Angela, l'anti Trump

Stefano Cingolani

Perché la cancelliera punta tutto sullo scontro con il neo presidente americano. I conflitti d’interessi, soprattutto economici, tra Germania e Stati Uniti. E anche l’Italia potrebbe avere qualcosa da dire

Cosa ha in mente Angela Merkel? E che cosa vuole la Germania? Davvero intende rompere con gli Stati Uniti? Leggere il futuro non è possibile, ma per capire il più grave strappo politico-diplomatico dei nostri giorni, forse è più utile fare quattro passi nel passato. Nel 2014, a venticinque anni dalla caduta del muro di Berlino, il British Museum organizzò a Londra una grande mostra sulla Germania intitolata “Memorie di una nazione”. Il curatore, Neil MacGregor, direttore del museo britannico, ne ha ricavato un libro diventato poi la base di un programma radiofonico per la Bbc. Nell’introduzione mette a confronto alcuni monumenti eretti per celebrare i momenti fondanti di vari paesi: l’Arco di Trionfo a Parigi, il Wellington Memorial Arch a Londra e il Siegerstor (Arco della Vittoria) a Monaco di Baviera che celebra la resistenza contro Napoleone. Quest’ultimo è stato danneggiato dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale e nella parte posteriore, anziché riparare i danni, si è deciso di scolpire una lunga frase: “Dedicato alla vittoria, danneggiato dalla guerra, esortazione alla pace”. E’ la Germania post-nazista che vuol risorgere su basi nuove, ma non solo. E’ anche la Germania che torna unita dopo aver sconfitto e superato un altro totalitarismo, quello comunista. “Io non conosco nessun altro paese al mondo – sottolinea Mac Gregor – che erige monumenti alla propria vergogna e che, come il Siegerstor di Monaco, non sono lì solo per ricordare il passato, ma per garantire che il futuro sarà diverso”.

 

La nuova Germania
si sforza di non lasciare più sotto il tappeto
la sua polvere intrisa
di sangue. L'inno nazionale e la frase cambiata

A differenza da quel che pensano i nazionalisti inglesi ispiratori della Brexit, l’europeismo delle classi dirigenti tedesche nel Dopoguerra non ha nessun Quarto Reich alle spalle. Se proprio si vuol insistere con un riferimento imperiale, allora bisogna guardare piuttosto al Sacro Romano Impero, patchwork di principati, libere città, aree di libero scambio (la Lega anseatica per esempio), mélange di lingue, razze e religioni, turbinio di classi sociali dal quale emersero gli uomini dei borghi, artigiani, mercanti, scrivani che diventeranno poi la classe dominante dell’èra moderna. La Dieta di Regensburg (Ratisbona) per molti versi assomigliava al consiglio dei capi di stato e di governo che oggi guida l’Unione europea. C’è tra gli storici inglesi e americani una recente fioritura di studi su quell’esperimento singolare di “imperialismo liberale” che molti vorrebbero collocare a modello di questa altrettanto bizzarra costruzione sovrastatale e multinazionale chiamata Ue.

 

La frammentata Germania dove ogni città compete per la propria birra e la propria salsiccia (a Francoforte ancor oggi le fanno di manzo, eredità della grande comunità ebraica prima che venisse sterminata) era unita allora da uno spirito comune (la lingua arriverà con Lutero e poi quella colta solo con Goethe) che si sentiva confusamente erede della civiltà greco-romana. Quando il principe Ludovico di Baviera tra il 1830 e il 1842 fa costruire il suo Walhalla su una collina che guarda il Danubio, vuole che il tempio assomigli al Partenone. Gli eroi celebrati al suo interno non sono Sigfrido e Crimilde, ma filosofi, artisti, scienziati, di fronte ai quali sostano i busti dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria e di Federico il Grande che sognava di trasformare Berlino nell’Atene del nord con l’Accademia nella quale la libertà d’opinione era totale. La Prussia era certamente una nazione di ferro, ma l’unificazione tedesca sotto il tallone dell’aristocrazia guerriera mise fine a due secoli durante i quali i territori tra il Reno e l’Elba venivano invasi non dalla Russia, bensì dalla Francia. L’impronta prussiana non può essere rimossa e non va dimenticato il nazionalismo etico ed etnico, da Herder a Wagner, da Heidegger a Hitler. La nuova Germania si sforza di non lasciare più sotto il tappeto la sua polvere intrisa di sangue. Per capirlo non è male visitare, tra l’altro, il nuovo palazzo del Reichstag e leggere sui muri le scritte in cirillico dei soldati russi che lo occuparono. Nell’universo simbolico che forma il Volksgeist, un posto di rilievo va dato all’inno nazionale e alla bandiera. Il vessillo giallo, rosso e nero, proviene dalla rivoluzione liberale del 1848 e fu innalzato di nuovo dalla Repubblica di Weimar nel 1918. La musica dell’inno risale a Joseph Haydn, composta per onorare l’imperatore d’Asburgo. Il testo è stato scritto da August Hoffmann in quello stesso Quarantotto che ha trasformato l’Europa. Il verso più famoso, “Deutschland, Deutschland über alles” vuol dire che la patria è più importante di chi la opprime e la comanda. Nessuna nietzschiana volontà di potenza, dunque. Eppure, quel che si canta oggi è diverso. La fatidica frase è stata cambiata dopo la Seconda guerra mondiale con “Einigkeit, Recht und Freiheit”, unità, giustizia, libertà.

 

La cancelliera "irresponsabile"
per Gideon Rachman. Ma ha già raccolto
gli applausi della Spd, che prepara la nuova Grosse Koalition

Può sembrare una digressione oziosa, piccole pillole di storia, ma è proprio lì, nella storia, che bisogna affondare per inquadrare il presente. La Kanzlerin sta esagerando, ha scritto il Wall Street Journal: “Una divergenza sul clima non vuol dire che gli Stati Uniti si ritirano dall’Europa”. Gideon Rachman sul Financial Times definisce addirittura “irresponsabile” Angela Merkel. E anche il settimanale liberale Der Spiegel si chiede se i clamorosi commenti della cancelliera siano un vero punto di svolta o solo un ballon d’essai elettorale. Vuole addirittura vincere le elezioni presentandosi come l’anti Trump, perché The Donald incarna l’antitesi di tutto quello che la Germania ha voluto essere ed è diventata? Certo, la cancelliera ha già raccolto gli applausi dei socialdemocratici i quali preparano una nuova Grosse Koalition dopo il voto del 24 settembre. Ma è duro varcare il confine che separa il dissenso dal disdegno. Molti si sono lanciati in sofisticate interpretazioni diplomatico-strategiche: la nuova luna di miele con la Francia di Emmanuel Macron, la necessità di rispondere alla sfida di un Vladimir Putin non più contrastato, ma coccolato dalla Casa Bianca, mentre rispuntano i tradizionali timori sullo “spazio vitale” sempre dietro l’angolo. Le analisi diplomatiche, per non parlare delle ossessioni ideologiche, non vedono che cosa è diventata la Germania oggi e come si sono trasformati i suoi interessi di fondo.

 

Dopo la fine della Guerra fredda, l’Unione europea è il contenitore istituzionale che ha consentito di sposare est e ovest, sacrificando persino quanto i tedeschi avevano di più caro, il solido Deutsche Mark. In cambio Berlino ha ottenuto non la guida dell’Europa, ma l’ingresso in grande stile nella globalizzazione. Angela Merkel, cresciuta nella Germania comunista, oscura e separata dietro il muro della vergogna, quando afferrò bruscamente le redini della Cdu dalle mani di Helmut Kohl nel lontanissimo 2000, non immaginava davvero di diventare l’alternativa dialettica agli Stati Uniti. Da allora ha percorso un cammino davvero lungo e inaspettato, in sintonia con la trasformazione del suo paese, e adesso non si tirerà certo indietro. Nel 2002 entra in circolazione l’euro e la Germania è “il malato d’Europa”. Oggi, secondo il McKinsey Global Institute è l’economia che ha saputo approfittare della globalizzazione meglio di ogni altro: ne ha tratto più benefici della Cina e degli Stati Uniti e in qualche modo ha contribuito a plasmarla penetrando in modo massiccio in Asia e in altri continenti. Lo studio misura l’interscambio mondiale di beni e servizi tra il 1980 e il 2012, i conseguenti movimenti della moneta e delle persone tra paesi e aree del mondo. Ebbene, l’economia tedesca risulta al secondo posto nel flusso di dati e al primo posto in termini di valore per quel che riguarda le merci. A differenza dalla Gran Bretagna che si è concentrata nei servizi finanziari o dalla Francia che ha privilegiato le macrostrutture (dai treni alle catene alberghiere, dal nucleare ai mega centri commerciali), la Germania ha mantenuto la centralità della manifattura, portando i suoi prodotti in alto nella scala della qualità. Oggi Trump vuole rispondere con una re-industrializzazione americana favorita dal nuovo protezionismo. La sua polemica sulle troppe auto tedesche vendute negli States trascura il particolare che Detroit non è in grado di produrre vetture come le Mercedes o le Bmw. Persino la Tesla che vuol cambiare il paradigma automobilistico, scopre che i tedeschi stanno per mettere sul mercato auto elettriche a costi inferiori e altrettanto attrattive.

 

La quota
delle esportazioni americane sul prodotto lordo è del 13 per cento, quella tedesca arriva quasi alla metà del pil

Gli Stati Uniti rappresentano un enorme mercato sostanzialmente chiuso. La quota delle esportazioni sul prodotto lordo è del 13 per cento appena, quella tedesca arriva quasi alla metà del pil. Gli americani scambiano i loro prodotti con il Canada, il Messico, la Cina mentre la Germania ha un peso piccolo (tra il 3 e il 4 per cento). Il resto del mondo compra soprattutto iPhone, film, social media, tutto ciò che Trump detesta, ma dal quale piovono profitti a palate. Da un telefonino concepito in California e montato in Cina, la Apple ricava 55 dollari su cento. Mai nella storia si era vista una tale appropriazione di valore, anche se The Donald non lo capisce. Il suo acciaio, il suo carbone, anche le sue automobili, vanno bene negli States, non in Europa. E non c’è dazio o tariffa che possa invertire questa tendenza strutturale.

 

I paesi europei, allora, sono chiamati a scegliere. Il dilemma Trump o Merkel è scomodo per tutti, a cominciare dagli italiani per i quali tenere i piedi in due staffe è diventato un vantaggio comparato. L’intesa che la Merkel e Macron hanno annunciato di voler riverniciare, non è esclusiva. All’interno dell’Europa, non si può fare a meno di Italia e Spagna sul fianco sud e, sia pure in modo diverso, della Polonia a est. All’esterno c’è la Cina che approfitta delle tensioni occidentali, ma come si fa a tagliare i ponti sull’Atlantico? E non è solo una questione di sicurezza militare. Facciamo un altro passo indietro, ma questa volta solo di vent’anni. L’unificazione tedesca da un lato, la nascita dell’euro dall’altro, sono segnati dall’intesa, non sempre idilliaca, tra un Helmut Kohl pervaso dalla missione unificatrice e un François Mitterrand che, nel suo ruolo di presidente socialista, ha dovuto vincere la diffidenza verso la nascita di una Grande Germania. Un contrasto forte si manifesta nel 1991 durante le trattative di Maastricht dalle quali uscirà il trattato per l’unione monetaria, perché nel frattempo è scoppiata la prima grande crisi geopolitica del dopo Guerra fredda. La Jugoslavia è in frantumi. Kohl impone il riconoscimento unilaterale della Croazia a un Mitterrand filo-serbo (in sintonia con la tradizione francese). Una scelta foriera di disastri, guerre, massacri, ferite che non si sono ancora rimarginate. Anche la nascita dell’euro è segnata da un’altra grave crisi del mondo nuovo, quella che spazza via il sistema monetario creato negli anni Ottanta. Il crollo dello Sme nel 1992 è a sua volta la conseguenza dell’implosione dell’Unione sovietica, e non a caso le prime avvisaglie partono dal markka finlandese, coinvolgono tutte le corone scandinave e s’abbattono poi sulle due lire, quella britannica e quella italiana, considerate gli anelli deboli dell’intera catena.

 

L'acciaio e il carbone
di Trump e pure le auto vanno bene
negli States,
non in Europa.
E non c'è dazio
che possa invertire
la tendenza

L’unione monetaria nasce per difendersi dall’instabilità provocata da un dollaro libero di fluttuare a piacimento, governato dalle priorità politico-economiche degli Stati Uniti. E’ la seconda linea di difesa, ben più solida della prima innalzata dopo che Richard Nixon a ferragosto del 1971 decise, senza avvisare nemmeno gli alleati, che il biglietto verde non era più convertibile in oro come stabilito nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods. Una scelta unilaterale. America first, anche allora. La risposta arrivò grazie all’iniziativa di Valéry Giscard d’Estaing, presidente centrista-liberale della Francia e di Helmut Schmidt, cancelliere socialdemocratico della Repubblica federale tedesca. Cominciarono gli incontri attorno al caminetto ai quali vennero invitati gli Stati Uniti (presidente Gerald Ford) e che saranno via via allargati ai maggiori paesi industrializzati (il Gruppo dei 7 si riunì per la prima volta nel 1975 nel castello di Rambouillet vicino a Parigi). L’Italia, allora prostrata dalla crisi petrolifera, dalle lotte operaie, dalle rivolte studentesche e dal terrorismo rosso e nero, fece il diavolo a quattro per non essere tagliata fuori e riuscì a sedere al tavolo dei Grandi. Oggi che il G7 è arrivato sull’orlo di una crisi esistenziale, mentre la Germania si prepara addirittura a isolare gli Stati Uniti al G20 del 7-8 luglio ad Amburgo, l’Italia soffre di nuovo di una simile crisi di abbandono. Vale la pena, allora, rileggere l’analisi di Joschka Fischer, già leader dei Verdi, ministro degli Esteri e vice-cancelliere dal 1998 al 2005 nei governi guidati da Gerhard Schröder, una delle più brillanti menti politiche tedesche. Intervistato due anni fa dalla rivista il Mulino, sottolinea che “nella relazione franco-tedesca c’è sempre stato un fattore di riequilibrio e l’Italia ha giocato un ruolo da entrambe le parti”. Non va dimenticato che proprio a Maastricht nel dicembre 1991 fu Andreotti a offrire la via d’uscita diplomatica all’impasse tra Kohl e Mitterrand. “Dagli anni dei governi Berlusconi – secondo Fischer – l’Italia ha perso questo ruolo ed è un peccato, non dico un disastro, ma quasi. Ci mancano la voce dell’Italia e la sua funzione riequilibratrice, una funzione molto importante nel binomio franco-tedesco e molto importante per l’intera costruzione europea”. Questa mancanza s’è trasformata in vera e propria avversione tanto che il paese più europeista è diventato il più euroscettico. Eppure il rinnovato asse renano diventerebbe una instabile passerella senza l’Italia così come sarebbe un filo teso nel vuoto senza un nuovo, solido rapporto con gli Stati Uniti. Emmanuel Macron e Angela Merkel dovrebbero riconsiderare innanzitutto l’entente cordiale tra Giscard e Schmidt, mentre i consiglieri di Trump dovrebbero studiare come Ronald Reagan seppe inserirsi nella coppia Kohl-Mitterrand. Anche Roma a quel punto avrà qualcosa da dire e non poco da offrire, a condizione che sappia garantire stabilità politica e crescita economica.
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