Un mondo di martiri

Matteo Matzuzzi

Perseguitati perché cristiani nell’Europa atea del Novecento. Il martirologio dimenticato nella guerra fredda dei totalitarismi

“Altri, poi, furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore risurrezione. Altri, infine, subirono insulti e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati – di loro il mondo non era degno! – vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra. Tutti costoro, pur essendo stati approvati a causa della loro fede, non ottennero ciò che era stato loro promesso: Dio infatti per noi aveva predisposto qualcosa di meglio, affinché essi non ottenessero la perfezione senza di noi”. (Lettera agli Ebrei 11, 35-40)

 

Il santuario
dei “nuovi martiri”,
nel pieno centro
di Roma, sull’isola Tiberina. Reliquie, storie, testimonianze

Perseguitati oggi più che nei primi secoli, ripete spesso il Papa quando idealmente sfoglia il martirologio dei cristiani, aggiornato quotidianamente. Africa, Americhe, Asia, perfino l’Europa dei campanili. Per rendersene conto non serve andare ad Aleppo o a Mosul, o nella cattedrale di Qaraqosh usata dagli sgherri del califfo come poligono d’addestramento. Basta entrare nella basilica di San Bartolomeo all’Isola, nel centro di Roma. È lì che Giovanni Paolo II volle il memoriale dei “Nuovi martiri”, quelli del XX e XXI secolo. C’è un’icona, sull’altare maggiore, che sintetizza simbolicamente tutto quel che si trova nelle cappelle laterali della chiesa. Guardandola, ci s’accorge subito che essa rappresenta l’assemblea di cui narra l’Apocalisse: “Dopo ciò apparve una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide e portavano palme nelle mani”. Incedono festosi, con rami di palma in mano, mentre sotto sono raffigurati il lager, il massacro di uomini e donne intenti a pregare, l’uccisione d’un prete albanese sorpreso a battezzare un bambino. E ancora i martiri ortodossi e delle chiese d’occidente, le vittime del fanatismo in Africa, Spagna, Messico. I prigionieri cinesi. Ogni cappella laterale della basilica è dedicata ai testimoni della fede (martiri, appunto) dei diversi continenti, del nazismo e del comunismo.

 

È proprio sulle vicende di questi ultimi che di recente l’editore Gabrielli ha mandato in stampa Testimoni della fede. Esperienze personali e collettive dei cattolici in Europa centro-orientale sotto il regime comunista, opera monumentale di Jan Mikrut, docente alla Pontificia Università Gregoriana, che fa parte del più ampio progetto editoriale sulla chiesa cattolica e il comunismo in Europa centro-orientale e in Unione sovietica. Paese per paese, è presentata “la coraggiosa, spesso eroica, testimonianza della fede di alcuni cattolici”. Esperienze che raccontano come le persecuzioni riuscirono sì a distruggere le strutture fondamentali della chiesa, ma fallirono nell’obiettivo finale di sradicare la religione dalla coscienza popolare. Di più, scrive Mikrut, “fallì il tentativo di creare un’alleanza atea nel cuore dell’Europa cristiana”. Uomini e donne che furono incarcerati, internati e costretti a vivere in condizioni disumane. “Eppure – sottolinea nella prefazione il cardinale Christoph Schönborn – anche in questi luoghi desolati, isolati dal mondo esterno, rimasero fermi nella fede, adoperandosi perché i compagni di prigionia trovassero più sopportabile la loro condizione o potessero persino fare un’esperienza religiosa di fede”.

 

Dissi alla maestra
che l’anello con il volto di Cristo non usciva, perché il dito aveva preso la sua forma.
Mi invitò a tagliarlo

Ci sono le storie note, dei grandi vescovi, da Mindszenty a Stepinac, ma a colpire – anche perché meno conosciute – sono quelle delle famiglie perseguitate solo perché, magari, in casa avevano un’immagine sacra. “Mio padre – racconta Zana, un’anziana signora albanese – era professore al politecnico 7 Novembre di Tirana. Un giorno i suoi colleghi vennero a casa nostra per una visita amichevole e si accorsero che c’erano immagini sacre e segni religiosi. Al loro rientro all’Università, si riunirono in assemblea e vi convocarono mio padre, facendogli presente il fatto e intimandogli di provvedere subito alla rimozione. Fummo costretti a smontare tutti i quadri con le immagini sacre e ad apporvi sopra delle immagini di paesaggi, di natura, ma non eliminammo le immagini sacre sottostanti, semplicemente le coprimmo”. Nell’anno 1946 – continua la testimone – “arrestarono mio zio, con l’accusa di fare propaganda contro il partito. Mia madre andava ogni giorno da lui in carcere, per lasciargli cibo e ritirare roba sporca. Un giorno, dei colleghi di mio padre videro mia madre dirigersi verso il carcere nell’orario di visita e convocarono mio padre per chiedere spiegazioni. Per questo motivo e per l’accaduto delle immagini sacre, si iniziò a paventare il licenziamento di mio padre”.

 

Si salvò solo perché lo zio, dal carcere, riuscì ad avvertirlo: “Trovò il modo di infilare nell’elastico di un paio di mutande tra i panni sporchi, un bigliettino di carta con su scritto Dite a Loro (Lorenc era il nome di mio padre) di stare attento, parlano di lui. Quel mio zio trascorse dieci anni in prigione. Nella camera di tortura gli spezzarono le ginocchia a colpi di bastone”.

 

È uno scenario, quello descritto da Zana (ma rinvenibile in così tanti altri esempi di testimonianza, che oggi può apparire lontano, quasi incredibile per l’Europa del Ventunesimo secolo: “Mio padre era un uomo di fede, ogni giorno recitava il rosario, molto spesso anche con tutta la famiglia riunita; ricordo che ci dicevano di non andare in chiesa. Io portavo un anello con il volto di Cristo, quando se ne accorse, la mia maestra mi rimproverò, chiedendomi di toglierlo. Le dissi che ormai il dito aveva preso la sua forma e non usciva. Lei mi invitò a tagliarlo”.

 

Celebravo la messa
a memoria, in latino, ogni giorno. Spremevo l’uva per fare il vino. Nessuno capiva cosa stessi facendo

Dall’Albania viene anche don Ernest Simoni, incarcerato la notte di Natale del 1963, mentre celebrava la messa a Barbullush. Arrivò anche la condanna a morte, poi commutata nei lavori forzati. Avrebbe riacquistato la libertà solo ventisette anni più tardi, nel 1990. Prima, sei anni in una cava di marmo, a spaccare pietre con una mazza di venti chili, quindi dodici in miniera, lavorando con temperature che sfioravano i quaranta gradi. Infine, il lavoro nelle fogne di Scutari. Eppure, continuava a celebrare messa, “tutti i giorni, in latino, a memoria. I professori musulmani miei amici mi portavano l’uva per spremerla, così da fare il vino. L’ostia la facevo su piccoli fornelli. Confessavo gli altri carcerati, distribuivo la comunione. E nessuno capiva cosa stessi facendo”. Odio per gli aguzzini? Neanche a parlarne. Riconquistata la libertà, ha perdonato i carcerieri, da quelli illustri agli sgherri che controllavano che facesse bene il suo lavoro nelle miniere di Spac, pena i ripetuti “colpi sui talloni con i manganelli”. “Con l’arrivo della libertà religiosa, il Signore mi ha aiutato a servire tanti villaggi e a riconciliare molte persone in vendetta con la croce di Cristo”. Il Papa, nel settembre del 2014, ascoltò la testimonianza di questo prete di ottantott’anni. Si commosse e decise che don Ernest Simoni sarebbe divenuto cardinale, cosa avvenuta lo scorso autunno.

 

Il martirologio novecentesco dell’Europa divisa dalla cortina di ferro ha numeri impressionanti: si pensi alla Polonia che avrebbe dato alla chiesa Giovanni Paolo II. Dopo la fine della guerra e prima del 1953, qui furono arrestati o dovettero lasciare le loro diocesi dodici vescovi, quattro sacerdoti furono condannati dai tribunali e fucilati, trentasette uccisi senza una condanna. Duecentosessanta furono dichiarati scomparsi, trecentocinquanta spostati altrove. Mille arrestati, milleduecento cacciati dalle parrocchie. Più a sud, nella piccola Slovenia, nel quindicennio compreso tra il 1945 e il 1961 furono condannati senza processo quattrocentoventicinque sacerdoti. “Trecentotrentanove di loro subirono ogni sorta di vessazioni in carcere e nove, dopo processi farsa, furono condannati a morte”, scrive Mikrut. Lo stato, in una manciata d’anni, aveva così ridotto totalmente la libertà di culto e proibito ogni attività fuori dalla chiesa parrocchiale.

 

Nella Cecoslovacchia di Josef Beran, l’arcivescovo di Praga che recatosi a Roma per ricevere la porpora cardinalizia non poté più rientrare in patria perché così aveva deciso il regime, i preti venivano destinati alle singole parrocchie direttamente dal governo. Tutto era controllato. La polizia segreta tendeva trappole per imbrigliare nelle proprie reti i religiosi rei di tramare contro lo stato, di “tradire” la causa suprema. Come suor Zdenka, che dall’ospedale in cui lavorava, a Bratislava, aiutò un sacerdote, Stefan Kostial, a fuggire. Le andò bene una volta, la seconda fu attirata in un tranello e per questo arrestata. “Il 29 febbraio la suora venne arrestata e durante gli interrogatori dovette subire terrificanti vessazioni e torture, volte a costringerla a svelare informazioni che non avevano niente a che vedere con i motivi del suo arresto”, ricorda Jan Mikrut. “Volevano estorcermi delle informazioni false. Quando rifiutai di farlo, mi portarono in un luogo, dove vi era una vasca grande piena d’acqua. L’uomo che doveva interrogarmi – è la testimonianza di suor Zdenka – mi prese così com’ero, vestita. Mi lanciò in acqua e mi tenne la testa immersa. Quando rifiutai di rispondere alle sue domande, mi rimise di nuovo la testa in acqua. Questa operazione si ripeté circa dieci volte. Non potevo respirare e non sapevo dove mi trovavo. Alla fine, mi diedero degli occhiali con le lenti scure e mi misero in una cella senza finestra. Sono rimasta così com’ero, con i vestiti bagnati. Non so quanto sia stato difficile tutto questo. Quando tornai in me, cercai qualcosa da potermi mettere sotto la testa. Non trovai nulla. Rimasi scalza e mi misi le scarpe sotto la testa. Queste erano più morbide del cemento freddo”. Stremata e malata, la religiosa sarebbe morta tre anni più tardi, trentottenne, mentre davanti a lei si stava celebrando la messa. Giovanni Paolo II la proclamò beata il 14 settembre 2003, la prima donna beata della storia contemporanea.

 

Le Viae Crucis
della ex Jugoslavia,
con le teorie di cristiani in fuga dalle rappresaglie partigiane. Pochi si salvarono

“Quante volte, in momenti difficili della storia, si è sentito dire: ‘Oggi la patria ha bisogno di eroi’. Il martire può essere pensato come un eroe, ma la cosa fondamentale del martire è che è stato un ‘graziato’: è la grazia di Dio, non il coraggio, quello che ci fa martiri”, diceva il Papa nell’omelia pronunciata a San Bartolomeo all’isola. “Oggi, allo stesso modo ci si può chiedere: ‘Di che cosa ha bisogno oggi la Chiesa?’. Di martiri, di testimoni, cioè dei santi di tutti i giorni. Perché la Chiesa la portano avanti i santi. I santi: senza di loro, la Chiesa non può andare avanti. La Chiesa ha bisogno dei santi di tutti i giorni, quelli della vita ordinaria, portata avanti con coerenza; ma anche di coloro che hanno il coraggio di accettare la grazia di essere testimoni fino alla fine, fino alla morte. Tutti costoro sono il sangue vivo della Chiesa”. Anche quelli che ce l’hanno fatta e che hanno testimoniato, non con la vita, ma con le parole, la persecuzione. Padre Tomas Hidlik, cecoslovacco, ricorda sempre i momenti della sua ordinazione, nella Germania dell’est. “Nell’estate del 1978, tutto era pronto, stavamo solo aspettando che dalla Germania arrivasse il segnale concordato. Proprio in quei giorni, ci raggiunse la notizia della morte del Papa Giovanni Paolo I: pensavamo che ciò avrebbe potuto comportare un freno alle ordinazioni segrete, in attesa di conoscere il nuovo Pontefice e capire quale posizione avrebbe preso nei confronti della chiesa sotterranea del blocco orientale. E, invece, il messaggio in codice del vescovo Meisner non si fece attendere. Poco prima della partenza, mi recai dal mio confessore per la confessione generale di tutta la vita. Poi, preparammo su un tavolino il necessario per celebrare una messa e accendemmo un istante la radio, visto che in Vaticano si stava svolgendo il conclave. Improvvisamente, alla radio vaticana un annuncio concitato interruppe il programma in corso, per trasmettere in diretta da piazza San Pietro queste parole, rivolte al mondo intero: Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam! Eminentissimum ac reverendissimum dominum, dominum Carolum, Sanctae romanae ecclesiae, cardinalem Wojtyla. Un papa dell’est! Rimasi come folgorato. Era impossibile esprimere a parole la nostra gioia”. Quindi l’ordinazione, come in un film d’azione: “Era il sabato 21 ottobre del 1978. Poco dopo le cinque del pomeriggio, fui ordinato sacerdote dal vescovo Hugo Aufderbeck, nella cappella privata della sua abitazione, all’ombra del duomo di Erfurt. Mi portarono a casa del vescovo sul sedile posteriore di un’auto, ricoperto da un cappotto: non avevamo la sicurezza che l’ingresso della residenza vescovile non fosse controllato da una telecamera della polizia segreta”.

 

Tanti altri hanno pagato con la vita la fedeltà alla chiesa. Si chiamano Viae Crucis i percorsi seguiti da migliaia di civili per cercare la salvezza in Austria, braccati dai partigiani titini in quella che era la Jugoslavia. Spesso, il confine era chiuso, creando così la trappola fatale: decine di cattolici furono eliminati, nei boschi, senza che si sappia neppure dove siano sepolti. Le rappresaglie erano terribili. Kresimir Barisic aveva trent’anni quando fu nominato parroco di Krnjeusa. Il 2 agosto scoppiò la rivolta dei comunisti e dei cetnici nella sua parrocchia, diffondendosi per tutto l’ampio territorio. “Pochi giorni dopo – ricorda Mikrut – ci fu il massacro generale di tutti i cattolici della zona, per lo più civili, ovvero donne, bambini, anziani: nessuno venne risparmiato. Tutte le case della parrocchia vennero bruciate. Il parroco Barisic fu ferito durante l’attacco e fatto prigioniero, crudelmente torturato e infine gettato nella chiesa parrocchiale in fiamme, morendo così quasi completamente carbonizzato. I pochi sopravvissuti fuggirono e dopo la guerra non fu permesso loro di ritornare. Della parrocchia, oggi non c’è traccia”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.