Zadie Smith (foto LaPresse)

Ora so chi sei, Zadie Smith

Annalena Benini

La vita quando è più nuda e brucia, e non smette di tornare là dove è cominciata la musica. “Swing time” porta il dolore e l’anima dentro la storia della guerra per diventare chi siamo

Se si potesse ignorare lo scorrere del tempo, ognuno di noi sceglierebbe il momento in cui la sua vita è più autentica, il momento che non è mai finito. L’esistenza quando è più nuda, e brucia, e non smette di tornare. Abbiamo un’immagine di noi stessi che consideriamo più importante, o dolorosa, comunque decisiva, il punto in cui decidiamo, nella nostra immaginazione e nei nostri tormenti, che la vita ha davvero inizio. Un’umiliazione, un incontro, uno squarcio. E per quante cose accadano, si compiano, per quanti cambiamenti e conquiste e movimenti fallimentari possiamo costruire, siamo ancora là: quando pensiamo a noi pensiamo a quando eravamo quella persona, quella bambina, quella donna, e a tutta la strada fatta che comunque non è riuscita a portarci via da quella casa, da quella stanza. La danza del tempo va avanti e poi torna indietro, e quando la vita ci chiede chi siamo diventati, e perché, i limiti e i sogni non realizzati e quello che non è stato, oppure l’esaltazione, tutto ricomincia da capo, e comincia in quel punto. Zadie Smith, scrittrice inglese di madre giamaicana, ha scelto la prima persona, ha scelto di scrivere: io, per raccontare la vita che cambia, il ballo dentro il tempo e i cambiamenti di ritmo e di prospettiva, ma anche la razza, la classe sociale, la difficoltà di capire chi siamo e di trovare la strada di casa. Zadie Smith, che ha scritto grandi saggi e romanzi che giravano sempre intorno all’idea di che cosa si perde e che cosa si diventa, andando via, cambiando se stessi come nel penultimo romanzo intitolato “NW” (North West, il quartiere di Londra in cui è nata e che le ha dato una voce colorata e proletaria che lei si è tolta di dosso studiando, e che poi ha inseguito di nuovo, la voce del proprio punto di partenza), adesso è tornata proprio al punto di partenza, essendo diventata grande, e ha individuato il momento in cui la vita prende forma.

 

Inglese di madre giamaicana, ha scelto
la prima persona,
ha scelto di scrivere:
io, per raccontare la vita che cambia, il ballo dentro il tempo

In “Swing time”, pubblicato da Mondadori, tradotto da Silvia Pareschi, ha preso quel momento e ci ha costruito sopra, e intorno, il mondo delle relazioni, delle aspirazioni, delle ossessioni e del cambiamento. Dando la possibilità a chi legge di aggrapparsi a un nucleo forte, e poi di cominciare la danza avanti e indietro nel tempo, e sentire la musica che fa una storia semplice, ma piena di esplorazioni letterarie e sociali: l’amicizia di due bambine che si incontrano nel 1982, a sette anni, in una scuola di danza della parrocchia, un sabato alle dieci del mattino, in un quartiere di case popolari. Ciascuna per mano alla propria madre. C’erano tante bambine quella mattina, ma ognuna notò l’altra. “La mia pelle e la sua avevano la stessa sfumatura di bruno – come se fossimo state ritagliate da una sola pezza di stoffa marrone –, le nostre lentiggini si addensavano negli stessi punti, avevamo la stessa statura. Ma la mia faccia era pesante e malinconica, con un naso lungo, severo, e gli occhi all’ingiù, come la bocca. Tracey aveva una faccia vivace e rotonda, sembrava una Shirley Temple scura, tranne che, come vidi subito, aveva un naso problematico come il mio, un naso ridicolo, che puntava dritto verso l’alto come quello di un porcellino. Carino, ma anche osceno: le narici erano permanentemente in mostra”.

 

Una storia semplice,
ma piena di esplorazioni letterarie e sociali: l'amicizia di due bambine che
si incontrano nel 1982

Non si può non pensare subito al confronto appassionante fra Lila e Elena ne “L’amica geniale” di Elena Ferrante, raccontato dallo sguardo di Elena che passerà tutta la vita a specchiarsi nella sua amica geniale, a odiarla e a rincorrerla, come fosse sempre e ancora, per sessant’anni, quella bambina sporca e magra come un’acciuga salata, che volava fuori dalla finestra lanciata dal padre e che faceva a mente calcoli complicatissimi e conosceva parole come “lussureggiante”, e che era troppo per chiunque, e a dieci anni aveva scritto un racconto che segnerà per sempre la vita della sua amica e la inciterà, per contrarietà, per ostinazione, a non lasciare che i sogni dalla testa le cadano sotto i piedi. Tracey non è una bambina geniale ma è bravissima a ballare, ha una perfezione ammaliante e molti giocattoli, molte bambole che fanno la pipì, molte cose interessanti da raccontare e fantastiche storie inventate in cui il lieto fine viene sempre distrutto in qualche modo meraviglioso (“Tiffany saltò per baciare il suo principe e tese le dita dei piedi, oh com’era sexy, ma proprio in quel momento il proiettile le entrò nella coscia”). Tracey guarda i vasi d’argilla costruiti dalla madre della sua amica e bisbiglia: sembra un pene. Unica bambina del sobborgo che ha il coraggio di ridere di una madre intellettuale e distante, accigliata e perfetta, così convinta del potere salvifico dell’intelligenza e dell’istruzione, una madre che ogni giorno aumenta il divario tra sé e il mondo proletario a cui appartiene, e che non è appassionata alla danza né alle soap opera, e che per questo saluta a malapena la madre di Tracey, benché ognuna potesse vedere dal balcone la casa dell’altra, e quello fosse il loro mondo. Ma la madre di Tracey è grassa, probabilmente beve, e quella bambina era la sua unica gioia, con quei sensazionali fiocchi gialli nei capelli, la gonna frou-frou tutta balze, una madre piena di orgoglio, ansia e speranza per il futuro da ballerina della figlia. Tracey rappresenta sfacciatamente le aspirazioni di sua madre.

 

“Sciocche lezioni di danza”. Le aspirazioni, le delusioni, il viaggio nel tempo, le andate e i ritorni riguardano anche le madri

La protagonista (l’io di Zadie Smith, che per riuscire a scrivere: io, è andata in analisi) rappresenta la speranza e la decisione di sua madre di cambiare mondo, di passare dall’altra parte. In questo romanzo le aspirazioni, le delusioni, il viaggio nel tempo, le andate e i ritorni riguardano anche le madri, i rapporti che cambiano, la soggezione che si trasforma in fastidio, la comprensione che arriva sempre troppo tardi, le tragedie che non si possono evitare. E che godimento assistere a questa danza delle relazioni umane, e ascoltare la madre della narratrice senza nome esprimere il suo manifesto esistenziale, le sue convinzioni, il suo ostinato cammino anche estetico per diventare una radical chic. Quindi naturalmente il disprezzo per il mondo di Tracey, l’amica assoluta, la bambina che diventerà una donna perduta. “Quando sei con quella bambina è bello che ci giochi insieme, ma lei è stata educata in un certo modo, e il presente è tutto ciò che ha. Tu sei stata educata in un modo diverso, non dimenticarlo. Quelle sciocche lezioni di danza sono tutto il suo mondo. Non è colpa sua: è stata educata così. Ma tu sei intelligente. Non importa se hai i piedi piatti, non importa perché tu sei intelligente e sai da dove sei venuta e dove stai andando”. Intanto il padre sbatteva le padelle in cucina, e nei litigi accusava la moglie di essere “un’intellettuale”, come forma di insulto, come richiesta di tornare fra loro, di essere una madre e una moglie. Ma lei indossava il basco, andava all’università, stava sempre pensando a qualcosa di grande, e c’era un’altra donna dentro di lei, giovane e bella e colta e sicura che moriva dalla voglia di uscire e di gettarsi nel mondo per salvarlo ed esserne salvata.

 

Sono vite e caratteri e tragedie di donne, ognuna diversa, ognuna arrabbiata, ma questa madre ossessionata dalla politica e dal miglioramento di sé e della propria comunità è un personaggio meraviglioso, pieno di rabbia, di orgoglio, di cecità, vista con gli occhi di una figlia dubbiosa, prima in soggezione e poi infastidita, infine commossa, lungo l’arco di una vita che cresce, e poi dolorosamente finisce. Ci sono pagine così luminose e profonde sul rapporto difficilissimo con una madre, con questa madre bisognosa di avere una vita tutta per sé, questa madre che non si sottomette al suo ruolo di madre. “Da bambina il suo rifiuto di sottomettersi mi confondeva e mi feriva, soprattutto perché mi sembravano assenti tutte le consuete ragioni di un simile rifiuto. Ero la sua unica figlia, lei non lavorava – non in quel periodo – e rivolgeva a malapena la parola al resto della sua famiglia. Per quel che ne sapevo, il tempo non le mancava. Eppure non riuscivo a ottenere la sua completa sottomissione! La mia prima percezione di lei fu quella di una donna che progettava la fuga, da me, dal ruolo stesso di madre”. Faccio un passo verso di lei, diceva il padre, e lei fa un passo indietro. Lei che il sabato pretendeva di essere lasciata sola perché voleva studiare, lei che quando vedeva tornare sua figlia e suo marito a casa era seccata, erano tornati troppo presto, mentre lei voleva più tempo, più pace, più solitudine. Così questo non è certo soltanto il romanzo di formazione due ragazzine della stessa sfumatura di bruno nate a metà degli anni Settanta in un sobborgo di Londra, con segreti di famiglia e possibilità allo stesso tempo infinite e limitate, è anche la lotta con la vita delle loro madri, le speranze abbandonate o nemmeno mai osate, il troppo tardi o invece la guerra per creare e afferrare le occasioni. E’ anche la storia di strade che si separano. “Era come se fossi salita su un certo treno, diretto verso il luogo dove in genere andavano quelli come me durante l’adolescenza, solo che d’un tratto qualcosa era cambiato. Mi avevano informata che sarei scesa a una fermata imprevista, più avanti sulla linea. Pensai a mio padre, spinto giù dal treno appena uscito dalla stazione. E a Tracey, decisa a saltar giù proprio perché preferiva camminare che sentirsi dire qual era la sua fermata o fino a dove le era consentito arrivare. Be’, non c’era qualcosa di nobile in quella decisione? Non c’era almeno un po’ di combattività, un po’ di audacia? E poi c’erano tutti i vergognosi casi storici che avevo sentito raccontare da bambina, le storie delle donne di travolgente talento – ed erano tutte donne, nei racconti di mia madre – che avrebbero potuto correre più veloci del treno in corsa, se fossero state libere di farlo, e che invece, poiché erano nate nel momento e nel luogo sbagliato, non erano potute scendere a nessuna fermata e nemmeno entrare in stazione”.

 

La ragazza non deve fermarsi, non deve gettare all'aria
la possibilità, deve andare avanti anche senza la sua amica rimasta indietro

Così adesso una ragazza nera e moderna, appassionata di danza e spinta da una madre decisa a non sottomettersi, non deve fermarsi, non deve gettare all’aria le possibilità, deve andare avanti anche senza la sua amica rimasta indietro, non deve voltarsi, ed è quello il momento in cui si decide tutta la vita. Per rabbia, per contrarietà, ma anche per l’idea che sia necessario andare lontano per salvarsi. Deve arrivare fino al glamour, e poi forse potrà tornare indietro. Ballare vicino al precipizio, e poi tuffarsi ancora nel passato, e guardare tutto in un altro modo, con una nuova compassione. Per una madre non invincibile, ma bisognosa, sconfitta. Per la musica che cambia, e allora il ritmo non è più forsennato, i sogni non sono più interi, l’amica non è più geniale, ma la storia è intatta, bellissima, e compiuta.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.