Per noia e per diletto

Fabiana Giacomotti

Benestanti, quarantenni, senza bisogno di lavoro ma con l’ansia di un “progetto”. Ecco le nuove creative

Qualche settimana fa, lo sceneggiatore televisivo americano Tom Coleman ha dato alle stampe per Rizzoli International un divertente volume in cui raccoglie, sontuosamente fotografati, gli scivoloni estetici di amici famosi e universalmente noti per il loro buon gusto. Vi compaiono Linda Fargo, fashion director di Bergdorf Goodman, al cui passaggio la folla delle sfilate si fende riverente e muta come non riuscì neanche a Cecil B. De Mille per i “Dieci comandamenti”, dove recitavano comparse pagate, oppure Nick Wooster, simbolo mondiale dello stile maschile che posta su Instagram il doppio di scatti quotidiani di Chiara Ferragni pur essendo attraente la metà di lei, o ancora il regista Michael Moore e Molly Shannon, la star del “Saturday Night Live” che Sofia Coppola volle nel ruolo della “tante Victoire” di Maria Antonietta e che pare non faccia ridere per niente le commesse delle boutique quando va a fare shopping. Insomma, personaggi che anche davanti allo specchio sanno il fatto loro e che ai vicini non capita mai di cogliere la mattina mentre escono a portare a spasso il cane indossando una vestaglia diversa da quella che Gucci e a ruota Zara propongono per la sera, e che nessuno vedrà mai in un bad hair day, cioè con i capelli sporchi e lo sguardo corrucciato, perché fanno la piega tutti i giorni, fosse pure per piegarsi i baffi. Tutta questa gente che di estetica e di stile vive e guadagna parecchio, nasconde come noi nei propri guardaroba pezze e oggettistica che “non può credere” di aver acquistato e addirittura indossato (il titolo del libro è infatti “I actually wore this. Clothes we can’t believe we bought”): cappellini da baseball di pelle nera con le orecchie da coniglio, abiti da sera a palloncino in raso duchesse rosa e pizzo nero, maglioni ricamati con il muso di Pluto e la lingua di fuori, stole di pelliccia viola e costumi da yeti. Insomma, più che dei “fashion faux pas”, cioè dei passi falsi come si definiscono con snobistico pudore, una sequela di orrori.

 

Orecchini di fattura incerta o puerile, guanti di falso camoscio dipinti a mano, banali pochette e tracolline in vero coccodrillo

Ho sfogliato il libro avidamente, talmente sollevata ed elettrizzata da decidere di acquistarlo subito per potergli dare un’occhiata ogni qualvolta l’ansia da saldo stracciato o il sottile ricatto dell’amicizia mi farà portare a casa, e subito nascondere sul fondo dell’armadio o di un cassetto, oggetti comprati sul filo di una logica demenziale (avete presente il genere: un giorno questa maschera antigas griffata potrebbe tornarmi utile) o dell’imperio più sottile e coercitivo dell’affetto, e mi riferisco all’infinita serie di orecchini di fattura incerta o puerile, di guanti di falso camoscio dipinti a mano, oppure di banali pochette e tracolline in vero coccodrillo però costose come una Kelly di Hermès che rappresentano tutte il tributo pagato, e anche costantemente sollecitato, a una schiera sempre più numerosa di amiche, conoscenti e conoscenti delle amiche che, arrivate a trentacinque, quaranta o anche cinquant’anni senza una professione o avendola abbandonata dopo un dovizioso matrimonio nutrendo la certezza di poterlo riprendere nel punto esatto in cui l’avevano lasciato lustri prima, come se il referendum Alitalia non fosse andato fallito insieme con la credibilità dei sindacati e il mondo fosse rimasto fermo ad aspettarle, una volta trovate tutte le porte degli studi e delle aziende d’Italia sprangate, ritengono giunto il momento di buttarsi nella mischia o di tornare a cavalcare l’onda con un loro “progetto”. Partono da studi, esperienze, idee diverse: poi, vuoi perché farsi offrire una partnership in uno studio legale o notarile dopo anni e talvolta decenni di interruzione è difficilissimo non solo in Italia ma perfino negli Stati Uniti (negli anni pre-crisi, solo il quaranta per cento di chi aveva lasciato il lavoro al massimo due anni prima di un’interruzione significativa come la maternità riusciva a trovare un lavoro a tempo pieno gradito e interessante; adesso è possibile che la percentuale sia ancora più bassa); vuoi perché non hanno alle spalle alcuna esperienza, finiscono tutte per darsi all’abbigliamento o al suo succedaneo più diretto e in apparenza meno impegnativo, gli accessori. Pochissime, dotate di capacità e di fiuto imprenditoriale vero, o anche di semplice abilità nella scelta degli appoggi necessari per dare la scalata a un sistema di complessità imparagonabile con qualunque altro, riescono, e le trovate adesso nelle boutique di moda o nelle gioiellerie di Madison Avenue, il loro nome di famiglia sussurrato dalle commesse come leva ulteriore di vendita e di storytelling, come Lucia Odescalchi o Michela Bruni Reichlin, entrambe però professionalmente cresciute nel mondo dei gioielli, la prima come designer e la seconda come direttore della boutique Damiani di Roma. Le altre impestano le mail e gli account whatsapp della propria cerchia di inviti a cui non si sa come sottrarsi: “Talvolta non ci vado nemmeno, per non trovarmi nell’imbarazzo di acquistare nulla o di spendere soldi per oggetti che non saprei nemmeno a chi regalare”, dice Benedetta Lignani Marchesani, che pure è una pr, e per di più dotata della migliore agenda di Roma. Un paio di anni fa si è inventata la Bizantina Bag, pochette in pezzi unici realizzate in tessuti antichi e molto sofisticati, assemblate da lei e dalla figlia e cucite da una sarta della couture. Le vende solo a chi le va, secondo una logica seguita da molte altre. Secchielli di cuoio, buste di pitone, il libro preferito privato delle pagine e provvisto di catenella. Vanno a successive ondate di tendenza, di solito prendendo spunto l’una dall’altra, in quella logica un po’ liceale, un po’ petite bande proustiana che non le abbandona dai tempi in cui si rubavano i fidanzati durante le vacanze estive indossando le stesse scarpe da tennis di tela bianca. Un anno i gioielli; quindi le scarpe, scoprendo subito che per disegnarle ci vogliono competenze vere anche se a realizzarle è un grande produttore e dunque abbandonandole senza rimpianti; adesso le borse, talvolta disegnate e fatte realizzare da un bravo artigiano, non di rado solo comprate e rivendute dopo viaggi esotici, e sempre adottando lo stesso refrain di comunicazione, un mix di presunzione e ingenuità che le porta a dichiarare, in privato e perfino sui giornali, di aver lanciato proprio quegli orecchini, quelle spille, quelle bustine perché “proprio non trovavano” quello che avrebbero voluto sul mercato, come se van Cleef&Arpel, Harry Winston, Valextra o Fendi assoldassero creativi privi di fantasia realizzando anche modelli unici, su richiesta, o se perfino sulle bancarelle di Porta Rossa a Firenze non si trovassero forme e modelli interessanti, a guardare bene e superando la barriera olfattiva della concia un po’ approssimativa e molto chimica che però capita di ritrovare anche nelle creazioni delle nostre. Sono le stesse che trent’anni fa, dopo aver girato il mondo a fianco del padre o del marito diplomatico, militare di alto grado o scrittore di bestseller, si sarebbero date alle pr nell’accezione schernitrice che aveva allora, declinazione dell’acronimo “pranzi e ricevimenti”. Fanno molta tenerezza.

 

Partono da esperienze e idee diverse, finiscono tutte per darsi all'abbigliamento o al suo succedaneo più diretto, gli accessori

Fra le tante forme che il soffitto di cristallo può assumere in questi tempi grami e rancorosi, quello del benessere frustrato è uno dei più spessi e impenetrabili, oltre che reso scivoloso dal sudore freddo del ridicolo. Strette in un mondo che da una parte tiene in considerazione solo la riuscita personale e professionale, e che dall’altra esecra le velleità carrieristiche in chi non avrebbe bisogno di lavorare (conoscete il refrain che pungola anche gli spiriti meglio disposti e che ha mandato subito al massacro l’autobiografia di Ivanka Trump, “Women who work”, con i suoi cappottini: “Perché non se ne sta a casa che potrebbe fare la signora”), queste donne che non devono costringersi a un’esistenza priva di prospettive dietro il bancone di un supermercato ma vogliono poter godere di denaro guadagnato da sole hanno poche vie di uscita, o per meglio dire di riuscita. Inoltre, disabituate o mai temprate a ritmi di lavoro veri, alla sveglia che suona alle quattro del mattino perché c’è la rassegna stampa da preparare o il distributore tanto interessante e che però vive a quattrocento chilometri dal calduccio del proprio letto o dalla palestra del pilates quotidiano, pasticciano fra sogni di gloria, pigrizia e malinteso senso degli affari, aggiungendovi talvolta una discreta dose di arroganza maritale indotta, vedi il caso della moglie dell’ex ambasciatore che, dopo essersi improvvisata creatrice di scarpe, ovviamente prodotte e realizzate con un suo contributo marginale ma un importante impegno finanziario del marito, si fece presentare il proprietario della famosa boutique fiorentina e, dopo avergli piazzato la collezione, sparì senza nemmeno ringraziare la filiera di conoscenze che l’aveva sostenuta, persa dietro chissà quale altro progetto.

 

Fra le tante forme che il soffitto di cristallo può assumere in questi tempi grami, quello del benessere frustrato è uno dei più spessi e impenetrabili

Trovate queste donne a Roma come a Firenze e a Milano, un po’ meno al sud dove “domi mansit et lanam fecit” è ancora un’immagine (e una posizione) ambita rispetto al nord socializzato e arrembante dove la femmina sotto gli ottanta che la mattina posta su facebook il saluto al sole e l’immagine dei nipotini è una sfigata rispetto a quella che segnala già la propria presenza sul treno alle sette del mattino con il notebook squadernato sul tavolino davanti a sé e il caffè servito bollente per “tenermi sveglia dopo una notte a preparare la riunione” e che viene segnalata sul comunicato post evento di Prada e della vernice del grande museo veneziano in occasione della Biennale.

 

Peggy Guggenheim detestava essere considerata "una ricca con un progetto vanitoso". Più che una collezione d'arte, s'inventò una vita

Nulla si perdona, non da oggi ma da secoli, alle povere ragazze ricche, figurarsi quando queste ultime si mettono a pulire i gusci delle telline della spaghettata sullo yacht annunciando la loro prossima trasformazione in fantastici orecchini che regaleranno alle ospiti in ricordo della bella giornata e magari per far loro un po’ di pubblicità, grazie infinite e fammi un bel post se puoi mentre li indossi. Prive dell’aura di simpatia e di compassione che circondava le borghesi e le nobili decadute di un tempo, costrette ad offrire i “lavori d’ago” e i “ricami di fantasia” appresi negli anni dell’adolescenza per far fronte all’indigenza causata dalle perdite del marito giocatore d’azzardo o dal padre vittima degli intendenti e dei mezzadri, un topos molto frequentato dalla letteratura dell’Ottocento sul quale temo che molti continuino a modellare la propria opinione nei confronti delle donne che lavorano (anche Elsa Schiaparelli iniziò la propria carriera nel secondo decennio del Novecento realizzando golfini trompe l’oeil dopo essersi ritrovata sola a Parigi, marito scomparso e figlia piccola da mantenere), questo elenco di dilettanti va arricchendosi di giorno in giorno, finendo inevitabilmente, una ogni dieci per forza, ad andare ad arricchire il famoso cassetto con i simboli del proprio entusiasmo. Bisogna avere l’energia e l’intelligenza di Peggy Guggenheim, oltre alla sua disponibilità finanziaria, per capire quale ruolo interpretare se si vuole raggiungere un profilo professionale rilevante senza fatica e senza rinunciare al massaggio quotidiano di cui Ivanka lamentava la mancanza nei mesi della campagna elettorale del padre.

 

In questi giorni di apertura della Biennale d’arte a Venezia, un libro in via di pubblicazione per Thames&Hudson sulla storia di palazzo Guggenheim e delle sue tre più famose proprietarie (la meno nota è la seconda, Doris Castlerosse, prozia dell’ex-modella Cara Delevingne, ora attrice), racconta di quando, nell’estate del 1948, mentre la Laguna e il paese intero tentavano di rimettersi in piedi dopo la guerra, Peggy Guggenheim espose per la prima volta la propria collezione d’arte moderna, andando ogni giorno a godersi la lunga fila di visitatori. Fu quel trionfo, racconta l’autrice Judith Mackrell, a convincerla a comprare casa a Venezia. Detestava essere considerata solo “una donna ricca con un progetto vanitoso”. Più che una collezione d’arte, si inventò una vita. En passant, le riuscì anche di lanciare la moda degli occhiali eccentrici. Ma fu per caso.

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