Il 90 per cento di Mosul è stato liberato dallo Stato islamico, mancano pochi chilometri quadrati. Potevano essere già liberati, la presenza di civili rallenta le operazioni

La guerra che non vediamo

Daniele Raineri

Siamo troppo occupati a lagnarci di quanto “siamo deboli” davanti alle violenze islamiste per accorgerci che stiamo spazzando via lo Stato islamico. Il conflitto sarà lungo, ma la crisi sul campo è la loro non la nostra

Sono a Mosul ovest a marzo, all’inizio dell’operazione militare per liberare la città. Vedo i jet americani mentre bombardano le posizioni dello Stato islamico, sfondano edifici di sei piani, fanno schizzare i pezzi per centinaia di metri. Vedo i soldati iracheni avanzare dentro la città con in mano armi occidentali e addestrati da istruttori di eserciti occidentali, gli uomini in nero dei reggimenti antiterrorismo creati dagli americani, gli altri iracheni – con addosso mimetiche regolari – preparati alla battaglia da militari tedeschi, spagnoli, australiani e da una lista lunga di altre nazioni. Alcuni di quei soldati iracheni portano ancora sul braccio con orgoglio lo stemma attaccato con il velcro degli incursori italiani, reggimento d’assalto Col Moschin, lo hanno ricevuto in addestramento da poco e non c’è modo di sbagliarsi: è quello con il gladio e le due fronde reintrodotto nell’ottobre 2015. Vedo queste cose eppure so che al rientro in Italia sentirò e leggerò in mille commenti su Facebook e su Twitter – ma a volte pure nelle pagine degli editoriali dei giornali – la stessa domanda: “E l’occidente che fa contro questi mostri sanguinari, contro questi fanatici? Quando ci decideremo una buona volta a fare la guerra contro lo Stato islamico?”. E’ come un episodio acuto di dissociazione collettiva, ci lamentiamo di non fare nulla contro lo Stato islamico mentre facciamo a pezzi lo Stato islamico. E dopo ogni attentato questa domanda è ripetuta con più angoscia: “Ci dovremmo svegliare, perché non facciamo la guerra allo Stato islamico?”.

 

Siamo già svegli. Stiamo già facendo la guerra allo Stato islamico. L’anno scorso a fine febbraio sono entrato nella base militare di Ahmad al Juber, nel deserto a sud di Kuwait City, che è un campo di volo immenso da dove tutti i giorni partono gli aerei occidentali per bombardare lo Stato islamico più a nord, in Iraq, e ci sono anche gli italiani (non bombardano, si occupano della sorveglianza ad alta definizione con i droni dell’Iraq, quelle immagini sono passate ai jet che bombardano). A fine aprile ho visitato il fronte curdo che spingeva verso Mosul e c’erano armi ed equipaggiamento occidentale ovunque e droni sopra le teste e consiglieri americani in giro per le strade. Un tempo una delle grandi paure dei peshmerga erano le incursioni nemiche con i camion bomba, perché succede che l’Isis organizzi attacchi a sciame anche con dieci camion bomba in una volta sola, ma ora i curdi hanno i missili controcarro donati dell’occidente e sono addestrati a usarli. Li puntano contro i veicoli dello Stato islamico, li fanno saltare a distanza e tutti gli assalti sono falliti. A luglio ero a Sirte, in Libia, un tempo capitale dello Stato islamico sulla riva del Mediterraneo che ci guarda, liberata dopo una battaglia furiosa. A ottobre ero a Mosul est, a seguire l’inizio delle operazioni per riprendere quel settore della città, a est del fiume Tigri. Oggi il 90 per cento di Mosul è libero, mancano soltanto dieci chilometri quadrati. Nei quartieri più lontani dal fronte la vità è già ripartita come prima, ci sono pure gli spacci di liquore. Anzi la vita è ripresa diversa da prima, i ristoranti sono aperti di giorno anche durante il Ramadan, prima dell’Isis tenevano le vetrate coperte da pudichi veli neri, durante l’Isis erano chiusi, ora lascino che i clienti mangino senza coprire le vetrate, perché il digiuno è adesso una libera scelta, tre anni di oscurantismo hanno funzionato come un vaccino, l’osservanza stretta è vissuta con disagio. Questa settimana è partita l’offensiva per riprendere Raqqa, capitale siriana dello Stato islamico. Ho elencato questa carrellata di posti per condividere una testimonianza personale, ma queste sono le esperienze anche di altre migliaia di giornalisti e di altre centinaia di migliaia di persone che sono venute a contatto con la situazione.

 

Lo Stato islamico è al collasso, perde le città una dietro l'altra, ma i giornali ci spiegano che loro sono i duri e noi siamo i molli

Lo Stato islamico collassa, perde tutti i territori che aveva conquistato e la fase del crollo è più veloce della fase delle conquiste. L’Isis ha perso Falluja, Tikrit, Ramadi, Sinjar, Kobane, Derna, Tal Abyad, Sirte, Manbij, Azaz, al Bab, Beiji, Tabqa, Palmira, Mosul est, sta per perdere anche a Mosul ovest, poi perderà a Raqqa, poi perderà in un altro paio di città dentro il corridoio dell’Eufrate tra Siria e Iraq e alla fine non avrà più territori sotto il suo controllo. I pozzi di petrolio che garantivano introiti? Andati quasi del tutto. Il progetto di una moneta d’oro, il dirham, che doveva rimpiazzare le monete degli infedeli? Fallito prima nascere. I leader? Eliminati uno a uno dalle bombe e non credete a chi dice che tanto si rimpiazzano, certe esperienze formative sono durate dieci anni, lasciano buchi difficili da colmare. Non accettereste lo stesso discorso – “tanto uno vale l’altro” – per la squadra che tifate o per il partito che votate.

 

Dice: ma che importano le città, quello che conta è l’ideologia. Qui c’è un grande fraintendimento da chiarire. L’ideologia dello Stato islamico è il territorio. Il territorio è l’ideologia dello Stato islamico. Lo Stato islamico si basa per intero su poche convinzioni, una è che i suoi uomini stanno rivivendo la vita e i successi dei primi compagni del profeta Maometto, i sahabah, che da una piccola enclave nella città di Medina sfidarono tutto il mondo e crearono l’impero islamico, l’altra è che la fine dei tempi è vicina e l’apocalisse sarà annunciata da una battaglia finale contro l’armata dell’anticristo a Dabiq, che è un piccolo posto nella pianura fra Siria e Turchia. Questa è la convinzione forte dello Stato islamico, che spinge i suoi uomini a immolarsi in guerra e a fare stragi. Ma se la piccola enclave che dovrebbe rivivere i fasti della Medina maomettana non esiste più perché è spazzata via dalla mappa geografica? E se la fine dei tempi non arriva, allora che si fa? Come faranno i predicatori a convincere altre reclute a unirsi a un progetto che più va avanti e più è sballato? In pochi ricordano che lo Stato islamico è quasi morto nel 2010 perché non controllava più nemmeno un fazzoletto di territorio in Iraq e quindi non attraeva più combattenti, firmava i suoi proclami “Stato islamico in Iraq” ma suonava ridicolo, l’utopia aveva perso il suo magnetismo. Quell’anno il numero di volontari che partiva dal mondo musulmano, dalla Libia, dall’Arabia Saudita, dalla Tunisia e poi arrivava in Iraq per combattere sotto la bandiera nera dello “Stato” passò da cento al mese a quasi zero. Quando il predecessore di Abu Bakr al Baghdadi, che si chiamava Abu Omar al Baghdadi, viveva nascosto in un piccolo compound nel deserto a ovest di Tikrit sua moglie gli gridava contro: “Ma di che Stato islamico parli? Ma cosa dici? Ma non vedi che viviamo in mezzo al nulla?”. Abu Omar al Baghdadi fu ucciso in quel compound nel marzo 2010. Un altro episodio che spiega l’escatologia autodistruttiva dello Stato islamico e la vena di inevitabile delusione si verificò nel 2006, quando il leader di allora, Abu Hamza al Muhajir, si convinse che l’Apocalisse sarebbe arrivata nel giro di un mese e sparpagliò contingenti di uomini in tutto l’Iraq dicendo loro di tenersi pronti. Non accadde nulla, se non che alcune cellule spedite ai quattro angoli del paese in attesa dell’Armageddon disertarono.

  

La risposta dell'occidente e degli alleati contro i fanatici è una guerra di sterminio condotta con efficienza, non ci sarà un trattato di pace

Non si vede la fretta che hanno gli uomini dello Stato islamico nell’alzare la bandiera nera su ogni lembo di territorio appena preso? Non si vede quanto sono alacri nel dipingere il sigillo di Maometto sui muri, nel disporre cartelloni con il simbolo del gruppo e nell’imporre la sharia più stretta sulla popolazione (velo integrale per le donne, barba e pantaloni sopra la caviglia per gli uomini, nessuna musica strumentale) in modo da manifestare in senso pratico e fisico che il territorio è loro, è dar al islam , terra dello Stato islamico? Non colpisce, nella propaganda, l’attenzione data alle regioni geografiche, le suddivisioni amministrative, gli Uffici, i Wilayah? Il gruppo non si fa chiamare “Sostenitori del Corano” o “Esercito di Allah”, si fa chiamare “lo Stato islamico” perché si fonda sul controllo del territorio. Senza il territorio, non è dato Stato islamico. Senza Califfato, il califfo non ha più voce. Resterà una rete di gruppuscoli che conducono una doppia vita, uomini che di di giorno fanno un mestiere normale e di notte si riuniscono giù in cantina a organizzare attacchi e creare propaganda. Ma saranno sempre più isolati, più deboli e più patetici. Non si potrà combattere una battaglia apocalittica a Dabiq, perché quel posto è passato al nemico l’anno scorso. Quando lo Stato islamico vinceva, attraeva molti adepti. Ora il numero dei volontari che partono è bassissimo, un centesimo rispetto all’estate 2014. A nessuno piace far parte di un culto di perdenti.

 

E invece, a sondare l’umore dei giornali e della conversazione generale, il perdente è l’occidente. Siamo sempre sul punto di scomparire inghiottiti dalla sharia. Sempre impegnati a fare propaganda gratis per lo Stato islamico, a dire che l’occidente è debole e il nemico è fortissimo. E’ una guerra lunga, quindi sappiamo che ci saranno attacchi e contrattacchi (e che prima o poi potrebbe capitare anche in Italia). Ma qualche giorno fa dopo l’attentato di Londra un editoriale in Italia lamentava che ovviamente faremo una brutta fine, perché in natura “i molli sono schiacciati dai duri”, dove i molli saremmo noi, diciottomila raid aerei in Iraq e Siria per non parlare del resto, i duri sarebbero loro perché in tre attaccano i passanti di Londra con i coltelli per otto minuti prima di essere uccisi. Nel settembre 2014 il portavoce dello Stato islamico, Abu Mohammed al Adnani, disse che l’obiettivo del gruppo è conquistare Roma, spezzare le croci e fare schiave le donne. Se qualcuno sostiene che quell’obiettivo annunciato da Adnani – che nel frattempo è stato trovato e ucciso da un drone, come tanti altri, è oggi più vicino rispetto al 2014 o è poco informato oppure gioca a fare la Cassandra. Perché le profezie di sventura fanno più clic su Facebook, perché sono più facili e accattivanti da titolare sui giornali e perché sono una posa più interessante. L’occidente è riuscito a superare prove molto difficili come la Guerra fredda – in tutte le sue manifestazioni, dalla deterrenza atomica al terrorismo interno. Sostenere che possiamo battere squadre di fanatici che ci assalgono a colpi di furgone e coltelli e che non sono una minaccia esistenziale è un esercizio di sangue freddo che non eccita, non fa scena.

 

Una precisazione: in questa guerra i governi occidentali non usano il massimo della forza di cui dispongono perché hanno fatto una scelta deliberata. Potrebbero inviare centinaia di migliaia di uomini e di mezzi, marine e carri armati, ma preferiscono combattere una guerra ibrida: gli alleati locali – si chiamino essi peshmerga curdi, soldati iracheni, miliziani libici – ci mettono i boots on the ground, i governi occidentali ci mettono equipaggiamento, intelligence, bombardieri e forze speciali. Così i governi colpiscono due uccelli con un sasso solo, come dicono gli anglosassoni. Ottengono di non eccitare più di così la propaganda dello Stato islamico, che di sicuro farebbe dello scontro diretto a contatto con i soldati infedeli un altro motivo di richiamo per le sue reclute in tutto il mondo. Sembra già di vedere la propaganda per i teenager tunisini: venite a farvi ammazzare in battaglia contro i marine americani. E limitano le perdite di soldati, come invece per esempio non succedeva in Iraq, dove gli americani subivano fino a cento morti al mese. Oggi Sirte in Libia cade grazie all’avanzata dei miliziani locali libici (ne sono morti più di seicento) e grazie a più settecento raid aerei americani. Ma senza i crociati a terra non c’è l’aura di glamour jihadista che c’era in Iraq e in Afghanistan, non c’è il respiro della storia, non c’è epopea, c’è soltanto la morte in posti polverosi che nessuno conosce. Inoltre, troppi interventi esterni atrofizzano gli eserciti locali. Le truppe irachene che riconquistano Mosul sono le stesse che tre anni fa, incapaci di opporre resistenza, fuggirono ai primi spari. Le potenze occidentali potrebbero dal punto di vista tecnico adottare metodi più forti: potrebbero usare le armi atomiche sulle città in mano allo Stato islamico e per esempio trasformare Raqqa in un deserto di vetro radioattivo, ma questo porterebbe più complicazioni che vantaggi.

 

Se lo Stato islamico non governa più un lembo di territorio, perde il suo appeal e non riesce più ad attrarre reclute. E' la fine

Gli aerei americani sono sempre in volo sopra Mosul, sono in collegamento con gli operatori a terra, seguono l’andamento della battaglia, ricevono indicazioni, fanno saltare in aria quello che devono. Nidi di mitragliatrici, tetti usati dai cecchini dello Stato islamico, piazzole usate per i mortai, mezzi corazzati, a volte anche i camion bomba prima che riescano ad arrivare al fronte. I soldati iracheni chiedono, gli aerei eseguono, i vetri delle macchine tremano per chilometri tutto attorno. Le bombe disintegrano gli edifici, spazzano via i combattenti, aprono voragini nelle strade. A volte agli aerei è richiesto di rendere inservibile un incrocio per limitare i movimenti dei camion carichi di esplosivo dello Stato islamico che vagano per Mosul, allora sganciano una bomba e creano un cratere profondo cinque metri e largo abbastanza da impedire il passaggio. Così i soldati a terra si sentono più sicuri, sanno che le vie sui lati sono chiuse e pensano ad avanzare. Anche per i cinque ponti sul Tigri è stato così, li hanno tranciati con cinque bombe per bloccare il passaggio da una sponda all’altra. Gabriele Micalizzi, un freelance milanese che fa video e foto mi dice: “Zio, ci sono anche le forze speciali italiane”. Quando le hai viste? “Ieri, due incursori, sono embedded con la polizia federale, il capo della base li ha fatti convocare per fare la carrambata, ‘Gli italiani sono con noi!’, ma i due stavano zitti, non hanno detto una parola, non erano contenti di essersi fatti sgamare. E niente fotografie”. Ma avevano la divisa? Qualche segno di riconoscimento, qualche simbolo? “No niente, maglietta e pantaloni militari e mitra”.

 

A scanso di equivoci: si tratta di una guerra di sterminio, questa contro l’Isis. Anche se non si usa il massimo della forza non ci sarà un negoziato finale, si va avanti fino all’estinzione. Nessuno crede davvero che si tratti di un conflitto convenzionale contro un nemico che un giorno siederà a un tavolo della pace per firmare una resa, come succedeva in passato. Gli uomini dello Stato islamico sono fanatici, vogliono la morte oppure distruggere tutto quello che non è Stato islamico, non c’è altro modo di fermarli e spesso negli anni passati hanno approfittato dei periodi di detenzione nelle prigioni arabe come di un periodo di addestramento e di ripasso ideologico. Non è un caso che tutti i leader dello Stato islamico e molte figure importanti abbiano trascorsi in cella (guardate le foto, vedrete spesso hanno una tuta gialla, è la divisa del campo di detenzione di Camp Bucca in Iraq). Così, è difficile farsi illusioni sulla natura di questa guerra che è unica ma si combatte su molti fronti e in molti stati. I miliziani libici che si battevano per riprendere Sirte lo dicevano in modo esplicito ai giornalisti: non intendiamo fare prigionieri. Un bravo fotografo italiano, Alessio Romenzi, quest’anno ha vinto un premio internazionale con uno scatto che mostra gli ultimi istanti di un combattente dello Stato islamico catturato alla fine della battaglia per gli ultimi edifici della città. Strattonato dai libici, passa tra due ali di uomini che lo vogliono uccidere e finisce ucciso dalle raffiche dopo pochi metri. A settembre il giornale britannico Independent ha rivelato che gli uomini delle forze speciali inglesi, il Sas, erano a Mosul con una lista di duecento inglesi che si erano arruolati nello Stato islamico e che devono essere uccisi. I cittadini britannici che si sono uniti ai terroristi sono di più, ma quei duecento sono i più pericolosi, quelli che a guerra finita non devono tornare in Gran Bretagna. A maggio il Wall Street Journal ha rivelato che le forze speciali francesi a Mosul hanno anche loro una lista, con una trentina di nomi. Il pezzo del Wall Street Journal è interessante perché spiega che i francesi non hanno il mandato diretto di uccidere, ma devono indicare la posizione dei bersagli agli iracheni, che poi ci penseranno loro, con l’artiglieria o in combattimento (se proprio li catturano, c’è la condanna a morte per impiccagione). E’ interessante perché è un riassunto di come stiamo combattendo queste guerre ibride contro lo Stato islamico: mandiamo i nostri asset migliori e lasciamo che i colpi finali siano dati dagli alleati locali, meglio senza fare troppo notizia.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)