Sul marciapiede un robottino bianco, sembra un piccolo cane. A San Francisco ormai se ne vedono spesso. “Fa le consegne a domicilio!”, dice il cavalier Capobianco

Il cavaliere casual

Michele Masneri

Dalla Valtellina alla Silicon Valley. Parla Fabrizio Capobianco, un’autorità morale tra gli startupper italiani d’America

San Francisco. E’ il cavaliere della Repubblica più casual, di sicuro l’unico ad aver ricevuto le insegne in maniche di camicia (azzurra) e bretelle (rosse). Fabrizio Capobianco, autorità morale tra gli startupper italiani d’America, è fresco della nomina e soprattutto soddisfatto della vittoria della Juve (in quanto fondatore dello Juventus Club Silicon Valley. “Siamo 160 membri, ci riuniamo quando può Luca”, ci dice, dove Luca è Luca Maestri, cfo di Apple, “tesoriere del club, io e la Apple abbiamo lo stesso amministratore, quindi”, e ride).

 

“Per le partite ci vediamo qui in un bar, anche se non sempre è facile perché col fuso sono a orari improbabili, tipo alle sei di mattina come la finale di campionato”. Prossimo raduno? “La finale di Champions del 3 giugno”. “Il problema della valle è che è lunga, ieri abbiamo fatto una cena sociale a San José ma quelli di San Francisco non son venuti”. Dalla Valtellina alla Silicon Valley, Capobianco fa parte di quella genealogia dei serial entrepreneur che qui sono i padri nobili, ha fondato un’infinità di aziende ma le più famose sono Funanbol, una specie di cloud prima che il cloud diventasse di moda (30 milioni raccolti), e Tok.tv, applicazione per tifare insieme (“mi resi conto che vedere la partita da soli è tristissimo”), con accordi con Barcellona, Real Madrid, Juventus. Cinque milioni di dollari raccolti, 20 milioni di utenti, 15 dipendenti, di cui 10 in Italia e il resto qui.

 

E' l'inventore del "modello duale": ricerca in Italia e portafogli in California. "Niente di più scarso del talento in Silicon Valley"

Perché Capobianco è anche e soprattutto l’inventore del cosiddetto “modello duale”, cioè ricerca in Italia e portafogli in California. “Non c’è niente di più scarso del talento qui in Silicon Valley” ci dice davanti a un’insalata da Donato, ristorante piemontese a Redwood City, prima fermata della ferrovia da San Francisco (fermate successive Menlo Park, Palo Alto, Mountain View); una specie di Casina Valadier da startuppari tra palazzoni che vengono su per nuove startup miliardarie al suono del gong-gong del trenone d’alluminio che sferraglia e suona come nei film di Sergio Leone. “E’ il paradigma del pomodoro” spiega Capobianco. “Se pianti un pomodoro a Napoli e uno in Norvegia, probabilmente quello a Napoli crescerà più velocemente e con meno sforzo. Così se devi fondare una startup, lo puoi fare in Italia o in Silicon Valley (dove la Silicon Valley sarebbe Napoli). “Qui ti danno i soldi per cominciare, quelli per crescere, c’è un mercato per l’exit”. “Però c’è un problema: la risorsa più scarsa qui sono i talenti. Qui è impossibile assumere. Se gli ingegneri sono bravissimi fondano la loro azienda, se sono medi vanno a lavorare per qualche startup. Se sono pigri e vogliono fare la bella vita vanno a lavorare a Apple o a Facebook o a Google. Se sono scarsi, comunque vogliono degli stipendi bestiali e se la tirano da morire e vogliono i benefit da Silicon Valley tipo lo chef e la lavanderia e la piscina aziendale”.

 

Ecco allora l’idea di tenere il piede in due scarpe. Aprendo a Pavia il centro ricerca con 70 ingegneri e poi la sede generale, marketing e vendite qui a San Francisco. “Gli ingegneri italiani sono i migliori. Un altro vantaggio che hanno è che sono molto leali verso le aziende, non lasciano dopo un anno come qui, per andare da un’altra parte”. Un modello, quello duale, che ha fatto scuola ma che adesso con Tok tv è stato superato da quello di azienda liquida. “Mi sono reso conto che andava fatto un ulteriore passaggio, perché anche in Italia è difficile trovare 30 ingegneri tutti a Pavia. E gli italiani non vogliono cambiare città”. Ecco così l’idea di azienda senza ufficio, 15 persone sparse tra la Sardegna, la Sicilia, il Monferrato, e poi Londra, Cina. “E poi ci ritroviamo ogni tre mesi in qualche posto per stare insieme e siamo tutti più felici”.

 

Parabola di uno startupparo globale. “Sono figlio di psichiatri, sono cresciuto in manicomio” racconta Capobianco. “Siccome entrambi i miei dovevano fare le notti di guardia, siamo andati proprio a vivere nel manicomio di Sondrio”. “Eravamo figli del dottore, ci trattavano benissimo, mi ricordo che i cosiddetti matti mi compravano il gelato”. “Capobianco però è un cognome napoletano, il nonno era un ispettore scolastico di Caiazzo, poi trasferito a Mantova, poi spostati sempre più su, in Valtellina, mia moglie è mezza svizzera”. Poi c’è una nonna professoressa di greco e latino, che gli fa la prima “intro”, come si dice qui. Nel 1995 infatti Capobianco mette su la prima azienda per fare siti internet. “Si chiamava Internet graffiti, erano gli anni del modem che fischiava. L’idea di connettere i computer mi sembrava rivoluzionaria. Andavo dalle aziende che mi sembrava avessero bisogno di un sito, e quelle mi dicevano: cos’è un sito internet?”. “Mia nonna non so come conosceva il presidente del Touring Club italiano, allora vado, mi presento, era un signore anziano, mi ha detto molto serio, ‘ma io non farò certo affari con un ragazzino di ventitré anni!’”.

 

"I cicli ormai si sovrappongono: ora c'è l'auto senza conducente, il cloud, l'intelligenza artificiale, e sono tutti qui, contemporaneamente"

“Uno dei primi siti che abbiamo fatto era quello per i violini di Cremona, poi abbiamo fondato un’altra azienda che costruiva reti Intranet, l’abbiamo fatta per la Bocconi, per la Rai, per un sacco di aziende. Poi sono venuto per la prima volta in Silicon Valley e sono stato a Stanford, lei aveva un lavoro come ricercatrice, io no, ma abbiamo deciso di trasferirci comunque”. Mentre mangiamo le nostre insalate scutrettola accanto a noi sul marciapiede un robottino bianco, sembra un piccolo cane. A San Francisco ormai se ne vedono spesso. “Fa le consegne a domicilio!”, dice il cavalier Capobianco. Tra le varie rivoluzioni, ha cavalcato quella del trading online, quando gli italiani sognarono di essere tutti Gordon Gekko. “Parlammo con quelli del Credito Valtellinese, la prima banca online d’Italia. Sono andato dal presidente e gli abbiamo chiesto che misure prevedevano per la sicurezza, all’epoca erano tutti terrorizzati per la sicurezza. “Che significa, è una valle piccola, i bonifici li facciamo per sentito dire!”, mi disse lui sdegnato. Loro sono riusciti a partire per primi proprio perché in paese si conoscevano tutti e non l’hanno proprio considerata questa cosa della sicurezza, mi ricordo ancora questo presidente con l’accento valtellinese, mentre tutti avevano chiavette e controchiavette loro sono partiti con login e password e basta”.

 

Differenze coi banchieri valtellinesi? “Io sono la dimostrazione dell’american dream” dice ancora Capobianco. “Venivo dall’Italia e non ero nessuno, e mi hanno dato 5 milioni”. I venture capitalist, cioè i veri masters of the universe qui, “danno soldi a chi ha già fatto fare loro soldi, o a loro amici, o a chi si sta laureando a Stanford o Berkeley e ha meno di vent’anni. L’unico startupper vecchio era Reid, quello di LinkedIn”. Una speranza per tutti noi. “Anche io sono troppo vecchio, mi definisco il nonno degli startupper. Ormai la startup da un miliardo non la faccio più, ho la famiglia, il cane, la casa, non correrei più rischi, so gli errori da non fare. E i fondi questa cosa la sanno, chi fonda le startup da un miliardo ha tra i 18 e i 25 anni”.

 

“Come quelli di Mashape”. Chi? “Sono dei personaggi, lui è Augusto Marietti, li ho conosciuti che avevano ventidue anni, sono venuti in Silicon Valley e non avevano un soldo, dormivano sul divano a casa di Kalanick, il fondatore di Uber”. Ma cosa fanno? “Pezzi di informatica. grandi affabulatori. Adesso hanno come investitore Andreesen Horowitz”, cioè la Mediobanca di Silicon Valley. “Loro sono l’unica vera startup italiana che può fare il botto qui”. Anche perché avere dentro l’investitore fico fa la differenza.

 

“Silicon Valley è un piccolo paese, e alla fine chi ti compra sono sempre gli amici degli amici” dice Capobianco. “Nel board di Google per esempio c’è Sequoia”, cioè un fondamentale fondo di venture capital. “E Facebook ha comprato Whatsapp anche perché Zuckerberg è andato in ciabatte da Sequoia”. Che c’entrano le ciabatte? “Eh, Zuckerberg aveva litigato con quelli di Sequoia, è andato lì da loro letteralmente in ciabatte a fargli una presentazione sul perché non avrebbero dovuto investire su Facebook, prendendoli per il culo, perché sapeva che avrebbe preso soldi da altri. Quelli però se la sono legata al dito, anche se era Zuckerberg. Quindi poi lui ha comprato Whatsapp per venti miliardi anche un po’ per ricucire con loro, che erano uno dei principali investitori di Whatsapp, e loro hanno fatto tipo 3 miliardi di profitti”.

 

"Gli ingegneri italiani, i migliori. E sono molto leali verso le aziende: non lasciano dopo un anno come qui, per andare da un'altra parte"

Capitalismo di relazione in Silicon Valley, manco Supergemina negli anni Novanta. Però in ciabatte. Ma come si arriva ai grandi fondi? “Eh. Devi essere presentato”. Non esiste che mandi una mail? “No, ne ricevono diecimila al giorno”. Tipo manoscritto alla casa editrice. “Devi riuscire a parlare con un general partner, l’unico che ha potere di dire sì. Quelli sotto hanno solo potere di dire no. Per arrivare al general partner devi aver preso un buon finanziamento seed prima (cioè i finanziamenti iniziali). Gli parli, lo emozioni, poi devi convincere un altro, allora se gli piaci ti passano a un loro analista che comincia a spulciare i conti, e poi vieni ammesso ai loro partner meeting che fanno ogni lunedì mattina, poi cominciano a chiamare i loro amici che conoscono il mercato bene e poi vieni ammesso al partner meeting nella seconda parte del lunedì mattina”. Tipo consiglio dei dieci assenti. “I partner devono essere tutti d’accordo”. Se alla fine però dopo la defatigante tenzone ti accettano, “ti sottopongono un termsheet in cui ti propongono i termini dell’investimento. Poi magicamente dopo il primo ti arrivano altri termsheet e quello è un momento bellissimo, ti senti come una gnocca che entra in un locale e tutti ti vogliono”.

 

Buttiamola in caciara. Ma se uno prende i soldi e scappa, oppure fallisce e se li inguatta? Capobianco mi guarda perplesso. “Questa è una cosa tipicamente italiana come pensiero. Questa è una valle piccola, se fai una cazzata una volta non ti dà più i soldi nessuno. Ma tipo Snapchat, con il titolo che crolla e i fondatori che si son presi zilioni di compensi? “No, in quel caso sono tutti felici, i fondatori hanno fatto un sacco di soldi, gli investitori pure, con lo sbarco in Borsa, sono i piccoli azionisti quelli che sono rimasti fregati” (insomma, pare di capire che il parco buoi finisce sempre male, a Piazza Affari come a Wall Street).

 

Altre differenze culturali devastanti, però: un tema a noi tanto caro, le fatture. “Quando mi arrivano, io le pago ovviamente subito. E in Italia rimangono sconvolti, perché in Italia c’è questa abitudine a pagare a novanta, a centoventi giorni. Devono fare l’F24. C’è un’azienda fornitrice che non me le manda. Lavora e non vuole essere pagata. Eh, dobbiamo fare l’F24, mi dicono. Ma che è l’F24? Così se paghi subito invece loro si emozionano. Arriva il bonifico dall’America! Si commuovono! Alcuni le pretendono per posta, le fatture, neanche per corriere, proprio per posta. Perchè vogliono avere la possibilità di dire che la fattura non è arrivata. La fattura scatena il genio del male italiano”.

 

Ma insomma questa Silicon Valley rimarrà, qualche bolla esploderà, che succederà? “Sono cicli. C’è stato quello dei computer, poi il mobile, poi il social, poi la sharing economy, e questi cicli stanno diventando sempre più ravvicinati e ormai si sovrappongono: ora c’è l’auto senza conducente, il cloud, l’intelligenza artificiale, realtà virtuale e aumentata, e sono tutti qui, contemporaneamente. Questo rimane come il distretto della seta di Como, qui c’è l’industria, qui ti danno i soldi per cominciare, quelli per andare avanti, qui ce la fai anche se sei nessuno, come Zuckerberg che era solo uno studente universitario”. Anche lui è figlio di una psichiatra, lo sapevi? “No”. “Però mio papà, che ancora esercita, in Valtellina, mi dice che ogni volta che esce un articolo su di me, il giorno dopo ha un’impennata di nuovi pazienti che gli telefonano”. Pazzi per le startup, vedremo cosa succederà nei prossimi giorni.

 

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