Astice a colazione

Andrea Ballarini

Incontro a New York con Nero Wolfe, ma non si parla di lavoro né di orchidee. Solo di cucina e dei vizi degli chef che vanno in tv

Goodwin mi sta aspettando su una panchina della 23esima strada all’altezza del Madison Square Park. Mentre mi avvicino controllo se assomiglia alla descrizione di Stout: sopra la trentina, belloccio, espressione sveglia, con l’aria di trovarsi a suo agio nel pub dei minatori come nella sala da pranzo del castello di Windsor. Corrisponde. Sta mangiando quello che mi sembra un hot dog. Quando mi vede ingoia in un lampo l’ultimo boccone e si alza tendendomi la mano. Stretta franca e sorriso cordiale: tutto molto americano.

 

“Vuole un lobster roll anche lei?”, mi chiede. Imbarazzato confesso che non so cosa sia.

 

“Ah, ma deve provarlo assolutamente. Non può ripartire da New York senza averlo assaggiato. E quello di Luke’s lobster è uno dei migliori”. Mi indica un food truck parcheggiato pochi passi più in là; un furgone bianco e blu decorato da una composizione di silhouette di chele d’astice. Al suo interno una massiccia signorina, che dall’aspetto direi slava, confeziona a gran velocità una montagna di panini tondi, lunghi, piccoli, grandi, tutti invariabilmente a base di astice, anzi di lobster, come dicono qui. Goodwin guarda l’orologio: “Però stiamo facendo tardi e il signor Wolf detesta i ritardi. Lo mangerà con lui il suo lobster roll”.

 

E ne ordina quattro che gli vengono rapidamente consegnati in una confezione da asporto. Faccio presente che forse il signor Wolfe potrebbe non essere entusiasta all’idea di mangiare con qualcuno che conosce solo per mail. “Ah, non si preoccupi. Il mio maestro e donno non è più l’inossidabile misantropo di una volta; il tempo ha ammorbidito anche lui. Pensi che l’anno scorso ha persino saltato un pasto a causa di una visita imprevista”.

 

Rassicurato, seguo Goodwin che alza un braccio e sventola una mano. “Sono le 11.45. Prendiamo un taxi.”

 

Nel giro di due secondi accosta uno yellow cab. “Salvo imprevisti col traffico, saremo a casa giusto in tempo perché il signor Wolfe possa pranzare alla sua solita ora”, sentenzia Goodwin.

 

Tutt’intorno la Grande Mela è in frenetica attività, proprio come ci si immagina che sia, ma tredici minuti dopo l’autista pakistano ci scodella davanti al 918 della 35esima strada ovest. Quando vedo la grande casa in arenaria rossiccia, confesso che ho un momento di vertigine. La stessa emozione che si prova quando si incontra de visu qualcuno che si è conosciuto per anni solo attraverso i libri o la tv; del resto, non si nasce in una provincia dell’impero per niente. Goodwin non ha ancora fatto in tempo a bussare che la porta si apre rivelando quello che è senza dubbio Fritz Brenner, lo chef svizzero del padrone di casa. “Il signor Wolfe vi aspetta in cucina. E se posso dire, mi pare alquanto irrequieto”.

 

Goodwin mostra il sacchetto del Luke’s Lobster con un gran sorriso. “Questo lo placherà. E poi non è ancora mezzogiorno: manca un minuto”.

 

Al lungo tavolo della cucina è seduto il signor Wolfe. Ovviamente, per quelli della mia generazione, Wolfe ha le sembianze di Tino Buazzelli e in effetti il signore che con la sua mole sta mettendo a dura prova la solidità della sedia su cui è presidenzialmente assiso assomiglia parecchio al grande attore di Frascati. Le presentazioni avvengono piuttosto sbrigativamente; Wolfe è cortese e parla un italiano corretto anche se un po’ rigido, ma si capisce che la sua attenzione è assorbita dal contenuto del sacchetto che Goodwin ha consegnato a Fritz. Lo svizzero con pochi, abili gesti dispone su un piatto i tre panini per Wolfe e in un altro quello per me. Dopo un breve scambio di battute convenzionali ritorniamo all’inglese e l’immane detective può finalmente addentare con palese piacere il suo lobster roll. A me non resta che fare altrettanto.

 

Per fortuna, prima che il silenzio diventi imbarazzante, Goodwin mi viene in soccorso. “Signor Wolfe, immagino che il nostro ospite sia alquanto sorpreso dal vederla consumare un pasto non preparato da Fritz. Forse dovrebbe spiegargli la sua improvvisa conversione al cibo di strada.”

 

Wolfe ci gratifica entrambi di uno sguardo in cui traspare il disappunto per dover spostare una parte delle sue facoltà intellettuali dalla degustazione alla conversazione. Intervalla una frase ogni tre bocconi, ma io per semplicità le trascrivo tutte in fila. “Goodwin, non sottovaluti il cibo di strada: è una delle più tipiche tradizioni americane. Inoltre il nostro ospite credo sia sufficientemente intelligente da capire da sé la sublime delizia di questo panino; fatto che giustifica ampiamente la mia passione per lo stesso. Di tutto potrà accusarmi, ma non di essere snob. Scostante, probabilmente, presuntuoso, non lo escludo, irritante perfino, talvolta, ma non snob. Se una cosa è buona, è buona indipendetemente dal numero di stelle del cuoco che l’ha preparata. E questo astice è oggettivamente superlativo”.

 

Rinfrancato, mi azzardo allora a prendere la parola.

 

Signor Wolfe, le dispiace se mentre finiamo di mangiare le rivolgo qualche domanda?

 

Wolfe solleva una mano. “Escludo categoricamente di poter discutere di lavoro durante il pasto. Il signor Goodwin in uno dei suoi slanci di dissennata cordialità giovanile le avrà probabilmente detto che con il tempo mi sono ammorbidito e che mi è persino accaduto di derogare dalla piacevole scansione della mia giornata. E’ vero, il tempo passa per tutti, ma non al punto da persuadermi a mescolare sacro e profano. Al massimo, mentre stiamo mangiando, potremo parlare di cibo. Peraltro questa dovrebbe essere un’attività a cui lei, in quanto italiano, dovrebbe essere aduso”.

 

Bene, allora parliamo di cibo. Mi dica di questa sua passione per il lobster roll. “Mi permetta di correggerla. Io non ho una passione generica per il lobster roll. Io ho una passione specifica per i lobster roll di Luke. Vede, Luke, come si fa nel Maine, mantiene gli astici in acqua di mare fino al momento di cuocerli. E l’acqua deve essere continuamente sostituita, affinché la salinità sia costante. Un astice tenuto in un acquario con la stessa acqua per giorni ha, ahimè, tutto un altro sapore. E poi deve cuocere solo al vapore dell’acqua di mare, il miglior condimento naturale. Inoltre, per nessun motivo al mondo la sua carne, che è molto delicata, deve venire a contatto con un coltello: il metallo potrebbe rovinarne irrimediabilmente il sapore. E nel panino deve entrare un calibrato mix di carni provenienti dalla coda, dal corpo centrale e dalle chele, sapientemente dosato con le mani. Troppe chele e il panino risulterà eccessivamente morbido, troppa coda e sarà gommoso. E poi la maionese deve essere di ottima qualità. E questa lo è. Il pane, nel caso si adotti la pezzatura frankfurter, come questa, deve essere tostato sui lati per accogliere il burro. Qui è molto apprezzato il burro del Connecticut, anche se io preferisco quello normanno, ma non si può avere tutto. Infine, la carne deve essere fredda, ma non da frigorifero. Insomma, anche per preparare un semplice panino ci vuole talento e rigore.”

 

Ne convengo, ma certo non ignorerà che la sua fama, oltre che per le sue abilità di investigatore le deriva anche dalle sue eccentricità: orchidee e alta cucina. “Bene. Dal momento che abbiamo finito di mangiare, direi di spostarci nello studio dove sarà più pratico continuare la nostra conversazione. Desidera una birra?”.

 

Declino l’offerta.

 

“Allora, Fritz” interviene Goodwin rivolto al cuoco che è ricomparso e già sta sparecchiando i resti del pasto “le solite dieci poche bottiglie dovrebbero bastare”.

 

Wolfe non raccoglie la provocazione e mi fa strada fino allo studio, dove si installa dietro un’imponente scrivania. “Dunque, stava dicendo della fama dovuta alle mie eccentricità. Bene. Per quanto riguarda le orchidee preferisco non parlarne poiché oggi Theodor è ammalato”.

 

“Theodor Hortsmann. La bambinaia delle orchidee”, si affretta a chiarire Goodwin.

 

“Theodor ha l’influenza”, riprende Wolfe lievemente irritato per l’interruzione “e non vorrei mai parlare di orchidee alle sue spalle; quanto all’alta cucina, invece, le devo confessare che me ne sono piuttosto stancato”.

 

Stancato? Lei? Ma sta scherzando? “Nient’affatto. Quando Stout scriveva i miei romanzi, occuparsi di cucina per un uomo come me poteva passare per un’eccentricità. Oggi sarebbe addirittura usurato. Oggi, se si volesse caratterizzare un personaggio attribuendogli un qualche interesse inusuale, bisognerebbe ricorrere perlomeno alle maschere kabuki o agli incunaboli. Immagino che si sarà accorto che non c’è modo di accendere il televisore senza incappare in cuochi di ogni genere, tipo e attitudine. Dagli chef più pomposi alle più logorroiche massaie, non c’è requie. E’ un continuo sbollentare, saltare, stufare. Siamo arrivati all’inflazione. D’accordo che l’uomo è nato per soffrire, ma direi che si è passato il segno”.

 

“Forse è nato per soffriggere”, chiosa Goodwin guadagnandosi un sguardo severo del suo capo.

 

Ma che cos’è che le dà così fastidio, signor Wolfe? In fondo lei si è occupato di cucina per sessant’anni e passa prima che diventasse una moda generale e ora è proprio questo che non sopporta. Se non è snobismo…

 

Qui lo vedo come assorto e prima di rispondere fa per un pezzo quel tipico avanti e indietro col labbro inferiore che dalle descrizioni di Goodwin ho imparato essere il suo modo di chiarirsi le idee.

 

“Mi consenta. Io non sono risentito dal fatto che ci si occupi di gastronomia. Se si mangia generalmente meglio, ciò non può che rendermi felice. Quel che non sopporto è l’atteggiamento inutilmente ieratico di troppi cuochi. La cucina è anche gioia, appagamento dei sensi e non può, e non deve, trasformarsi in una serie di sacramenti da somministrare a pranzo e a cena. Perché devono assumere quest’aria ispirata quando usano il dragoncello? Perché devono parlare dello scalogno come dei carbonari che rivelano la parola segreta? Perché questa mancanza di leggerezza?”.

 

Be’, è una critica interessante, venendo da lei.

 

Mi guarda per capire se stavo facendo dello spirito sulla sua taglia, ma per fortuna decide di no. “Per tacere del modo di parlare di questi chef, veri o aspirazionali che siano. Fino a qualche anno fa lei ha mai usato il verbo impiattare? O le è mai accaduto di sentirlo usare? Eppure da qualche anno a questa parte non si fa che impiattare. Che, non solo è un verbo orribile – un parasinteto verbale, ricavato dal sostantivo piatto con l’aggiunta di due affissi – ma è anche una cosa che mi fa venir voglia di tornare al servizio alla francese”.

 

Servizio alla francese? “Presentarsi al tavolo con un piatto di portata e poi servire le porzioni a ciascun commensale”.

 

Ah, ecco. Scusi, non lo sapevo. “Qualche anno fa era d’uopo sfoggiare termini enologici per suggerire vaste competenze chic. Si parlava di corpo, sentore di frutti rossi, spigolosità polialcolica, oggi invece si parla di brunoise o di concassée e i più affettati citano Brillat-Savarin, o nel suo paese l’Artusi, senza averli letti, ovviamente. Insopportabile”.

 

Quindi lei è rinsentito nei confronti dei cuochi? “La prego, non insulti la sua intelligenza mettendomi in bocca cose che non mi sogno neppure di dire. Io non ce l’ho affatto con i cuochi, ce l’ho semplicemente contro questo istinto gregario che spinge masse che fino ad ora hanno versato in uno stato di semianalfabetismo alimentare ad atteggiarsi a chef e critici gastronomici. Sarebbe come voler diventare scrittore senza aver mai letto un libro. Prima di scrivere bisogna imparare a leggere e prima di cucinare bisogna imparare a mangiare. Voler subito brutalizzare ricette senza alcun ritegno, mi ricorda quei turisti che si affannano a scattare la stessa usuratissima foto di monumenti già fotografati milioni di volte – e anche molto meglio di loro – da altri: un’attività che ha senso a patto di includere nella foto la fidanzata. Ciascuno dovrebbe sforzarsi di trovare la propria via alla cucina, ma per giungere a ciò si devono fare i convenienti studi. E non si possono condensare dieci anni in uno. Per questo, non avendo né il tempo, né la voglia di compiere quel cursus studiorum, stipendio Fritz per i suoi servizi. Non mi sognerei mai di credermi un cuoco di alto livello, ma sono oltremodo appagato di essere un mangiatore di alto livello. In fondo la critica è l’essenza stessa dell’opera d’arte”.

 

E quindi immagino cosa potrà pensare dei programmi che mettono in gara degli aspiranti chef. “Tutto il male possibile. Li ritengo una forma di istigazione al voyeurismo. Uno spettacolo di gusto così dubbio che penso di poterne fare senz’altro a meno. La cucina ad alti livelli è un atto d’amore, una creazione che ha a che vedere con l’arte. Forse che si sarebbe mai potuto immaginare di stare appollaiati sulla spalla di Canova o di Picasso a spiarli mentre davano vita alle loro creazioni? E per far cosa, poi? Per suggerirgli di usare la gradina invece della lima o il fucsia al posto del malva? O per imparare? Peccato che non si possa imparare un talento se non lo si possiede già. Spiare un artista al lavoro – ammesso che in quei programmi vi siano degli artisti – è un’attività che immerge il voyeur nella creatività ma che lo lascia riemergere completamente vergine. Ciò che reputo un’autentica perversione”.

 

Ho capito, signor Wolfe, ma…

 

A questo punto si sente il cicalino del campanello dell’ingresso. Goodwin si alza immediatamente e va ad aprire.

 

Be’, immagino che abbia altri impegni, signor Wolfe, perciò la lascerei alle sue occupazioni (e mi dirigo al divano per recuperare il mio zainetto). “Mi scuserà se non mi alzo, ma non è un’impresa delle più rapide e…”.

 

Il monumentale detective non riesce a finire la frase perché nel mentre entra di corsa nello studio il commissario Salvo Montalbano che, senza accorgersi della mia presenza, gli mostra un sacchetto del Luke’s Lobster e con un’aria di allegro rimprovero gli dice: “Neruzzo, che ti sei amminchiato? E questo un astice me lo chiami? Per aggliuttiri questa calatina senza suco una bottiglia sana sana di Inzolia ci andò!”.

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