbandona Scarlett O’Hara mi scappa invece di bocca prima che riesca a riacciuffarlo e a riformularlo magari in un crasso, ma più attuale, “give a shit”. Sentirsi come il Webster del 1948 usato della zia, fitto di note bislacche (ecco un altro aggettivo da cancellare se si interagisce con un millennial), è una pessima sensazione, anche se inizio a pensare che tutti i vocabolari di slang comprati negli anni nel tentativo di mescolarmi alle comunità che, via via, mi ospitavano, possano tornarmi utili come materiale d’archivio, per analisi, ricerche, ripescaggi o pura e semplice rivendita. Anche le parole hanno un loro mercato antiquario e diverse comunità di collezionisti attive, il circuito che ruota attorno alla app di apprendimento delle lingue Babbel per esempio, e qualche decina di migliaia di appassionati filologi dilettanti che compulsano libri di storia della lingua e glossari rétro con la stessa smania amorosa di Bernard Berenson quando costringeva parroci e prevosti del centro Italia a consegnargli le chiavi di stanze e ripostigli nella speranza di trovarvi un Lotto. La chiave, in questo caso, è la radice, ma la storia di una parola può essere affascinante quanto quella della Battaglia di san Romano di Paolo Uccello. C’è gente che legge per caso su un quotidiano del tal “briccone”, usato per la famosa civetteria di cui sopra, cioè per non scrivere mascalzone che suona male o delinquente che puzza di pistola fumante, e che subito cita Rossini e Puccini e si inorgoglisce tutta, preparandosi a un prossimo recupero del termine “gaglioffo”, se non del “ribaldo” e giù con un’altra sequela di citazioni lette nei dizionari etimologici che, sorprendentemente in un paese dove la media dei cittadini usa fra le seimilacinquecento e le diecimila parole, vendono piuttosto bene.

 

Qualche anno fa, la filologa Sabrina D’Alessandro ebbe per esempio un buon successo con un simpatico glossario di “parole altrimenti smarrite”; se vi capitasse di cercarlo su Amazon, dove vi consigliano sempre quali libri similari a quello scelto acquistare, “better bought together” come le opere dell’ultima provocazione all’ignoranza planetaria di Damien Hirst in mostra alla Punta della Dogana (multipli di teschio di unicorno in versione bronzo, oro o argento; torsi vari con o senza alghe in bronzo dipinto; statua di Mickey Mouse per mano a un palombaro con adulti che fotografano domandando ad alta voce se “anche questa opera sia stata trovata in fondo al mare”) scoprireste che esistono anche un “Dimenticatoio. Dizionario delle parole perdute”, un “Passadondolo. Dizionario delle parole ritrovate e adottate”, ma anche l’equivalente linguistico dell’esame del dna che va molto di moda ultimamente per sentirsi tutti figli del mondo, “L’italiano in cento parole” di Gian Luigi Beccaria, compendio pop di parole usatissime per risalire all’origine centro-europea del nostro “ciao” e alla radice araba del caffè. I primi della classe e i grillini desiderosi di migliorarsi hanno a loro disposizione Gianrico Carofiglio (“Con parole precise. Breviario di scrittura civile”) e le sue esortazioni ad “occuparsi del linguaggio pubblico, dovere cruciale dell’etica civile”. Insomma, oltre al collezionismo di vini, di abiti e scarpe, di quadri e di scatole di latta per biscotti, c’è anche un mercato per le parole. Scegliere le proprie, cioè quelle che, oltre a essere almeno vagamente comprensibili alla generazione che ci precede e a quella che ci segue, è questione di carattere, di gusti, di aspirazioni.

 

Le parole e la loro combinazione inchiodano chi le usa alla sua storia, alle sue letture, ai suoi vezzi
e alle sue ambizioni

Se l’abito non fa più il monaco da un pezzo perché capita di dare indicazioni a uno sciattone in bermuda in cerca di palazzo Spada salvo scoprire che si tratta dell’amministratore delegato di una grande azienda americana dell’alimentare ed è episodio di dieci giorni fa (lo sciattone anonimo della mattina è ricomparso a sorpresa in pantaloni lunghi e camicia immacolata la sera a una cena, ossequiato dai padroni di casa), le parole che sceglie e la loro combinazione lo inchiodano invece alla sua storia, alle sue letture, ai suoi vezzi e alle sue ambizioni: la moda “adora” come nelle banche non si può fare, la pubblicità ha “bannato” prima di ogni altro settore, quello degli avvocati gode di espressioni idiomatiche e personaggi propri fin dai tempi di Manzoni, oltre che di Carofiglio si intende. Per molti versi, glossari e vocabolari hanno tuttora lo stesso scopo dei manuali di bon ton che iniziarono a diffondersi con l’avvento della borghesia, fra il Settecento e l’ Ottocento: padroneggiare una lingua, o due o tre, è il primo simbolo di potere, strettissimo parente del benessere da cui, spesso e purtroppo, deriva. Non è un caso che negli anni delle contestazioni studentesche la lingua formale venne presa d’assalto insieme con le università, mentre Luca Goldoni ironizzava sul Corriere della Sera dell’assoluta necessità di “dare del tu al parrucchiere”. Usare termini desueti diventa dunque l’indicatore della progressiva distanza dal mondo del potere, quello che produce, esce tutte le sere, frequenta i posti giusti anzi “cool” (di suo, l’unico aggettivo che non abbia mai perso di senso o di rilevanza nei suoi quasi seicento anni di vita); a meno, naturalmente, di non farne un vezzo. O un gioco. Al Foglio, per dire, con le parole si divertono tutti parecchio ed è chiaro a chiunque lo legga; credo però che nessuno, ultimamente, abbia saputo lavorare sulle parole con maggiore maestria degli autori di Topolino, che al Salone del Libro di Torino ha portato un’edizione speciale, cartonata che è già un invito alla conservazione, di storie costruite lungo il filo potente della lettura e dell’amore per i vocaboli. Essendo una rappresentante dell’archeo-lingua, l’ho letto d’un fiato e mi sono commossa com’era ampiamente previsto.

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